Thomas Merton, 3. Semi di contemplazione



3. Semi di contemplazione


Tu qui sedes in tenebris
spe tua gaude:
orta stella matutina
sol non tardabit




Ogni momento e ogni evento della vita di ogni uomo sulla terra getta un seme nella sua anima. Come il vento trasporta migliaia di semi alati, così il flusso del tempo reca con sé germi di vitalità spirituale che si posano, impercettibili, nella mente e nella volontà degli uomini. La maggior parte di questi innumerevoli semi muore e va perduta, perché gli uomini non sono preparati a riceverli: tali semi infatti possono germogliare soltanto nella buona terra della libertà, della spontaneità e dell’amore.

Questo non è un concetto nuovo. Cristo, nella parabola del seminatore, molto tempo fa ci disse che «il seme è la parola di Dio». Spesso pensiamo che questo si riferisca solo alla parola del Vangelo come viene predicata ufficialmente nelle chiese la domenica. Ma ogni espressione della volontà di Dio è, in un certo senso, una «parola» di Dio e quindi un «seme» di vita nuova. La realtà sempre mutevole in mezzo alla quale viviamo dovrebbe aprirci gli occhi alla possibilità di un dialogo ininterrotto con Dio. Con questo non intendo un «parlare» continuo, oppure una frivola forma interlocutoria di preghiera emotiva, come si usa qualche volta nei conventi, ma un dialogo di amore e di elezione. Un dialogo tra volontà profonde.

In ogni situazione della vita la «volontà di Dio» ci si manifesta non meramente come dettame esterno di una legge impersonale, ma soprattutto come un invito interiore di amore personale. Troppo spesso il concetto corrente di «volontà di Dio» intesa come forza arbitraria, impenetrabile, che s’impone con implacabile ostilità, spinge gli uomini a perdere la fede in un Dio che è per loro impossibile amare. Una simile interpretazione della volontà divina spinge la debolezza umana alla disperazione; e ci si domanda se non sia spesso l’espressione di una disperazione troppo intollerabile per essere ammessa coscientemente. Questi «dettami» arbitrari di un Padre dispotico e insensibile sono più spesso semi d’odio che semi d’amore. Se tale è il nostro concetto della volontà di Dio, ci è preclusa ogni possibilità di perseguire l’oscuro e intimo mistero dell’incontro che ha luogo nella contemplazione. L’unico nostro desiderio sarà quello di fuggire il più lontano possibile da Lui e nasconderci per sempre dal Suo volto. Così importante è l’idea che ci facciamo di Dio! Eppure nessuna idea che possiamo avere di Lui, per quanto pura e perfetta può esprimerlo quale Egli realmente è. L’idea che noi ci facciamo di Dio è più rivelatrice di noi stessi che di Lui.

Dobbiamo imparare a capire che l’amore di Dio ci cerca in ogni situazione, e cerca il nostro bene. Il Suo amore inscrutabile è sempre alla ricerca del nostro risveglio. È vero che, poiché questo risveglio implica in un certo senso la morte del nostro io esteriore, noi lo temiamo nella misura in cui ci identifichiamo con questo io esteriore e restiamo ad esso attaccati. Ma se capiremo la dialettica della vita e della morte, impareremo a correre i rischi impliciti nella fede e a fare quelle scelte che ci libereranno dal nostro io abituale e ci apriranno la porta di un nuovo essere, di una nuova realtà.

La mente prigioniera di idee convenzionali e la volontà schiava dei propri desideri non sono capaci di accogliere i semi di una verità poco familiare e di un desiderio soprannaturale. Come posso io ricevere i semi della libertà se sono innamorato della schiavitù, e come posso nutrire il desiderio di Dio se sono colmo di un altro e opposto desiderio? Dio non può porre in me il seme della Sua libertà, perché io sono prigioniero e non desidero neppure essere libero. Amo la mia schiavitù e mi chiudo nel desiderio di cose che odio, ed ho indurito il mio cuore all’amore vero. Devo imparare quindi ad abbandonare ciò che mi è noto, ciò che è abituale, ad accogliere ciò che è nuovo e a me sconosciuto. Devo imparare a «lasciare me stesso», per ritrovarmi, abbandonandomi all’amore di Dio. Se cercassi Dio, ogni evento ed ogni momento seminerebbero, nella mia volontà, grani della Sua vita, grani che un giorno fiorirebbero in una messe meravigliosa.

È l’amore di Dio che mi scalda nel sole, è l’amore di Dio che manda la pioggia gelida. È l’amore di Dio che mi nutre del pane che mangio, ed è Dio che mi nutre anche con la fame e il digiuno. È l’amore di Dio che manda i giorni d’inverno quando ho freddo e sono ammalato, e l’estate torrida quando sono affaticato e ho gli abiti inzuppati di sudore: ma è Dio che respira su di me con il vento appena percettibile del fiume, con la brezza del bosco. Il Suo amore allunga l’ombra del sicomoro sopra la mia testa e manda lungo i campi di grano l’acquaiolo con un secchio riempito alla sorgente, mentre i lavoratori riposano e i muli stanno sotto l’albero.

È l’amore di Dio che mi parla negli uccelli e nelle acque dei ruscelli, ma anche oltre il clamore della città Dio mi parla nei Suoi giudizi, e questi sono tutti semi mandati a me dalla Sua volontà.

