Alessandro Cortesi op, Commento XXVII domenica tempo ordinario – anno C

XXVII domenica tempo ordinario – anno C – 2019
Ab 1,2-3; 2,2-4; 2Tim 1,6-14; Lc 17,5-10


“Fino a quando Signore implorerò e non ascolti, a te alzerò il grido ‘Violenza!’ e non soccorri? Perché mi fai vedere l’iniquità e resti spettatore dell’oppressione?”

La domanda del profeta: ‘Fino a quando?’ è denuncia dell’ingiustizia e della condizione di oppressione e violenza. Ed è anche implorazione a Dio. Domanda che rimane sospesa. “Fino a quando Signore?” È la preghiera anche dei salmi che rivolgendosi a Dio non possono non guardare allo scandalo del male e dell’ingiustizia. “Perché mi fai vedere l’iniquità e resti spettatore dell’oppressione?… Non ha più forza la legge né mai si afferma il diritto. L’empio infatti raggira il giusto e il giudizio ne esce stravolto”.

La triste esperienza della legge stravolta, dei giudizi tramutati in esaltazione della truffa, l’arroganza dei disonesti che schiacciano i deboli e la corruzione del giudizio, fa sorgere la drammatica domanda che investe la stessa fede e la spoglia di ogni presunzione e sicurezza.

Abacuc guarda non solo alle sofferenze di un singolo ma pone una domanda che tocca una realtà più ampia. Come può Dio, il santo, colui che ha occhi troppo puri per vedere il male, permettere che sia un popolo barbaro a compiere vendetta e che popoli malvagi vengano offesi da popoli ancora più malvagi? La sua domanda si pone nella linea della provocazione di Giobbe: disorienta le teologie che intendono tutto spiegare. La sua pagina è esemplare del coraggio del profeta che apre domande difficili e le rivolge a Dio stesso. Nell’annuncio della risposta di Dio viene indicato un termine: l’ingiustizia e la violenza non sono l’ultima parola. Ma è richiesto di attendere, di sperimentare una radicale fiducia in Dio.

Come tenere insieme la fiducia nel Dio buono e giusto e le tragedie storiche d’ingiustizia e oppressione? Abacuc invita ad avere il coraggio di lanciare verso Dio il grido che sorge dal dolore, a vivere l’attesa.

E’ la domanda che risuona nel grido di ogni credente che non volge le spalle ad Auschwitz. Ed è ancora e sempre la domanda che si leva come grido silenzioso di fronte alla barbarie, all’orrore, alla violenza.

Abacuc nel suo breve libro richiama l’atteggiamento del giusto: ‘soccombe colui che non ha l’animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua fede’. Il giusto è colui che, senza scorciatoie, senza facili risposte al male, mantiene la sua fedeltà rivolta al Dio della vita. Trova la sua stabilità in tale affidamento.

La sfida del credere è vivere il presente, con il cuore rivolto a Dio senza far venir meno la domanda ‘fino a quando?’ Credere non è quindi percorso senza problemi. La fatica interiore del credente proviene dallo scorgere le contraddizioni della storia.

La fede rimane sospesa alla fedeltà di colui che non verrà meno alle sue promesse, che chiama a solidarietà con le vittime dell’ingiustizia.

Il vangelo richiama lo stile del credere: credere non è adesione ad una serie di dottrine, è invece incontro e cammino, coinvolgimento della vita in una relazione con Dio.  E’ affidamento. ‘Accresci la nostra fede’ è espressione di un cammino che sempre mantiene la ricerca. Non sono facilmente eliminati i problemi e le difficoltà del pensare, del confronto con la storia e la vita. Non sono eliminate le fatiche di vedere il suo cammino come una sorta di illusione inutile. Il credente è presentato nel vangelo di Luca come colui che non trova in sé la forza per affidarsi a colui che salva.

Per parlare della fede Gesù indica un granellino di senapa, il più piccolo di tutti i semi. La vita della fede non è opera umana, non è realtà che s’impone e nemmeno qualcosa di grande, è piuttosto lasciare spazio all’azione di Dio. Per questo la preghiera del credente è richiesta di cammino: “Accresci in noi la fede”. Chi crede è – dice Luca – come colui che risponde ad un incarico affidatogli. Sta qui il messaggio al centro della parabola del servo. Il senso della sua vita sta nella relazione con qualcuno che attende e a cui rispondere. Non è questione di diritti e pretese, ma riconosce di essere ‘semplice servo’ (non ‘inutile’, ma unicamente servo).

Nel rapporto con Dio il grande dono è poter assumere l’attitudine di Gesù che è stata quella del servo: e rimanere come lui. Nell’immagine qui utilizzata del servo, che agisce e attende, l’accento non sta sul rapporto servo-padrone quasi che l’atto di fede sia riconducibile ad un rapporto schiavistico e oppressivo della libertà. Piuttosto chi crede scopre come tutto ciò che è ed ha proviene da un dono e va messo a servizio di altri. Come Gesù che si è chinato per lavare i piedi dei suoi discepoli assumendo la condizione del servo. E indicando ai suoi: anche voi fate così.

Alessandro Cortesi op

Fonte:https://alessandrocortesi2012.wordpress.com

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