FIGLIE DELLA CHIESA, , LECTIO XXIV Domenica del Tempo Ordinario
XXIV Domenica del Tempo Ordinario
Lun, 09 Set 19 Lectio Divina - Anno C
Nel brano evangelico odierno vengono proposte tre parabole che Gesù ha pronunciato in circostanze simili e che Luca ha voluto mantenere collegate tra loro. La saldatura tra le parti è stata affidata a dei verbi che rivelano il senso più profondo di questa unità evangelica. Anzitutto alla coppia perdere-trovare: l’uno e l’altro ricorrono otto volte e, oltre al significato concreto, ne hanno uno metaforico, equivalente al nostro perdersi e ritrovarsi. In secondo luogo, l’insieme dei verbi che significano gioire e fare festa. Quasi a sancirne l’importanza, tutti questi verbi ricorrono nel versetto finale (‘bisognava fare festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato’), versetto in cui si trova la chiave interpretativa delle parabole.
Un accostamento superficiale tra la prima lettura e il vangelo potrebbe indurre a stabilire un confronto tra un Dio (dell’Antico Testamento) pronto ad annientare il popolo che ha peccato di idolatria e un Dio (del Nuovo Testamento) infinitamente comprensivo e misericordioso nei confronti del peccatore. Nelle pieghe del testo di Esodo si scorgono invece elementi più significativi: il popolo appartiene a JHWH, non semplicemente in virtù della fedeltà del popolo alla Torà, ma in ultima analisi in conseguenza dell’impegno assunto da Dio stesso. Mosè sembra dire: Ricordati chi sei e ri-conosci il tuo popolo! Stupenda è la conclusione, che alla lettera dice: “Si pentì JHWH del male che aveva detto di fare al popolo suo”. Il possessivo, posto al culmine è in assonanza con la conclusione di Lc 15: “era perduto ed è stato ritrovato”. In Esodo e in Lc 15 si sente fremere la calda passione di Dio, di un Dio affettivamente coinvolto nel rapporto con il suo popolo.
v.1: Gesù si rivolge in primo luogo a chi si aggira nella sfera sacra della purità e nel perimetro sociale dell’integrazione. Dà quindi la precedenza a poveri, malati, donne e peccatori, proclamando soprattutto a costoro l’ormai prossimo capovolgimento di situazione. Gesù mostra Dio come un padre che freme di passione e compassione in primo luogo per i figli più deboli e sofferenti e fa di tutto per migliorare la loro condizione, senza nulla chiedere in cambio, semplicemente perché sono suoi figli. Per il Dio di Gesù conta solo che ogni uomo possa sentirsi destinatario delle promesse divine.
v.6: Il trinomio perdere-trovare-gioire traduce questa dinamica: in Gesù Dio va alla ricerca di chi si trova perduto. Raggiunto, il ritrovato si unisce al suo popolo per esprimere nella festa la gioia della reintegrazione ottenuta. Ma qui sorgono i problemi. Per gli altri, i già integrati, un Dio così premuroso verso chi non lo merita e l’offerta di una salvezza gratuita risultano insopportabili. Soprattutto gli osservanti della Torà (scribi e farisei) e i depositari del sacro (i sacerdoti) ritenevano che l’Israele redento e liberato avrebbe coinciso soltanto con l’Israele ligio ai dettami legali. In fondo, la salvezza deriva dal riconoscimento divino rispetto a un adeguato comportamento umano. E’ più conquista che dono. Per quanti condividevano questa linea di pensiero l’agire di Gesù era motivo di inquietudine e di irritazione, comunque di opposizione.
