THOMAS MERTON SEMI DI CONTEMPLAZIONE"Che cosa non è la contemplazione"

THOMAS MERTON SEMI DI CONTEMPLAZIONE

2) Parte
2. Che cosa non è la contemplazione

1)Parte Che cosa è la contemplazione  ➤

L’unico modo di liberarsi da concezioni erronee riguardo alla contemplazione è di sperimentarla. Colui che non conosce per esperienza diretta la natura di questo aprirsi, di questo ridestarsi a un nuovo livello di realtà, non può non essere tratta in inganno dalla maggior parte delle cose che se ne dicono Perché la contemplazione non si può insegnare. Non si può neppure spiegare chiaramente. Può essere solo accennata, suggerita, indicata, simboleggiata. Più si tenta di analizzarla obiettivamente e scientificamente, più la si svuota del suo vero contenuto, poiché è un’esperienza che va oltre i confini delle parole della ragione. Nulla è più ripugnante di una definizione pseudoscientifica dell’esperienza contemplativa, anche perché ch cerca di dare una simile definizione è tentato di procedere psicologicamente, mentre in realtà non esiste una psicologia adeguata della contemplazione. Voler descrivere «reazioni» e «sensazioni» equivale a situare la contemplazione là dove essa non può trovarsi, ossia al livello superficiale della coscienza, dove essa può costituire oggetto di osservazione. Ma questa osservazione e questa coscienza fanno precisamente parte di quell’«io esteriore che «muore» e che viene gettato in disparte come un abito sudicio, al risveglio genuino della vita contemplativa.

La contemplazione non è, non può essere, un’attività di questo «io» esteriore. Vi è opposizione irriducibile tra l’«io» pro fondo, trascendente che si ridesta solo nella contemplazione l’«io» superficiale, esteriore, che noi identifichiamo abitualmente con la prima persona singolare. Dobbiamo ricordare chi quest’«io» superficiale non è la nostra vera essenza; è semplicemente la nostra individualità e il nostro «io» empirico, ma non è in verità quella persona nascosta e misteriosa in cui no sussistiamo agli occhi di Dio. L’«io» che opera nel mondo, che pensa a se stesso, che osserva le proprie reazioni, che parla di se stesso, non è il «vero io» che è stato unito a Dio in Cristo. È tutt’al più l’abito, la maschera, il travestimento di quell’io misterioso e sconosciuto che la maggior parte di noi non arriva mai a conoscere veramente se non dopo la morte. La nostra personalità esteriore non è né eterna né spirituale; è ben lungi dall’esserlo. Questo «io» è destinato a sparire come fumo. È del tutto fragile ed evanescente. La contemplazione è precisamente la consapevolezza che questo «io» è in effetti il «nonio»; è il risveglio dell’«io» sconosciuto, che non può essere oggetto di osservazione e di riflessione ed è incapace di commentare se stesso. Quell’«io» sconosciuto non può nemmeno dire «io» con la sicurezza e l’impertinenza dell’altro, perché per natura è nascosto, senza nome, non identificato in quella società dove gli uomini parlano di se stessi e degli altri. In un mondo simile, il vero «io» rimane indefinito ed inespresso, perché ha troppe cose da dire in una volta, nessuna delle quali si riferisce a se stesso.

Nulla è più contrario alla contemplazione del cogito ergo sum di Cartesio. «Penso, quindi sono». Questa è la dichiarazione di un essere alienato, esiliato dalle sue profondità spirituali, costretto a cercar conforto nella prova della sua esistenza (!) basata sulla osservazione che egli «pensa». Se il suo pensiero è necessario come mezzo per giungere al concetto della propria esistenza, allora, di fatto, egli non fa che allontanarsi ulteriormente dal suo vero essere. Egli si riduce a un mero concetto e si preclude la possibilità di esperimentare direttamente e immediatamente il mistero del proprio essere. Contemporaneamente, riducendo anche Dio a un concetto, egli si preclude la possibilità di intuire la realtà divina che è inesprimibile. Egli giunge al suo essere come se fosse una realtà oggettiva, ossia si sforza di diventare consapevole di se stesso come lo sarebbe di qualcosa al di fuori di se stesso. E dimostra che la tal «cosa» esiste. E si convince: «Io sono quindi qualche cosa». Poi prosegue a convincersi che anche Dio, l’infinito, il trascendente, è una «cosa», un «oggetto» come altri oggetti finiti e limitati del nostro pensiero!

