p. Gaetano Piccolo SJ, "Imparare a contare i propri giorni"

XXXII Domenica del Tempo Ordinario - Anno C
2 Mac 7, 1-2. 9-14; Sal 16; 2 Ts 2, 16 - 3, 5; Lc 20, 27-38.
Congregatio pro Clericis
 


«La prima passione in nome di Cristo,

che ognuno deve provare,

è la chiamata che ci chiama fuori

dai vincoli di questo mondo».

D. Bonhoeffer



Imparare a contare i propri giorni

Una delle regole per fare una scelta è, secondo Sant’Ignazio di Loyola, negli Esercizi spirituali [al n. 186], quella di immaginarsi in punto di morte e riguardare da lì la propria vita: “mi chiederò allora quale criterio e misura avrei voluto tenere in quella scelta”.

Ignazio sta rievocando una lunga tradizione spirituale che ha visto nella meditazione sulla morte un valido esercizio per riconoscere il senso più profondo dell’esistenza. Si tratta di una tradizione che ovviamente si fonda sulla sapienza biblica, basti pensare al Salmo 90, in cui il salmista prega Dio affinché gli insegni a contare i suoi giorni. È questa infatti l’unica via per ottenere la sapienza del cuore.

Ci sono due modi di guardare la morte: il primo consiste nel vederla come la fine drammatica della propria vita, il limite di un’esistenza che rischia di restare senza senso - è lo sguardo cupo che conduce a pensare che in fondo è inutile affaticarsi in questa vita - oppure la morte può essere vista come la soglia da attraversare per continuare la vita per sempre. Può sembrare strano, ma la nostra fede, come dice San Paolo, si gioca in questo sguardo, perché da questo dipende il modo in cui ciascuno vive. La vita del cristiano è iniziata con il battesimo e non finirà più, da quel fonte battesimale è cominciata la vita eterna!



La paura della morte

La nostra cultura tende invece a esorcizzare la morte, ci fa paura, vorremmo eliminarne le tracce. E per questo, proviamo a ironizzare sulla morte, proprio come fanno i Sadducei di questo testo del Vangelo. I Sadducei, come alcuni nostri contemporanei, anche che si dicono cristiani, dicono no a tutto, non credono quasi a niente, non credono agli angeli né agli spiriti, della Bibbia, essi salvavano solo il Pentateuco, e soprattutto non credevano alla risurrezione.

I Sadducei erano i grandi latifondisti del tempo, ricchi proprietari terrieri, che temevano di perdere le loro proprietà. Proprio per questo avevano paura che il patrimonio si disperdesse nella suddivisione tra i discendenti. Ecco perché li vediamo ironizzare su un istituto estremamente importante per il pio israelita, cioè quella legge del levirato che imponeva al fratello del defunto di prendere in moglie la vedova per dare una discendenza a chi moriva. Dietro questa legge c’è un profondo desiderio religioso: colui che moriva avrebbe potuto vedere l’avvento del Messia, tanto atteso dagli Ebrei, attraverso gli occhi della sua discendenza. Chi invece non aveva discendenza non avrebbe avuto più la speranza di colmare quell’attesa fondamentale di vedere il Messia.



Incapaci di generare vita

I Sadducei sono persone che vivono radicate nel loro benessere e cercano di esorcizzare ogni attentato alla loro proprietà. Anche in questo la loro mentalità si ritrova molto in quella contemporanea. Proprio per mettere in ridicolo questa prassi, che contrastava con il loro attaccamento ai beni, inventano una storia che in realtà parla inconsapevolmente proprio di loro. Raccontano infatti di una donna che non riesce a generare e di uomini che la prendono in moglie, l’uno dopo l’altro. Uomini che muoiono senza dare vita.

Ecco chi sono i Sadducei. Ma ecco ciò che spesso siamo anche noi: persone così attaccate alle loro cose da diventare incapaci di generare. La nostra vita diventa sterile perché non siamo più capaci di donare. Tratteniamo invece di dare. Ci illudiamo di possedere, fino a quando la realtà bussa alla nostra porta e ci costringe a renderci conto che non c’è nulla che possiamo considerare nostra proprietà. Tutto ci viene donato, eppure noi confondiamo il dono con un possesso. Vigiliamo ingenuamente sulle nostre proprietà, sulle nostre relazioni, sui nostri ruoli, sui nostri affetti, dimenticando che tutto passa.

Proprio come gli uomini della storia che inventano, i Sadducei non vivono l’amore, ma vogliono possedere: quei mariti prendevano moglie, considerano la donna come un oggetto, una parte della proprietà. Quando le relazioni sono vissute come possesso diventano appunto sterili. Le persone invece vanno accolte, non prese!



Non è l’ultima parola

Quando cominceremo a vivere la logica del dono, non solo entreremo nella vita eterna, ma cominceremo a diventare simili a Dio. È Lui infatti il primo a vivere così, è Lui il primo che si è espropriato di se stesso per fare spazio all’umanità. È Lui che per primo ha donato la vita senza trattenerla.

Il nostro Dio, dice Gesù, è il Dio dei Viventi, non dei morti. Vuol dire che la morte non ha a che fare con Lui. Tutto quello che è morte, l’egoismo, la divisione, la superbia, l’invidia, la paura…tutto quello che ha i segni della morte non appartiene a Dio. La morte allora non può essere mai l’ultima parola, perché noi apparteniamo a Dio!



Leggersi dentro

-  Se oggi fosse l’ultimo giorno della tua vita, come valuteresti le scelte importanti che hai fatto?

-  Quale immagine di Dio nasconde il tuo modo di guardare alla morte?



P. Gaetano Piccolo S.I.

Compagnia di Gesù (Societas Iesu)

Fonte:http://www.clerus.va/


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