Abazzia Pulsano"SOLENNITÀ «DEL SIGNORE NOSTRO GESÙ CRISTO RE DELL’UNIVERSO» DOMENICA XXXIV anno C"

SOLENNITÀ «DEL SIGNORE NOSTRO GESÙ CRISTO RE DELL’UNIVERSO»
DOMENICA XXXIV anno C
Lc 23,35-43; 2Sam 5,1-3; Sal 121; Col 1,12-20
Antifona alla Comunione Sal 28,10-11
Re in eterno siede il Signore:
benedirà il suo popolo nella pace.
Il testo dell’antifona alla comunione di oggi forma un’inclusione letteraria eucaristica molto
interessante, in quanto si usa per la Domenica del Battesimo del Signore e per l’ultima Domenica. Quindi al
principio e al termine dell’arco grandioso detto Tempo per l’Anno. Nel canto del salmista, che nella
preghiera confessa la fede e la gioia, riconoscendo e acclamando il suo Signore, il Vivente, quale Sovrano
eterno, anche noi con lui gioiamo in una eternità che non è vista come un futuro ma come un illimitato
presente (v. 10b). Il Signore viene per unirsi al popolo suo, viene per benedirlo e poiché “la benedizione
torna sempre sul Benedicente e unisce a Lui il benedetto”, fa comunicare quest’ultimo alla pace divina (v.
11b). Qui oggi contempliamo la vera vita, nella comunione al Padre, il sovrano eterno, il Re della Pace e
della Verità che dona lo Spirito suo Tuttosanto e Buono e Vivificante attraverso il Figlio, nella Parola che lo
testimonia e nel Convito nuziale. La presenza del Figlio dona anche a tutti noi una più perfetta
concorporazione con la Chiesa, delle membra tra loro e con il loro Capo. Questa è la Pace e la Benedizione

nel Figlio
Antifona d'Ingresso Ap 5,12; 1,6
L'Agnello immolato è degno di ricevere potenza
e ricchezza e sapienza e forza e onore:
a lui gloria e potenza nei secoli, in eterno.
Visione e liturgia eterne, beatificanti, trasformanti, divinizzanti. Nella divina liturgia (in tutti e tre gli
anni abbiamo la stessa eucologia) noi fedeli facendo nostre le acclamazioni del libro dell’Apocalisse,
chiediamo «qui oggi», nella fede e nella speranza, di essere ammessi per la grazia inconsumabile dello
Spirito Santo a quella liturgia beata. Nell'aula che è la reggia celeste, la corte regale adora il Dio Invisibile
sul trono dal quale regna insieme con l'Agnello Risorto (cap. 4; 5,11). Nella solenne, gioiosa, festale,
cosmica, eterna Liturgia sono uniti nella lode e nell'azione di grazie gli Angeli, i 4 Viventi, i 24 Anziani
sacerdotali. In particolare tutti insieme questi adoratori proclamano dell'Agnello: «È degno! – áxión». È
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l'Agnello Servo sofferente (Is 53,7-8) ma Risorto, per questo è l'unico degno anzitutto di ricevere e di
possedere il Dio Invisibile, il Padre suo. E nel Padre suo, essendo Egli stesso Dio da Dio, l'Agnello Risorto
è degno di ricevere «la potenza e la divinità e la salvezza e la forza», da donare agli uomini redenti,
santificati e da divinizzare. Perciò è anche degno di ricevere da essi l'adorazione (v. 5,12, qui amputato). E
finalmente, è degno della dossologia finale: «A Lui con il Padre la gloria e la potenza in eterno!» (v. 1,6,
qui amputato).
Canto all’Evangelo Mc 11,9.10
Alleluia, alleluia.
Benedetto colui che viene nel nome del Signore!
Benedetto il Regno che viene, del nostro padre Davide!
Alleluia.