L’inferno può essere definito come i alienazione perpetua dal nostro vero essere, dal nostro vero «io» che è in Dio.

La contemplazione, al contrario, è la comprensione sperimentale della realtà come soggettiva, non tanto «mia» (che significherebbe «appartenente all’io esteriore») ma «di me stesso» nel mistero esistenziale. La contemplazione non giunge al reale attraverso un processo deduttivo, ma per mezzo di un risveglio intuitivo nel quale la nostra realtà libera e personale acquista piena coscienza delle proprie profondità esistenziali che sfociano nel mistero di Dio.

Per il contemplativo non vi è nessun cogito («io penso») e nessun ergo («quindi»), ma soltanto il sum («io sono»); non nel senso di una futile asserzione della propria individualità come ultima realtà, ma nell’umile riconoscimento del proprio misterioso essere una persona in cui Dio risiede con infinita dolcezza e inalienabile potenza.

È chiaro che la contemplazione non riguarda solamente i temperamenti tranquilli e passivi. Non è semplice inerzia o tendenza all’inattività o alla pace psichica. Il contemplativo non è semplicemente un uomo a cui piace starsene seduto a pensare, o tanto meno uno che se ne sta seduto con lo sguardo assente. La contemplazione è qualcosa di più della pensosità o della tendenza alla riflessione. Indubbiamente un’indole pensosa e riflessiva non è certo da disprezzarsi in questa nostra era di vacuità e di automatismo, e può effettivamente condurre l’uomo alla contemplazione.

La contemplazione non è devozione e neppure inclinazione a trovar pace e soddisfazione nei riti liturgici. Anche questi sono cosa ottima, anzi sono una preparazione quasi necessaria per raggiungere l’esperienza contemplativa. Non possono mai, però, costituire quell’esperienza. L’intuizione contemplativa non ha niente a che vedere con il temperamento naturale di una persona. Benché possa capitare che un uomo di temperamento tranquillo diventi un contemplativo, può anche avvenire che la stessa passività del suo carattere gli impedisca di sopportare quella lotta interiore e quella crisi, necessarie in genere per raggiungere un più profondo risveglio spirituale.

D’altra parte, può darsi che un uomo attivo e dal carattere appassionato si risvegli alla contemplazione, e può darsi pure che questo avvenga all’improvviso e senza troppa lotta. Bisogna dire però che, in linea di massima, certi tipi attivi non sono portati alla contemplazione e non la raggiungono che a prezzo di grandi difficoltà. Anzi, forse, non dovrebbero neppure pensarvi, né tentare di raggiungerla, perché così facendo rischierebbero di deformare il loro carattere e di danneggiare se stessi compiendo sforzi assurdi privi di senso e di utilità alcuna. Queste persone dal carattere fantasioso e appassionato, dotate per la vita attiva, si esauriscono tentando di pervenire allo stato contemplativo, come se questo fosse un obiettivo, da raggiungere analogo alla ricchezza materiale, a una posizione eminente nella vita politica, ad un’alta carica nell’insegnamento, o a una dignità prelatizia. Ma la contemplazione non potrà mai essere l’oggetto di ambizione calcolata. Non è qualcosa che noi possiamo proporci di ottenere per mezzo della ragione pratica, ma è l’acqua viva dello spirito della quale siamo assetati, come cervi inseguiti che cercano l’acqua nel deserto.

Non siamo noi a volerci risvegliare, ma è Dio che ci chiama al risveglio.

La contemplazione non è né rapimento, né estasi, né l’udire improvvise parole inesprimibili, né vedere luci arcane. Non è il calore emotivo né la dolcezza che accompagnano l’esaltazione religiosa. Non è l’entusiasmo, né la sensazione di essere «afferrati» da qualche forza primordiale e trasportati impetuosamente verso la liberazione tramite una frenesia mistica: Tutte queste cose potranno avere una certa somiglianza con il risveglio alla contemplazione, in quanto esse sospendono l’ordinaria consapevolezza e il controllo esercitato dal nostro «io» empirico. Ma non sono opera del nostro «io profondo»; sono solamente frutto di emozioni, del subcosciente somatico; sono un insorgere delle forze dionisiache del subcosciente. Simili manifestazioni possono naturalmente accompagnare un’esperienza religiosa profonda e genuina, ma non sono quella contemplazione di cui io sto parlando qui.

