Abbazia Pulsano (Commento parabola del fattore disonesto)

DOMENICA «DELLA PARABOLA DEL FATTORE DISONESTO»
XXV del Tempo per l’Anno
Lc 16,1-13; Am 8,4-7; Sal 112; 1Tm 2,1-8
Canto all’Evangelo 2 Cor 8,9
Alleluia, alleluia.
Gesù Cristo da ricco che era, si è fatto povero per voi,
perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà.
Alleluia.
Il canto all’evangelo ci aiuta a comprendere da dove viene il tesoro delle nostre grazie. Da Cristo
Dio, fattosi volontariamente povero, fino al suo abbandonarsi alla Croce, affinché da questa sua estrema
miseria venisse la ricchezza salvifica degli uomini.
La pericope odierna fa ancora parte di quel «grande inciso», il blocco, proprio solo di Luca, che si
chiama la «salita a Gerusalemme» (Lc 9,51 - 19,28), la cui proclamazione si estende dalla Domenica
XIII alla Domenica XXXI. Questo itinerario è l’"esodo" del Figlio verso il Padre (Lc 9,31), e si consuma
con la Croce e con la Resurrezione.
Lungo la strada, Cristo Signore battezzato dallo Spirito Santo e così inviato dal Padre a compiere il
ministero messianico che consiste in via principale nell’annuncio del’Evangelo e nelle opere della Carità
del Regno. Gesù moltiplica gli insegnamenti salvifici, in specie con ripetute catechesi sulla povertà e
sullo spossessamento, integrando però questa dottrina anche con quella del buon uso delle ricchezze, del
lavoro, dei beni terreni in genere.
È noto che Luca ha tra i suoi argomenti preferiti il pregio della povertà e il pericolo della ricchezza,
sicché il suo evangelo potrebbe ugualmente essere definito l’evangelo dei poveri o l’evangelo dei ricchi
perché gli uni e gli altri, sia pure in direzioni diverse, hanno di che imparare per la loro salvezza.
La comunità per cui è scritto il terzo evangelo non si può ragionevolmente immaginare che sia
composta solo di poveri e di sprovveduti di tutto; nel suo seno deve esistere, sia pure sottoposto a certe
norme severe, anche chi possiede beni e li lavora e chi produce ricchezza per sé e per gli altri. Questo è
stato compreso bene solo dal primo monachesimo, che, accettando in via di principio e con rigore la
povertà e lo spossessamento, tanto più poneva come regola di vita «pregare e lavorare» con le proprie
mani per sostentarsi e per procurarsi di che fare l’elemosina a Cristo nei poveri, imitando in questo
anche l’apostolo Paolo.
Il lezionario avvicina all’evangelo il libro di Amos, grande e indomabile profeta, che è l’opera di
un “contadino”, raccoglitore di sicomori (7,14ss) e allevatore di bestiame (1,1), che nell’VIII sec. a. C
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(783 - 745) arriva nel regno del Nord e vi scopre, dietro le apparenze, le ingiustizie e le miserie che
soffrono i poveri. Acceso di santo sdegno, proclama il castigo di un Dio giusto, ma pronto a perdonare.
Il brano di questa Domenica và letto in un contesto più ampio dei vv. liturgici proposti; è la 4a visione
che Dio concede al profeta per chiamare all’ascolto Israele. È un compendio moderno di economia e
commercio, che vede solo il profitto puro a costo di qualsiasi disonestà: rincaro dei prezzi, riduzione
delle misure commerciali, sofisticazioni dei prodotti. Ieri come oggi!
Le autorità guardano incuranti; anche quelle spirituali non intervengono.
Interviene però Dio per bocca del profeta.
Nella 1 Timoteo una lettera scritta da Paolo durante il suo ultimo viaggio (verso il 65), o forse, in
epoca più tarda, da un responsabile della Chiesa. L’apostolo si adopera per sostenere con i suoi consigli
l’opera del pastore, responsabile della comunità, in un’epoca in cui i primi testimoni di Cristo
cominciano a scomparire. Nel nostro brano come prioritaria preoccupazione, l’autore esorta a pregare
per tutti gli uomini; è così presentata una vasta gamma della preghiera: suppliche, preghiere intense,
richieste, rendimenti di grazie. Segue l’elenco delle intenzioni: per re e governanti perché assicurino una
vita tranquilla e santa al popolo. È il modello della nostra preghiera universale.
La parabola, che è esclusiva di Luca, è una delle più difficili dell’evangelo a motivo di certe
asperità per le quali però non si è a corto di soluzioni. Le letture proclamate Domenica scorsa (c.15) ci
hanno detto quanto fa per noi colui che è misericordioso con tutti i disgraziati e i cattivi (cfr 6,35). La
parabola di oggi risponde alla domanda :«che fare» noi, chiamati a diventare come lui (cfr 6,36)?