Nel canto all’evangelo siamo con le folle in tripudio, con il corteo delle palme, che acclamano Gesù umile
e a cavallo di un asino pacifico, mentre compie il suo ingresso regale messianico a Gerusalemme, la Città
del Grande Re (Sal 47,3; Mt 5,35), la Sposa regale, della quale ora viene a prendere possesso. Si compie il
Disegno divino, che Egli debba consumare il suo destino regale nuziale salvifico: sulla Croce, nella Resurrezione,
con l'Ascensione, nel dono dello Spirito Tuttosanto e Buono e Vivificante. Dal Nome del Signore è
benedetto il Re e Salvatore universale, e anche il Regno che con Lui si presenta (v. 10a). Ma il Regno del
Padre sono Cristo con lo Spirito Santo (Mt 12,28; Lc 11,20): poiché con lo Spirito Santo il Padre salva anzitutto
il Figlio facendolo risorgere dalla morte, e nel Figlio Risorto tutti gli uomini. Si realizza così la promessa
consegnata a David, nel Figlio suo, Gesù Cristo, il Figlio di Dio.
È la visione grandiosa, in questa solennità, in cui ci viene mostrato il Figlio dell’uomo, intronizzato sul
trono della Gloria, come sovrano universale adorato dagli angeli pronto alla rigenerazione degli uomini.
Il ciclo C dell’Anno liturgico si chiude, ma solo per riaprirsi la Domenica successiva, la la di
Avvento del ciclo A, in prosecuzione e crescendo.
L’Anno liturgico, che è propriamente 1’ «Anno della divina Grazia», si apre, e si chiude, con la visione
grandiosa e terribile del «Signore che viene» all’ultimo dei tempi. In realtà, un Anno liturgico non è mai
fine a se stesso. La «teologia simbolica» ci aiuta a comprendere che esso è il «segno» di un ciclo completo,
simbolo della vita degli uomini nel mondo. Tuttavia paradossalmente tale circolo non è chiuso, ma aperto, a
spirale in crescendo, e disposto sapientemente in modo tale che il Principio debba essere identico alla sua
Fine.
Come già si è accennato, nei cicli la solennità di Cristo Re, chiude l’anno riportando la visuale alla Gloria
finale del Signore: puntualmente, precisamente ripresa dalla Domenica la di Avvento del ciclo successivo
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Ciclo A: Dom. 34a, la Venuta finale con il Giudizio
Ciclo B: Dom. la di Avvento: la Venuta finale
Ciclo B: Dom. 34a, la Venuta del Re eterno
Ciclo C: Dom. la di Avvento: la Venuta finale
Ciclo C: Dom. 34a, la Venuta del Re Crocifìsso con il Regno suo
Ciclo A: Dom. la di Avvento: la Venuta finale
e così proseguendo senza interruzioni.
Questa solennità fu istituita dal papa Pio XI con l’enciclica "Quas primas " dell’11 dicembre 1925; il titolo
stesso della festa mira ad ampliare la prospettiva del dominio di Cristo a tutto il creato nel senso di Col 1,12-
20 (II lett).
Dio onnipotente ed eterno,
che hai voluto rinnovare tutte le cose
in Cristo tuo Figlio, Re dell’universo,
fa’ che ogni creatura,
libera dalla schiavitù del peccato,
ti serva e ti lodi senza fine.
Per il nostro Signore…
La I colletta, sopra riportata, esprime in questo modo l’aspetto principale, nettamente cristologico, di
questa solennità. Intorno a questo, la liturgia della Parola ne presenta altri in ciascuno degli anni del ciclo
del Lezionario domenicale. Ora, nella Scrittura il termine «Re», applicato sia al Dio Vivente, sia al suo
Inviato, il Re messianico, significa sempre al di là perfino della gloria regale infinita o finita, il «Salvatore»
del popolo dell’alleanza.
I 3 cicli liturgici del Rito romano propongono perciò opportunamente 3 aspetti diversi e convergenti della
Regalità del Signore Risorto, non a caso invariabilmente nell’aspetto salvifico.
II ciclo A presenta Cristo come il "Pastore dell’umanità" e, allo stesso tempo, come giudice supremo
dei vivi e dei morti; il risorto viene a riprendersi gli eletti suoi dopo il Giudizio (Mt 25,31-46: Evang.; Ez
34,11-12.15-17:1a lett).
