FIGLIE DELLA CHIESA, LECTIO DIVINA,XXXII Domenica del Tempo Ordinario

XXXII Domenica del Tempo Ordinario
 Lun, 04 Nov 19  Lectio Divina - Anno C


In Israele la fede nella risurrezione si formula esplicitamente piuttosto tardi. Non parte dal presupposto filosofico dell’immortalità dell’anima, ma dall’esperienza della promessa e della potenza di Dio. Il suo amore dura in eterno e non può venire meno neanche davanti alla morte; deve vincerla e farci risorgere per mantenere la sua fedeltà a noi. Questa rivelazione, fondata nel Pentateuco, si sviluppa attraverso i profeti; la fede cristiana ha il suo inizio nella risurrezione di Gesù.

La prima lettura, tratta dal secondo libro dei Maccabei, narra il martirio di sette fratelli al tempo della persecuzione di Antioco Epifane. Per rimanere fedeli alla legge essi accettano la tortura e la morte; ma proprio perché la loro morte è una conseguenza dell’obbedienza a Dio, essa non può risolversi in una sconfitta. La fede nella risurrezione diventa un elemento essenziale per dare valore all’obbedienza del credente. Gli uomini possono certo mettere a morte; ma ciò che gli uomini fanno, ed è in loro potere, non può certo impedire l’azione divina. Credere nella risurrezione significa credere che Dio mantiene l’ultima parola sulla vita dei credenti.

 v.27: I sadducei costituiscono un gruppo giudaico il cui nome deriva da Sadoq, un sacerdote del tempo di Salomone. Inferiori numericamente ai farisei, i sadducei raggruppavano le famiglie sacerdotali e quelle abbienti. Costituivano un mondo chiuso, pago del suo benessere, che considerava segno visibile della benedizione divina. I sadducei non credevano nella risurrezione, anche perché questa sarebbe stata un giudizio della loro vita terrena che non brillava certo per esemplarità. Ammettevano unicamente la Legge scritta e riconoscevano solo i primi cinque libri della Bibbia: il Pentateuco.

v.33: Il ragionamento dei sadducei è preciso: la fede nella risurrezione, dicono, non è compatibile con la legge di Mosè. La dimostrazione è fatta partendo da una legge famosa del Deuteronomio, che va sotto il nome di “Legge del levirato” (Dt 25, 5-6). Dice questa Legge: se un uomo sposato muore senza aver avuto figli, la vedova “non si mariterà fuori, con un forestiero”; sposerà invece il fratello del marito morto, in modo da poter dare una discendenza a colui che è morto senza figli: “Il primogenito che essa metterà al mondo, andrà sotto il nome del fratello morto, perché il nome di questo non s’estingua in Israele”. Scopo della legge era garantire all’uomo una discendenza, una speranza di sopravvivenza nei figli. Una legge come questa, dicono i sadducei, è incompatibile con la fede nella risurrezione. Può accadere infatti che una donna sposi successivamente sette fratelli. Ora, se i morti risorgono, come sistemare una situazione così intricata nel mondo futuro? Ha avuto sette mariti: chi sarà il suo marito nell’aldilà? In questo modo i sadducei pensano di avere ridotto all’assurdità la tesi di coloro che, come i farisei, credono nella risurrezione del morti.

 v.36: Gesù dà una doppia risposta: prima, controbatte l’affermazione del sadducei; poi, positivamente, propone un riferimento all’Antico Testamento che fondi solidamente la fede nella risurrezione. Qual è l’errore del sadducei? Immaginare che la vita del risorto sia semplicemente la continuazione della vita terrena, con gli stessi legami, le medesime esperienze. Immaginare in questo modo l’aldilà porta inevitabilmente a difficoltà insuperabili; si mescolano, infatti, leggi proprie della condizione mondana con una situazione che è, al contrario, la liberazione dai condizionamenti mondani. Non è così che si deve ragionare: la risurrezione significa ingresso in una nuova condizione di vita, della quale non possiamo dire molto. Gesù dice solo che i risorti “non prendono moglie o marito”, “non possono più morire” (Lc 20, 35. 36a); poi, positivamente che sono “uguali agli angeli”, “figli della risurrezione” e “figli di Dio” (Lc 20, 36b). Affermazioni dalle quali ben poco si può trarre per soddisfare una immaginazione curiosa.