La risposta è implicita nei due termini usati per indicare Dio e l’uomo, chiamati rispettivamente il
Signore (4 volte) e l’amministratore (7 volte). Ma l’uomo è un amministratore ingiusto, perché si è fatto
padrone di ciò che non è suo. Però ora conosce Dio: sa che tutto dona e perdona. Di conseguenza sa
«che fare» anche lui: con-donare ciò che in fondo non è suo.
Il c. 16, incluso tra le parabole dell’uso sapiente (l’amministratore saggio) e l’uso stolto dei beni (il
«ricco epulone» che verrà proclamata nella Dom. XXVI del Tempo Ord. C), parla dell’amministrazione
concreta della propria vita. Toccandone i vari aspetti, le istruzioni si prolungano sino a 17,10, quando
Gesù riprende il suo viaggio.
Tra le due parabole abbiamo un breve interludio con i farisei: «I farisei, che erano attaccati al
denaro, ascoltavano tutte queste cose e si facevano beffe di lui. Egli disse loro: "Voi siete quelli che si
ritengono giusti davanti agli uomini, ma Dio conosce i vostri cuori: ciò che fra gli uomini viene
esaltato, davanti a Dio è cosa abominevole"» (vv.14-15). Sembra dunque che possiamo leggere i testi
anche come un insegnamento sul rapporto tra beni e giustizia davanti a Dio.
La pericope è suddivisibile in due sezioni:
1. un racconto parabolico (vv. 1-9),
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2. la sua attualizzazione attraverso due domande retoriche (vv. 10-11) ed una sentenza
proverbiale (vv. 12-13).
Il centro del brano è l’elogio dell’amministratore (v.8), che sfocia nell’esortazione ad agire come lui
(v.9).
La parabola ci insegna che anche i beni materiali vanno gestiti per quel che sono, secondo la loro natura
di dono. L’evangelista sa che ciò che abbiamo accumulato è frutto di ingiustizia; non l’abbiamo fatto
propriamente per puro amore di Dio o del prossimo!
Sa anche che continuiamo a vivere in un mondo che avanza sullo stesso binario (cfr la lettura). In tale
situazione siamo chiamati a vivere con il criterio opposto a quello dell’egoismo. Abbiamo capito «che
fare»: i beni sono un dono del Padre da condividere tra i fratelli.
Questo è il senso dell’anno sabatico, la cui osservanza è condizione per restare nella terra promessa.
L’attività di Gesù, che inizia e finisce di sabato (4,16; 23,56) e si svolge nell’arco di sette sabati, è
descritta dal terzo evangelista come realizzazione dell’anno sabatico.
L’ascolto della sua parola ne attualizza «oggi»il compimento (4,21).
Esaminiamo il brano
v. 1 «Diceva anche ai discepoli»: l’istruzione, prima diretta agli scribi e ai farisei, ora si rivolge ai
discepoli. Dopo tre parabole dirette ai farisei (cfr. 15,1-2), Gesù si rivolge ora ai discepoli. Il testo non
indica i Dodici, i responsabili della comunità, ma tutti coloro che hanno accettato le condizioni del
discepolato e stanno seguendo il Maestro. Il testo è scritto, dunque, anche per noi.
«l’uomo ricco »: è il Signore, al quale appartiene «la terra e quanto contiene, l’universo e i suoi
abitanti» (Sal 24,1).
«un amministratore»: tutti noi siamo semplici amministratori: «cosa mai possiedi che tu non abbia
ricevuto? E se l’hai ricevuto, perché te ne vanti come non l’avessi ricevuto?» (1 Cor 4,7).
L’amministratore deve agire secondo la volontà del suo padrone altrimenti ecco l’accusa di peccato.
«fu accusato … di sperperare»: Il testo non entra nei dettagli: non sappiamo chi abbia accusato
l’amministratore o quali siano le accuse. Il termine “sperperare”, applicato in precedenza allo stile di vita
del figlio minore (cfr. 15,13), indica forse un’esistenza dispendiosa. Il risultato è la convocazione
dell’amministratore e la comunicazione del suo imminente licenziamento.
v. 2 - «rendi conto»: La chiamata al rendiconto è la morte, che pone l’uomo davanti a Dio per verificare
se è diventato simile a colui del quale è immagine. La vita si valuta solo dal suo fine.
Dio accorda del tempo, tutto il tempo necessario per rimediare alla cattiva gestione.