Il ciclo B nell’umiltà estrema dell’abbassamento causato dalla Passione volontaria, il Re testimonia
al mondo il Regno-Salvezza per il popolo di Dio: prima davanti al tribunale religioso giudaico, egli si era
identificato col personaggio annunziato da Daniele (cfr. la lett. Dn 7,13-14); davanti a Pilato con la
dichiarazione «Tu lo dici: io sono re»(Gv 18,33-37: Evang.); al mondo, perché Gesù è risuscitato, il
«primogenito dei morti, il principe dei re della terra» (II lett. Ap 1,5-8).
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Il ciclo C fa notare come l’investitura regale (cfr. 2 Sam 5,1-3: la lett.) sia avvenuta proprio sulla
croce (Lc 23,35-43: Evang.). Ma Gesù non è solo Re dei giudei, come dichiara il titolo posto sulla croce, ma
è capo del corpo della Chiesa e Signore di tutte le cose, redente e riconciliate nel suo sangue (II lett. Col
1,12-20).
Il Re dunque vuol dire solo il Salvatore; gli orpelli del manto con ermellino, della corona gemmata,
del globo e dello scettro in mano, togliamoli di mezzo una volta per sempre. Sta sulla croce per risorgere e
venire col suo regno di salvezza; anno per anno, tutto questo è oggetto di anamnesi della Chiesa nello
Spirito Santo.
Esaminiamo il brano
Il testo di Luca ricorda, nella scia degli altri sinottici (cfr. Mt 27,39-43; Mc 15,29-36), gli ultimi istanti di
Cristo sul Golgota; tuttavia, pur narrando gli stessi eventi, il brano presenta delle differenze ed ha un
significato grandioso, percepibile solo con una attenta lettura dell’intero evangelo di Luca.
La crocifissione, così come è riferita nel testo lucano, riprende sostanzialmente la tradizione sinottica:
divisione dei vestiti, offerta dell’aceto, iscrizione col motivo della condanna, beffe e insulti degli spettatori.
Luca tuttavia è il solo a riportare due parole di Gesù: quella del v. 34, relativa al perdono invocato sui
carnefici — omessa da alcuni manoscritti importanti, ma che il parallelo con l’episodio della morte di
Stefano (At 7,60) consiglia di considerare autentica —, e quella del v. 43, con cui Gesù risponde alla
richiesta del secondo malfattore crocifisso con lui.
Luca a differenza degli altri presenta una folla che si dissocia dagli insulti dei capi contro Gesù; la folla (vv.
27.35.48) è più curiosa che ostile, e infine pentita.
Poi presenta una serie di insulti o scherni rivolti a Gesù prima dai capi (v. 35), poi dai soldati (v. 36s).
I primi si riferiscono alla dichiarazione del processo giudaico (Salvi se stesso se è il Cristo di Dio, l’Eletto);
gli altri, invece, alla dichiarazione del processo romano (Se tu sei il Re dei giudei, salva te stesso).
In questa cornice, e con lo stesso significato di scherno, và interpretata anche la scrittura di cui si parla al v.
38 (secondo Luca non va riconosciuta in essa il motivo della condanna ovvero la colpevolezza di Gesù,
come vogliono invece Marco e Matteo). Forse anche il particolare dell’aceto (v. 36) va interpretato come
uno scherno, mentre per Marco, Matteo e Giovanni (19,28s) va inteso come un refrigerio.
Viene infine lo scherno dei suoi compagni di supplizio (v. 39); mentre Marco e Matteo accomunano nello
stesso destino negativo i due ladroni, Luca ci fa conoscere la conversione in extremis di uno di loro. Gesù
non pronunzia le parole di apparente disperazione: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?»;
continua sino alla fine a esercitare il suo ministero di perdono.