Se essi metteranno radice nella mia libertà, se dalla mia libertà sboccerà il Suo volere, diventerò l’amore che Egli è, e la mia messe sarà la Sua gloria e la mia gioia.

Ed io crescerò assieme a migliaia e milioni di altre libertà nell’oro di un unico immenso campo che dà lode a Dio, un campo ricco di messe, ricco di grano. Se in ogni cosa io considero soltanto il caldo e il freddo, il cibo o la fame, la malattia o la fatica, la bellezza o il piacere, il successo e l’insuccesso o il bene e il male materiali che le mie opere mi hanno procurato per mia volontà, troverò vuoto soltanto, non felicità. Non sarò nutrito, non sarò sazio. Perché il mio cibo è la volontà di Colui che mi ha fatto e che ha fatto tutte le cose per darsi a me per mezzo loro.

La mia preoccupazione principale non dovrebbe essere quella di trovare piacere o successo, salute o vita o danaro o riposo o anche cose quali la virtù e la saggezza — ancor meno i loro opposti: dolore, fallimento, malattia, morte. Ma in tutto ciò che avviene, mio solo desiderio e mia unica gioia dovrebbero essere il sapere: «Questo, Dio ha voluto per me. In questo trovo il Suo amore, e nell’accettarlo io posso restituirGli il Suo amore, darmi con esso a Lui. Perché nel donarmi a Lui lo troverò ed Egli è la vita eterna».

Ed accettando la Sua volontà con gioia, con gioia eseguendola, io ho nel cuore il Suo amore, perché la mia volontà diventa tutt’uno con il Suo amore, ed io sono sulla via di diventare ciò. che Egli è, ed Egli è Amore. Ed accettando ogni cosa da Lui, accolgo nell’anima la Sua gioia, non perché le cose sono quelle che sono, ma perché Dio è Colui che è, e in tutte quelle cose il Suo amore ha voluto la mia gioia.

Come potrò conoscere la volontà di Dio? Anche se non si esige esplicitamente la mia obbedienza, se cioè non esiste un comando chiaro, la natura stessa di ogni circostanza particolare rivela qualche indicazione della volontà di Dio. Perché tutto quello che esige la verità, la giustizia, la misericordia o l’amore, deve necessariamente considerarsi come voluto da Dio. Consentire alla Sua volontà è, quindi, vivere nella verità, dire la verità o, per lo meno, cercarla. Obbedire a Lui è corrispondere alla Sua volontà espressa dalla necessità altrui, o almeno rispettare i diritti altrui. Perché il diritto di un altro è espressione dell’amore e della volontà di Dio. Esigendo da me il rispetto dei diritti altrui, Dio non mi chiede di sottomettermi ad una legge puramente astratta, arbitraria; Egli mi dà la possibilità di partecipare, in quanto Suo figlio, alla cura che Egli si prende di mio fratello. Nessun uomo, che ignori i diritti e le necessità altrui, può sperare di camminare nella luce della contemplazione, perché la sua via si sarebbe allontanata dalla verità, dalla compassione, e quindi da Dio.

Le esigenze di un qualsiasi lavoro possono venire considerate come volontà di Dio. Se devo zappare un giardino o fabbricare un tavolo, compirò la volontà di Dio purché esegua fedelmente il lavoro assegnatomi. Eseguire il lavoro bene e con cura, con amore e con rispetto per la natura della mia mansione e con la dovuta attenzione per lo scopo che devo raggiungere, è unirmi alla volontà di Dio per mezzo del mio lavoro. In tal modo io posso diventare il Suo strumento. Egli lavora attraverso me. Quando agisco come Suo strumento, il mio lavoro non può divenire un ostacolo alla contemplazione, anche se occuperà temporaneamente la mia mente, impedendomi di impegnarla nella contemplazione mentre lo sto eseguendo. Eppure il mio lavoro purificherà e pacificherà la mia anima e mi disporrà alla contemplazione.

Un lavoro innaturale; frenetico, preoccupato, un lavoro fatto sotto lo stimolo della cupidigia, o della paura, o di qualsiasi altra passione disordinata non può, a rigore, venire dedicato a Dio, perché Dio non può volere direttamente un lavoro di questo genere. Egli può permettere che, senza nostra colpa, noi ci troviamo a dover lavorare all’impazzata e distrattamente, a causa dei nostri peccati e dei peccati della società nella quale viviamo. In tal caso dobbiamo sopportare e volgere al meglio quello che non possiamo evitare. Ma non lasciamoci accecare al punto da non sapere più distinguere tra un lavoro equilibrato, sano, e una fatica innaturale.

In ogni caso dovremmo sempre cercare di conformarci al logos o verità del dovere che ci incombe, del lavoro da eseguire, o della nostra stessa natura donataci da Dio. L’obbedienza contemplativa e l’abbandono alla volontà di Dio non potranno mai significare indifferenza studiata verso i valori naturali da Lui insiti nella vita e nel lavoro umano. L’insensibilità non deve essere confusa con il distacco. Il contemplativo deve sì, essere distaccato, ma non deve mai permettersi di divenire insensibile ai veri valori umani, nella società, negli altri uomini, o in se stesso. Se lo diventa, allora la sua contemplazione è inevitabilmente condannata, perché viziata alla sua stessa radice.

1)Parte Che cosa è la contemplazione  ➤

2)Parte Che cosa non è la contemplazione ➤

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