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vv. 3-4 «disse tra sè»: Utilizzando un monologo interiore, Luca apre per i suoi lettori la mente
dell’amministratore, mentre vaglia le poche possibilità rimaste. L’uomo nei guai medita come
provvedere al suo futuro per nulla roseo; fa «una bella pensata» diremmo. Non potendo sperare nella
generosità del padrone truffato, cerca alleati dalla parte dei suoi clienti.
«Zappare… mendicare»: Le due opzioni “vangare” e “mendicare” rappresentano le occupazioni di chi
non ha futuro. Scarta la prima, probabilmente perché richiede un notevole sforzo fisico e la seconda
perché fonte di vergogna: «Meglio morire che mendicare» (Sir 40,28).
«So io che cosa farò»: trova una “soluzione”, che Luca non svela fino a quando non sarà posta in atto
dall’amministratore.
vv. 5-7 La parabola fa due esempi noti a sufficienza, tuttavia può essere utile quantificare con misure più
vicine a noi il cambio effettuato.
Per «barile» e «misura» il testo greco dà i nomi ebraici di Bath e Kon su una tavola delle misure di
capacità o volume troviamo che il bath = 45 litri e il kor = 450 l (1 kor = 10 bath).
Come si vede, i debiti risultano cospicui e quindi i terreni amministrati erano assai vasti, ma si deve
tener presente la predilezione dei narratori orientali per le cifre vistose, adatte a stimolare la fantasia. I
numeri 100 - 50 - 80 sono tuttavia numeri simbolici: 100 e 50 della pienezza, 80 (40 x 2) della tensione.
v. 8 - Il fatto viene riportato dal padrone, il quale, uomo fine, loda l’intelligenza applicata alla disonestà,
invece di adontarsi.
Mentre noi ci aspetteremmo uno scoppio d'ira, dato che dopo lo sperpero deve ora subire persino la
contraffazione dei documenti, il padrone - e Gesù con lui - lo loda. Mi sembra importante rilevare che la
lode non riguarda la disonestà, ma la scaltrezza, la capacità di usare il poco tempo a sua disposizione
per assicurarsi un futuro.
Gesù annota tristemente: «I figli della notte... dei figli della luce (= la generazione che ha avuto
l’illuminazione divina. «Figli della notte» è un’espressione semitica che indica coloro i cui orizzonti di
vita si chiudono su interessi terreni).
Lo scandalo risiede proprio in queste parole di lode, peraltro perfettamente equilibrate; accanto alla lode
infatti troviamo la qualifica di disonesto data all’amministratore. La lode è solo per il modo in cui ha
saputo trarsi d’impaccio. Tuttavia pur nel genere parabolico sembra strano che il padrone non si curi di
questa nuova truffa.
Per capire e sciogliere l’arcano, facciamo ricorso agli usi del tempo in materia di amministrazione. Il
fattore per il suo lavoro non riceveva dal padrone uno stipendio, ma gli era consentito di rifarsi con i
clienti; i beni del padrone venivano considerati come dati in prestito ad essi, su questi l’amministratore
prelevava un interesse a proprio vantaggio.
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In realtà, questo interesse era una usura, proibita dalla Legge, ma ammessa dal costume. Quello che
l’amministratore condona è solo il suo interesse, che poteva rasentare l’usura e non si tratta di un
ulteriore danno inferto al padrone; gli sperperi di cui è accusato sono quelli generici del v. 1.
Altri ritengono invece che l’amministratore abbia continuato il suo comportamento scorretto, dato che
ormai non aveva più nulla da perdere. In questo caso il termine “ingiustizia” che troviamo al v. 8a non
sarebbe riferito soltanto all’agire precedente, ma anche a quest’ultima azione.
Quale sia la vera intenzione dell’autore personalmente ritengo che la parabola di Luca intenda
scandalizzare i suoi uditori per scuoterli dal loro torpore morale, civile e religioso.
L’espressione dunque non può essere letta come l'invito a “farsi furbi”, ma come una sollecitazione ad
agire con la stessa rapidità, decisione, arguzia dei «figli di questo mondo».
v. 9 - Gesù parla ora in prima persona e ci esorta a fare come il fattore.
«disonesta ricchezza»: il vocabolo mamōnâs appare in tutta la Bibbia solo in questo capitolo (vv. 9.
11.13) e in Mt 6,24; è un celebre termine aramaico, che è un maschile e indica per sé solo il guadagno, il
lucro, e la somma che si è guadagnata. Il termine ha un’assonanza con il verbo della fede l’ebraico
amàn, che indica ciò di cui si ha fiducia, su cui si può contare, da cui deriva anche il nostro amen. Dato
che denaro, possedimenti, ricchezza... sono ciò su cui uomini e donne “fanno affidamento” per vivere, è
passato gradualmente ad indicare i beni.