Fino alla fine, Gesù resta quel segno di contraddizione annunciato profeticamente da Simeone (Lc
2,34). I due malfattori crocifissi uno alla sua destra, l’altro alla sua sinistra, ricordano tutti quelli che hanno
dovuto prendere partito per o contro Gesù durante la sua vita, gli uni prendendosi gioco di lui e rifiutandolo,
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gli altri implorando nella fede quella salvezza che nessuno, tranne lui, poteva loro donare. I due malfattori
annunciano così quelli che in futuro guarderanno al crocifisso: anch’essi dovranno scegliere tra la preghiera
e gli insulti, soprattutto quando saranno crocifissi come Gesù, versati nel crogiolo della sofferenza e
sottomessi alla prova della morte.
La pericope di oggi delinea un quadro particolare, dove si distaccano 3 parole di scherno e disprezzo, 1
parola di epiclesi, 1 Parola del Signore, che risponde solo all’epiclesi.
vv. 35-39: «il popolo»: Luca è il solo a notare la presenza del «popolo» che osserva. Ricordiamo che «il
popolo», che per Luca è il popolo dell’alleanza, è sempre favorevole a Gesù (cf. ad es. 3,21; 7,29; 19,48;
20,1.26; 23,13.27).
Il supplizio di Gesù è raddoppiato dalla burla di quelli che lo hanno fatto condannare e di quelli che
sono incaricati di eseguire la sentenza. Da un lato i capi del popolo lo scherniscono, dall’altro sono i soldati
romani a prendersi gioco di lui e - attraverso di lui - del popolo di cui Gesù è re derisorio. Il popolo in
compenso non unisce la sua voce a quella dei suoi capi. Il fatto che abbia salvato tanti di loro e non salvi se
stesso, non li fa ridere. Pare però che il popolo non comprenda meglio degli altri ciò che avviene. Eppure
proprio questo stesso popolo ieri accorreva in massa al tempio e pendeva dalle sue labbra. Oggi sono ancora
presenti ma possono solo guardare senza dire nulla, non però senza pensare a tutto ciò di cui sono stati
testimoni. Era necessario che fossero anche testimoni di ciò che avviene oggi dinanzi ai loro occhi.
Di fronte a Gesù, tre categorie di spettatori svolgeranno il ruolo del tentatore, apostrofandolo non più sulla
sua identità di Figlio, ma sulla sua missione, sulla salvezza che è venuta a portare agli uomini.
I capi lo beffano (citazione del Sal 21,8); i soldati, realizzando la profezia di Sal 68,22, gli porgono aceto
per scuoterlo ed aumentare le sue sofferenze; la terza tentazione è forse la più straziante; viene da un
ladrone di strada crocifìsso con Gesù. Questi con un ultimo sforzo si scaglia contro Gesù ripetendo la
richiesta impossibile: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!».
È l’ultima, terribile tentazione contro il Signore.
Nella prima, svoltasi nel deserto di Giuda, nella fame e nella sete, nella preghiera e nella veglia, il Signore è
assalito dal demonio (cfr. Lc ,1-13 da leggere con Mt 4,1-11).
Nella Ia Dom. di quaresima abbiamo ascoltato dei tre assalti tentatori che si succedono simbolicamente:
1. il primo sulla filiazione: «Se sei Figlio di Dio...» (Lc 4,3);
2. il secondo sulla regalità sua:«Io ti darò tutta questa potenza... se adorerai davanti a me»
(4,7);
3. il terzo di nuovo sulla filiazione divina:«Se sei Figlio di Dio...» (4,9b).
Il diavolo insinua e revoca in dubbio, la Parola del Padre al battesimo del Signore, che con 3 detenninazioni:
«il Figlio mio, il Diletto, Mi compiacqui» (Lc 3,22b), manifesta sovranamente la filiazione anche
dell’Umanità del Figlio, ed insieme gli assegna il programma battesimale che ha come culmine la Croce.
Cristo vince, il programma messianico accettato, ma Luca aggiunge significativamente «il diavolo si
allontanò da lui fino al kairòs» (Lc 4,13b), il tempo stabilito da Dio.
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Ed ecco il kairòs di Dio, la Croce; è una tentazione mortale, mortale per noi.
La comprensione della scena è data dalle parole decisive e finali del Signore (vv. 34.46); il perdono
universale è sigillato dalla totale fiducia con cui il Figlio si abbandona al Padre nella morte, vincendo la
tentazione.
