Bianchi 1 Settembre 2013

XXII domenica del tempo Ordinario Stampa E-mail Stile copto - tempera all’uovo su tavola (particolare)LE ICONE DI BOSE, Gesù è a pranzo presso un capo dei farisei Anno C Lc 14,1.7-14 1 settembre 2013 Un giorno di sabato, mentre Gesù è a pranzo presso un capo dei farisei, «osservando come gli invitati scelgono i primi posti, dice loro una parabola…». Gesù osserva attentamente gli eventi quotidiani in cui è immerso, traendone preziosi insegnamenti: la sua sapienza, oltre che dalla relazione di fede con il Padre, nasce dalla sua adesione alla realtà; anzi, egli è capace di narrare l’agire di Dio proprio a partire dagli avvenimenti più ordinari, compresi dal suo cuore che sa ascoltare (cf. 1Re 3,9). In questo caso Gesù narra una parabola con cui mette in guardia dal protagonismo di chi cerca i primi posti nei banchetti, rischiando di essere retrocesso all’ultimo posto dal padrone di casa, qualora arrivi un ospite più ragguardevole di lui (cf. Pr 25,6-7). Gesù conosce la smania umana di primeggiare, quella di chi «ama i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti» (Lc 20,46), spesso semplicemente per apparire potente agli occhi altrui. Per questo ammonisce a non presumere di sé, ma a saper restare con obbedienza al proprio posto, quello che Dio assegna a ciascuno di noi. E nel caso si debba scegliere un posto, Gesù chiede di optare per l’ultimo, come ha fatto lui stesso, il Maestro «mite e umile di cuore» (Mt 11,29), il quale «umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte, anzi alla morte di croce» (Fil 2,8): per questo Dio lo ha esaltato, richiamandolo dalla morte alla vita eterna (cf. Fil 2,9-11). Di seguito Gesù pronuncia un detto divenuto celebre: «Chi si esalta sarà umiliato; chi si umilia sarà esaltato». Di fronte a Dio ogni uomo è posto nella giusta collocazione, e la mano del Signore compie l’esaltazione degli umili e l’abbassamento dei superbi (cf. 1Pt 5,5-6), come canta il Magnificat (cf. Lc 1,46-55). Occorre però ricordare che la cosiddetta «umiltà» è una virtù difficilissima da vivere, sulla quale sarebbe meglio tacere, perché si rischia di ingenerare atteggiamenti perversi, alla ricerca di meriti speciali, finendo per incoraggiare proprio quei comportamenti contestati da Gesù. Meglio sarebbe parlare di «umiliazione», perché solo accogliendo le umiliazioni che ci vengono da noi stessi, dagli altri e da Dio potremo scoprire la nostra radicale povertà e accedere all’umiltà: solo chi accetta le umiliazioni e le assume nella fede è davvero umile Gesù dice a colui che lo ospita: «Quando offri un pranzo, non invitare i tuoi amici, né i tuoi parenti, né i ricchi vicini, perché anch’essi non ti invitino e tu abbia il contraccambio. Al contrario, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi». Per noi uomini cosa c’è di più normale che invitare le persone a cui siamo legati da vincoli di amicizia e amore, che a loro volta ci inviteranno? Ma Gesù rivela il sentire «folle» di Dio, che nel banchetto del Regno assegna ai poveri i posti migliori, agli ultimi i primi posti (cf. Lc 13,30). E così afferma che chi vuole essere suo discepolo deve bandire dal proprio cuore e dal proprio comportamento tutto ciò che è ispirato alla logica del «contraccambio», della «reciprocità». Del resto lo aveva già detto con parole paradossali: «Da’ a chiunque ti chiede, e a chi prende del tuo, non richiederlo … Prestate senza sperarne nulla» (Lc 6,30.35). Questa è la logica che ha animato l’agire di Gesù, colui che ha accordato un privilegio agli ultimi, a coloro che erano trascurati da tutti, per narrare loro la vicinanza di Dio. È in questo modo che Gesù ha raccontato il Dio che dice: «Io, il Signore, sono il primo e io stesso sono con gli ultimi» (Is 41,4), e ce ne ha mostrato il volto. Conoscendo il cuore del Padre, egli può dunque concludere: «Sarai beato perché essi non hanno da ricambiarti. Riceverai invece la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti». La beatitudine insita nell’amore vissuto e insegnato da Gesù è la gioia dell’amare in perdita, nella coscienza che l’amare è ricompensa per chi ama; è la beatitudine di chi spera come unica ricompensa la comunione con Dio nel Regno. Sì, «l’avere in noi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù» (cf. Fil 2,5) ci conduce già oggi alla felicità: vivere con lui e come lui è la nostra gioia beata. Enzo Bianchi

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