v.17: Il figlio minore fa una esperienza di questo genere: servo, ma per di più “a pascolare i porci”. Siamo in “terra pagana”, perché “i porci” in Israele non ci sono. Il porco è un animale immondo, non viene evidentemente allevato da ebrei e dovere andare a pascolare i porci per un ragazzo deve essere il massimo del degrado, peggio di così non poteva finire. E chiaramente la parabola deve dire questo: deve fare scendere il figlio minore fino al punto minimo, dove non si può scendere ancora più in basso: pascolare i porci. “Avrebbe voluto saziarsi con le carrube che mangiavano i porci; ma nessuno gliene dava”, che vuole dire: non solo “guardiano di porci”, ma, come condizione, “peggio dei porci”. Allora bisogna trovare un’altra direzione, e la parabola la ritrova con questa parola: “Allora rientrò in se stesso”. Questo “rientrò in se stesso” è nella parabola il primo verbo che esprima un sentimento. Ebbene, la caratteristica del figlio minore è il rientrare in se stesso, cioè prendere coscienza della propria condizione, della abiezione in cui è finito, di quanto profondo sia il peccato, dell’esperienza di degrado nella sua vita. “Rientrò in se stesso”, che è un atteggiamento fondamentale dal punto di vista della conversione, e in fondo dal punto di vista della maturità umana.
v.19: C’è una crescita nella consapevolezza di questo ragazzo. Perché era partito da casa immaginando che suo padre fosse un tiranno, si sentiva schiavo, e voleva togliere tutte le catene: il padre è padrone, anzi è addirittura tiranno. Adesso incomincia a desiderare un padre padrone, perché incomincia in qualche modo ad avere invidia dei servi di suo padre. Lui è arrivato a fare il servo in un modo così degradante, che la condizione dei servi in casa di suo padre gli appare desiderabile. Questo figlio si è allontanato da casa perché pensava che suo padre fosse un tiranno, ritorna a casa con la speranza che suo padre sia un padrone, lo tratti come un padrone tratta i suoi servi, come tratta gli altri servi possa trattare anche lui. Questa è la conversione del figlio prodigo, ma in realtà non è una grande conversione. Non è una grande conversione, perché non ritorna per amore di suo padre, ma ritorna per fame, ritorna con il desiderio di saziarsi, di potere vivere in un modo meno disagiato di quello attuale. Non gli dispiace di aver fatto soffrire suo padre, non ci pensa, questo è ancora fuori dalla sua ottica. Il motivo per cui gli dispiace il suo comportamento, è il risultato, l’effetto che ha ottenuto: ha ottenuto un risultato disastroso e quindi gli dispiace di essere andato via da casa. Spera di tornare, vuole tornare come un salariato.
v.20: Il padre vede il figlio minore arrivare; e c’è il secondo verbo: “commosso”, ed è il verbo che definisce la figura del padre. “Commosso” vuole dire: “gli si sono mosse dentro le viscere”; sono viscere materne che anche un padre possiede, per cui quando è di fronte a suo figlio, non riesce ad essere un freddo calcolatore misurato, ma si lascia afferrare dalla emozione, è come costretto dalle sue viscere a una serie di comportamenti che sono dell’amore, della tenerezza, della compassione, della bontà, della misericordia.
v.28: Il figlio maggiore “si arrabbiò”. E questo “si arrabbiò” è giustificato da un ragionamento che ha una logica stringente, ma il ragionamento suppone che il padre sia un padrone e che i figli siano dei salariati, perché questo è il discorso: “io ti servo da tanti anni (…) non ho mai avuto un capretto”; cioè il rapporto tra lui e il padre è stato da salariato a datore di lavoro, ha sempre ricevuto quello che gli spettava come stipendio (salario), ma niente di più. Questa figura del figlio maggiore è il rappresentante di una religiosità seria e impegnata ma di scambio, la religiosità salariale; la religiosità dove Dio è datore di lavoro e l’uomo è un operaio, per cui secondo il lavoro che l’operaio compie ha diritto ad un salario corrispondente. Tutto quello che non entra in questo sistema di scambio economico diventa incomprensibile.
Il padre va incontro a lui come era andato incontro al minore. E’ sempre il padre a prendere l’iniziativa e a muovere il primo passo per accorciare le distanze.
v.32: Il fratello maggiore parla al padre del fratello chiamandolo “tuo figlio”: e il padre parla del figlio minore al maggiore indicandolo come “tuo fratello”. E’ lo stesso gioco dei pronomi personali che abbiamo notato nel brano dell’Esodo. Ma non si tratta di un gioco: si tratta di cogliere correttamente la dinamica del rapporto con Dio che è chiaramente rapporto interpersonale.
Fonte:https://www.figliedellachiesa.org/it
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