La tentazione triplice è passata. Non fa effetto; il Cristo può salvare noi solo se non salva se stesso da questo
kairòs di Dio.
La salvezza è oggetto di grazia (cf. 19,9-10), e avviene soltanto nel modo in cui Dio la realizza (cf.
1,69.71.77), attraverso il salvatore (cf. 2,11) che egli ha inviato (cf. At 13,26): «Non vi è infatti altro nome
dato agli uomini sotto il cielo che sia necessario alla nostra salvezza» (At 4,12).
Gesù stesso, del resto ha affermato: «Chi vorrà salvare la sua vita, la perderà» (9,24; cf. 17,33) Gesù
dunque è tentato proprio da coloro a cui ha consegnato se stesso, e proprio sul punto della solidarietà con i
fratelli. Il problema è inquietante: come può accettare di morire, quando sa per certo che tutti hanno bisogno
di lui?
In quest’ultima prova, tuttavia, Gesù tace. Si è consegnato ai suoi fratelli, e si rimette a loro. Ed è uno di
loro che risponde per lui. Mentre in Mc 15,32b e in Mt 27,44 i due «ladroni» si associano agli oltraggi degli
spettatori, uno dei due «malfattori» di Lc proclama l’innocenza di Gesù: «E noi, da un lato, giustamente ...
ora costui, d’altro lato, non fece nulla di disonesto» (v. 41). Di fronte alla morte, bisogna fare spazio al
timor di Dio: il destino comune degli uomini ci invita a questo.
Nelle tentazioni ono chiaramente riconoscibili i tre capi d’accusa presentati dagli uomini del sinedrio contro
Gesù: l’autorità religiosa da lui assunta indebitamente, l’istigazione alla rivolta, la potenza messianica di
dare la vita, che egli ha rivendicato per sé (cf. 23,2). Sono gli stessi argomenti delle tre polemiche nel
tempio (20,2.22.27). Ma già all’inizio della vita pubblica, le tentazioni nel deserto, in ordine inverso, si
riferivano anch’esse al dono della vita, al potere politico e all’autorità religiosa.
vv. 40-42: La parola dell’altro crocifìsso è duplice. Con una, da buon Ebreo, ricorda al collega di supplizio
di temere Dio, e di considerare la situazione comune, che sa senza scampo, dove loro sono colpevoli mentre
Gesù è senza colpa. E’ la confessione di un cuore convertito.
Poi rivolge la commovente epiclesi al Signore, nella totale fede: «Gesù ricordati di me quando vieni con il
regno tuo!».
Lo chiama per nome: è l’unico che chiama Gesù per nome, senza ulteriori specificazioni (vedi anche Lc
17,13; 18,38-39), segno di grande semplicità e di profonda fiducia.
Lo supplica di ricordarsi di lui; questo «ricordo»è una tipica espressione della preghiera biblica (vedi
Salmi).
«quando vieni con il regno tuo»: alla lettera, quando certamente vieni con il regno tuo (il testo greco usa il
tempo aoristo congiuntivo, per indicare un futuro certo). Sono da considerarsi errate tutte le altre traduzioni
(tipo: quando entrerai nel tuo regno), sia come teologia, che come filologia.
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Il greco per indicare «entrare », nella sua ricchezza, ha numerosi altri vocaboli, tra cui eisérchomai (v. Lc
4,38); qui si ha invece érchomai = venire, non: andare, senza equivoci. Il buon ladrone sà nella fede che
Gesù realizzerà il regno che deve venire, e venendo troverà lui, anche se morto. La sua speranza dunque è la
resurrezione e la vita, e sa che solo Gesù la realizzerà.
v. 43: La risposta di Gesù non solo sostiene la fiducia di quell’uomo, ma dimostra ancora una volta
l’efficacia espiatoria della morte di Gesù, anzi previene le attese dell’orante.