L’abbinamento con il termine “disonesta” lett. adikía = in-giusta, sorprende: è difficile pensare che si
tratti dell’accumulo illegale! Occorre forse ricordare che per Luca ogni ricchezza non condivisa è iniqua:
l’unico utilizzo “giusto” dei beni è la condivisione (12,33). Condividere i propri beni renderà amici dei
poveri e permetterà di condividere la loro beatitudine: l’ingresso nelle dimore celesti. Nella parabola del
povero Lazzaro e del ricco epulone il lettore sarà condotto a riflettere sul destino di chi non ha acquisito
«un tesoro in cielo», per il momento in cui la morte renderà ogni “mammona” inutile, e l’unica sicurezza
su cui contare sarà il nostro rapporto con Dio mediato dai poveri in cui lo abbiamo servito.
Il mammona va dunque trattato dovutamente, poiché come valore a sé è moralmente indifferente, ma
quando è detenuto avidamente da uno, automaticamente è sottratto agli altri, e diventa «di iniquità».
Perciò occorre trafficarlo senza farsene irretire, il che, tenendo conto della natura umana che vi
propende, significa trafficarlo senza adorarlo come un idolo totalizzante.
vv. 10-12 Sono uno sviluppo del v.9, dove con un argomentazione «dal minore al maggiore» è mostrato
come amministrando debitamente la realtà terrestre (il minimo, l’ingiusto mammona, ciò che è altrui), ci
procuriamo quella celeste (il molto, la cosa vera, ciò che è vostro).
v. 13 - È posta la vera alternativa: o Dio o mammona! Non possiamo tenere il piede in due scarpe.
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La fede in Dio si gioca nella fedeltà in ciò che egli ci ha affidato; i beni, che l’uomo stima di
tanto valore, sono una cosa minima rispetto al vero bene. Sono necessari per conseguirlo: l’uso corretto
che ne facciamo (vedi art. Avvenire, 18 / sett. / ‘92 ).
Il fallimento dell’uomo consiste nell’amare ciò che non è l’oggetto del suo cuore. Qui qui il verbo
servire, douleúō, indica il culto di adorazione che però rende schiavi!
Soltanto l’appartenenza totale a Dio, senza compromessi, rende possibile il corretto uso della
ricchezza: la sua distribuzione ai poveri.
«La miseria impedisce di essere uomini. La povertà come la concepisce l’Evangelo non è per tutti
quella di san Francesco d’Assisi, che abbandonò tutto. Un direttore di azienda può essere povero
secondo l’Evangelo se ha la coscienza che tutti i suoi privilegi sono un debito. Non è obbligato a
proporsi l’ideale di lasciare tutto, ma di fare il suo mestiere, di operare affinché ci sia lavoro e salario
per tutti. Se vive con questo pensiero, egli è povero secondo il Vangelo».
L’Abbè Pierre, a cui dobbiamo questa riflessione, non è un sognatore, un predicatore oracolare, un
«esaltato», sia pure per una buona causa. La riflessione che abbiamo citato ne è un esempio nitidissimo.
Un distacco pauperistico plateale può essere talora meno difficile e meno efficace di un impegno
intelligente e nascosto perché si riesca a sostenere il maggior numero di emarginati. «Fare bene il bene»
è un motto ben lungi dall’essere scontato e banale; è una lezione di metodo che rende la carità più
operosa, più continua, più incisiva. Tutto questo naturalmente non cancella l’esigenza del distacco. Un
distacco che si radica nel cuore e si manifesta nell’esistenza, segnata da semplicità e generosità. Ma tutto
si deve compiere secondo intelligenza e amore, non per sentimento e vanagloria. Al centro, comunque,
resta lui, il povero, che è il privilegiato di Dio e questa parzialità divina è, in realtà, suprema
imparzialità. «Ascoltate, fratelli mie carissimi: Dio non ha forse scelto i poveri nel mondo per farli
ricchi con la fede ed eredi del regno che ha promesso a quelli che lo amano? Voi invece avete
disprezzato il povero!» (Giacomo 2,5-6a).
da " Mattutino " di G. Ravasi (Avvenire, 18 / Sett. / ‘92)
II Colletta:
O Padre, che ci chiami ad amarti
e servirti come unico Signore,
abbi pietà della nostra condizione umana;
salvaci dalla cupidigia delle ricchezze,
e fa’ che alzando al cielo mani libere e pure,
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ti rendiamo gloria con tutta la nostra vita.
Per il nostro Signore Gesù Cristo...
lunedì 16 settembre 2013
Abbazia Santa Maria di Pulsano
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