Commento XXVIII domenica del tempo Ordinario di ENZO BIANCHI
c 17,11-19
Nella sua salita a Gerusalemme Gesù attraversa la Samaria e la Galilea, e mentre passa in un villaggio gli vengono incontro dieci persone affette da lebbra. È noto che nell’Israele antico il lebbroso era l’emarginato per eccellenza, colpito da una malattia avvertita non solo come ripugnante, ma anche – così purtroppo si pensava – strettamente connessa al castigo di Dio per i suoi peccati (cf. Nm 12,14); per questo egli viveva fuori dalle città, in luoghi deserti, in una solitudine disperata (cf. Lv 13,45-46). Ecco perché questi malati non osano neppure avvicinarsi a Gesù, ma di lontano lo implorano: «Gesù maestro, abbi pietà di noi!», confidando nella sua com-passione…
Gesù, come già aveva fatto in un caso analogo (cf. Lc 5,14), invita i lebbrosi a presentarsi ai sacerdoti, obbedisce cioè alla Legge mosaica, rinviando all’autorità religiosa alla quale spetta di certificare l’avvenuta guarigione delle persone e di riammetterle nel consesso sociale (cf. Lv 13,16-17; 14,1-32). «E mentre essi erano per via, furono purificati»: tutti e dieci sono guariti, eppure uno solo riconosce che ciò è avvenuto grazie alla potenza di Gesù, e per questo ritorna indietro «lodando Dio a gran voce e prostrandosi ai piedi di Gesù per rendergli grazie». Recandosi da Gesù senza andare prima al tempio a mostrarsi ai sacerdoti, egli confessa che ormai la presenza di Dio ha trovato nella persona di Gesù il suo tempio (cf. Gv 2,21), la sua manifestazione piena e definitiva.
Le parole di Gesù sulla fede di quest’uomo significano inoltre che la salvezza è veramente tale se la si celebra: il dono di Dio è accolto quando per esso si sa ringraziare, ovvero riconoscerne e confessarne l’origine. Per questo il cuore della fede cristiana è l’eucaristia, che – non lo si dimentichi – significa proprio «rendimento di grazie»; il posto centrale dell’eucaristia ci ricorda che il culto cristiano consiste essenzialmente in una vita capace di rispondere con gratitudine al dono inestimabile di Dio, il dono del Figlio Gesù Cristo che il Padre, nel suo immenso amore, ha fatto all’umanità (cf. Gv 3,16). E così alla sequela di Gesù Cristo, l’uomo che ha saputo fare dell’intera sua vita una risposta all’amore preveniente del Padre fino a offrirla puntualmente nel segno del pane e del vino, i cristiani rendono grazie a Dio facendo della loro esistenza un’eucaristia vivente. Di fronte al dono di Dio si può solo rispondere cercando di divenire donne e uomini eucaristici (cf. Col 3,15; 1Ts 5,18), capaci di vivere «nel rendimento di grazie» (1Tm 4,4); i cristiani dovrebbero essere coloro che «rendono continuamente grazie per ogni cosa a Dio Padre, nel nome del Signore Gesù Cristo» (cf. Ef 5,20)…
Il rendimento di grazie è dunque l’atteggiamento radicale di chi apre ogni giorno la trama della propria esistenza all’azione di Dio, fino a predisporre tutto affinché Dio stesso, colui che vuole per tutti gli uomini la vita piena (cf. Gv 10,10), trasfiguri la morte in evento di nascita a vita nuova. Come dimenticare che l’ultima parola di santa Chiara di Assisi fu: «Ti ringrazio, Signore, di avermi creata»? Sì, ogni giorno è per noi un dono dell’amore di Dio in Gesù Cristo!
Enzo Bianchi
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