Nella versione lucana, Gesù in croce pronuncia tre parole. La prima si riallaccia al discorso programmatico
di Nazaret: è una parola di grazia, di perdono (v. 34). Il perdono è invocato dal Padre, il cui atteggiamento
di misericordia (cf. 6,36) era stato espresso dalla figura del «padre misericordioso» della parabola (c. 15). Se
i due malfattori, crocifissi uno a destra e l’altro a sinistra, richiamano l’idea di un giudizio, la prima parola
di Gesù ci rivela che si tratta di un giudizio di grazia (cf. 9, 52-55): Gesù, consegnato alla nostra volontà,
alla nostra storia, salva tutto questo introducendolo di nuovo nella dimensione della grazia. «Non sanno ciò
che fanno»: sono forse irresponsabili? No, Gesù prega per uomini responsabili, che però ignorano — e
anche per questo sono colpevoli — ciò che si gioca nell’esecuzione di Gesù. Luca non intende scagionare
nessuno, ma vuol farci capire che, pur essendo colpevoli, siamo coinvolti in una storia che va al di là della
nostra responsabilità. In due discorsi degli Atti degli apostoli, Pietro (At 3,15-17) e Paolo (At 13,27)
segnaleranno la stessa ignoranza colpevole.
La seconda parola di Gesù è provocata dal «buon ladrone». Facendo eco alla triplice dichiarazione di
innocenza pronunciata da Pilato, egli apre il proprio cuore all’Innocente che si è posto per libera scelta nel
novero dei malfattori. Volgendosi verso di lui, osa chiamarlo semplicemente — lui solo in tutto l’evangelo
— col nome che Dio gli ha dato ancora prima del suo concepimento (1,31): «Gesù». E formula questa
preghiera: «Gesù, ricordati di me quando sarai andato nel tuo regno». La «memoria» a cui si appella il
ladrone, è la presenza di Dio che opera con misericordia a favore del suo popolo (1,54), in virtù
dell’alleanza (cf, 1,72; Sal 106,45).
«Oggi»: (gr semeron) segna il tempo della salvezza, frutto della misericordia divina (cfr. Lc 19,5-9; 2,11;
4,21; vedi anche Lc 15,lss; 18,9-14). Ricordiamo che era legato alla salvezza, dapprima nel racconto della
nascita di Gesù (2,11), poi all’inizio della sua missione (4,21) e in occasione della sua visita a Zaccheo
(19,5.9). Esso esprime sempre l’attualità della venuta di Gesù come salvatore: la presenza nascosta del
risorto nella nostra storia. Ma Gesù aggiunge:
«con me»: indica una vita condivisa, un comune destino; indica la comunione dei giusti con Dio per
l’eternità. Parole che rivelano a quell’uomo la sua condizione di discepolo: «Ora voi siete coloro che sono
rimasti con me nelle mie prove. E io dispongo per voi, come il Padre mio dispose per me il regno» (22,28-
29). Questa risposta in termini personali — «io/tu» — annuncia al malfattore il suo ingresso nell’alleanza.
Alleanza nuova, perché comincia oggi; alleanza eterna, perché si riferisce alla realtà irreversibile che sta al
di là della morte. Subendo la stessa pena di Gesù (v. 40), questo condannato viene associato al suo destino,
viene assunto nella vita che egli comunica da parte del Padre. Anche Paolo dice che la gioia dei beati
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consisterà nell’essere con il Signore (cfr. 1 Ts 4,17). Diceva S. Ambrogio: «La vita è essere con Cristo,
perché dov’è il Cristo, là è la vita, là è il regno».
«Paradiso»: nome di origine persiana che significa "giardino": nel N.T. ricorre solo qui e in 2 Cor 12,4 ed
Ap 2,7.
II Colletta
O Dio Padre,
che ci hai chiamati a regnare con te
nella giustizia e nell'amore,
liberaci dal potere delle tenebre;
fa' che camminiamo sulle orme del tuo Figlio,
e come lui doniamo la nostra vita per amore dei fratelli,
certi di condividere la sua gloria in paradiso.
Egli è Dio...
Lunedì 18 novembre 2010
Abbazia Santa Maria di Pulsano
Comunità monastica di Pulsano – Lectio divina solennità di Nostro Si 8/8 gnore Gesù Cristo Re dell’Universo C

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