 v.37: Di tante immagini che dall’Antico Testamento si potevano prendere per dire che Dio è il Dio dei vivi e non dei morti, si prende l’immagine che ha come contesto il roveto, immagine che i padri della chiesa hanno interpretato come segno dell’amore che Dio ha per noi: un amore che arde, per cui Dio arde, ma un amore che non consuma Dio. Si comincia a intravedere il discorso della risurrezione e della vita legato a un Dio che arde per noi senza consumarsi. L’amore con cui Dio arde e non si consuma è l’amore che Dio ci ha manifestato in Cristo.

Ma particolarmente interessante è il modo in cui Gesù trae dal Pentateuco il fondamento della fede nella resurrezione. Non si appella ad una affermazione particolare, ma si appoggia a quello che è il centro della rivelazione biblica vetero-testamentaria: il rapporto di amicizia che Dio ha stabilito con i patriarchi. Questo rapporto è fuori discussione; è la base a cui si appella ogni giudeo credente quando deve chiedere l’aiuto di Dio. Il Dio della rivelazione è il “Dio degli uomini”; anzi, il suo nome stesso è “Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe”. La conseguenza è inevitabile: “Dio non è Dio dei morti, ma dei vivi; perché tutti vivono per lui”. Questo significa: anzitutto Dio è più forte della morte e perciò la morte non può distruggere quei legami che Dio stesso ha stabilito. Ma non basta: il legame di alleanza definisce l’esistenza dei patriarchi (sono amici di Dio), ma definisce anche l’esistenza di Dio (è il Dio di Abramo…). Se voi togliete Abramo a Dio, è l’identità stessa di Dio che viene alterata. S’intende: l’identità del Dio che si è rivelato, come “alleato” dell’uomo. Insomma: Abramo è necessario perché Dio sia davvero quello che lui ha rivelato di essere. Certo, Dio avrebbe potuto fare a meno di Abramo; ma una volta che lo ha scelto, Abramo non può più rimanere sotto la sovranità distruttrice della morte. Ormai “tutti vivono per Lui”: tutti ricevono da Lui la loro esistenza e tutti esistono per la gloria di Lui. In questo modo la fede nella risurrezione viene presentata in tutta la sua valenza: non è solo un articolo di fede accanto a molti altri; è, piuttosto, un’affermazione necessaria per esprimere in modo esaustivo il contenuto essenziale della fede biblica.

È un ragionamento stupendo sulla risurrezione: guardate la vostra vita: siete segnati con il sigillo di appartenenza a Dio che è il sigillo del battesimo. Questo sigillo porta in sé il seme della risurrezione, perché il Signore è legato a voi, e noi siamo legati a lui; Dio è per noi. Ora, se Dio è per noi, chi potrà essere contro di noi? Chi potrà annientare la nostra vita? Una cosa è chiara: siccome Dio ha costruito con noi un vero legame di amicizia, non immaginario ma reale, allora abbiamo davanti a noi la speranza della risurrezione. Il fondamento è l’amore di Dio e la sua potenza.

 v.38: Dio non è il Dio dei morti, ma dei vivi. Questo cosa vuol dire? Che la risurrezione dei morti è strettamente legata al fatto che Dio non sia il Dio dei morti ma dei vivi. Dio vive: allora la vita e la risurrezione dei morti non è essenzialmente un ritorno alla vita, ma è una vita in Dio. La risurrezione dei morti non è la rianimazione di un corpo che se ne è andato, ma è la vita in Lui. Ormai al concetto di morte non si oppone la vita, ma si oppone Dio, e Dio all’apice della sua manifestazione, cioè il Cristo. Il contrario della morte, nel vangelo, risulta essere non la vita, ma Cristo. Allora davanti a ogni situazione di morte non possiamo opporre una scelta di vita, ma possiamo opporre il Cristo. La morte è negata non dalla vita, ma dal Cristo.

Si è vivi perché tutti vivono per Lui. La vita è vera vita solo quando si vive per Dio.

Fonte:https://www.figliedellachiesa.org/


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