La contemplazione non e neppure il dono della profezia e non implica la capacità di leggere nel cuore degli uomini. Queste cose si trovano a volte unite alla contemplazione ma non ne sono parte essenziale, e sarebbe un errore confonderle con essa.

Vi sono molti altri modi di sfuggire all’«io» esteriore, empirico, che somigliano alla contemplazione ma contemplazione non sono. Per esempio l’essere afferrati, trascinati da un’ondata di fanatismo collettivo nel corso di una parata a carattere totalitario: l’impeto farisaico di lealtà al partito che cancella ogni residuo di coscienza e libera qualsiasi tendenza criminale nel nome di classe, nazione, partito, razza, o setta. Il pericolo e la forza seduttrice di queste false mistiche di nazione o di classe è che esse seducono e pretendono di soddisfare quelli che non avvertono più alcun bisogno spirituale profondo e genuino. La falsa mistica delle società di massa s’impossessa degli uomini tanto alienati da loro stessi e da Dio da non essere più capaci di una genuina esperienza spirituale. Eppure proprio questi surrogati di entusiasmo sono il vero «oppio» del popolo, perché smorzano nell’individuo la consapevolezza dei bisogni più profondi e personali e lo alienano dal suo «io» più vero,: addormentano la coscienza e trasformano uomini liberi e ragionevoli in strumenti passivi del potere politico.

Che nessuno s’illuda di trovare nella contemplazione un mezzo per sfuggire alla lotta, all’angoscia, al dubbio. Al contrario, la profonda, inesprimibile certezza dell’esperienza contemplativa suscita un’angoscia tragica e fa sorgere molti interrogativi nel profondo del cuore, come ferite sempre sanguinanti. Ad ogni progresso in certezza profonda corrisponde una crescita del «dubbio» in superficie. Tale dubbio non è minimamente antitetico alla fede genuina, ma esamina senza pietà e interroga la «fede» spuria della vita quotidiana, la fede umana che è solo passiva accettazione di opinioni convenzionali. Questa falsa «fede», secondo la quale noi molto spesso viviamo e che alle volte confondiamo con la nostra «religione», va soggetta a inesorabili interrogativi. Questo tormento è come una prova del fuoco durante la quale siamo costretti a riesaminare, mettere in dubbio e finalmente respingere tutti i pregiudizi e tutte le convenzioni che avevamo fin qui accettato come dogmi; e tutto questo proprio ad opera della luce della verità invisibile che ci ha raggiunto con il raggio oscuro della contemplazione. È chiaro quindi che la contemplazione genuina è incompatibile con qualsiasi forma di compiacenza personale, o con la presuntuosa accettazione di opinioni preconcette. La contemplazione non è neppure acquiescenza a uno status quo come alcuni vorrebbero. Questo significherebbe ridurre la contemplazione ad una anestesia spirituale. La contemplazione non è un antidolorifico. Quale olocausto si compie in questo continuo incenerimento di tutte le parole logore, di tutti i cliché, gli slogan, le teorie! Il peggio è che anche concezioni apparentemente sacre vengono distrutte con il resto. È uno spaventoso infrangere e bruciare di idoli, una purificazione del santuario, affinché nessuna immagine scolpita occupi il posto che Dio ha ordinato fosse lasciato vuoto: il centro, l’altare esistenziale che semplicemente «è».

Alla fine, l’anima contemplativa soffre l’angoscia di capire che essa non sa più cosa sia Dio. Potrà, o non potrà, rendersi conto che dopo tutto questo è un gran vantaggio poiché «Dio non è un qualcosa», non è una «cosa». Questa è una delle caratteristiche essenziali dell’esperienza contemplativa. Essa rivela che non vi è un «qualcosa» che possa essere chiamato Dio. Che non vi è «nessuna cosa» che sia Dio, perché Dio non è un «qualcosa» né «una cosa», ma un puro «Chi». Egli è il «Tu» davanti al quale il nostro «io» intimo acquista all’improvviso consapevolezza. Egli è l’«Io sono» al cospetto del Quale, con la nostra voce più personale e inalienabile, noi facciamo eco «io sono».

Ciò non significa che l’uomo non abbia un concetto valido della natura divina. Tuttavia nella contemplazione le nozioni astratte dell’essenza divina non svolgono più un ruolo importante, poiché vengono sostituite da una intuizione concreta che si fonda sull’amore di Dio come persona, oggetto d’amore, non come«natura» o «cosa» che sarebbe oggetto di studio o di desiderio possessivo.

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