Abbazia Pulsano"Domenica «dei segni degli ultimi tempi"

Domenica «dei segni degli ultimi tempi»
XXXIII Dom. Tempo Ord. C
Lc 21,5-19; Mal 3,19-20a; Sal 97; 2 Ts 3,7-12
Antifona d’Ingresso Ger 29,11.12.14
Dice il Signore:
«Io ho progetti di pace e non di sventura;
voi mi invocherete e io vi esaudirò,
e vi farò tornare da tutti i luoghi dove vi ho dispersi».
Canto all’Evangelo Lc 21,28
Alleluia, alleluia.
Risollevatevi e alzate il capo,
perché la vostra liberazione è vicina.
Alleluia.
La lettura evangelica offre un grande e attuale tema di meditazione: adesso, verso la fine dell’Anno
liturgico, simbolo anche della fine degli eventi umani ci viene chiesta una riflessione sulle ultime cose.
I versetti compositi dell’antif. d’ingresso fanno parte dell’epistola di Geremia agli esuli di Babilonia
(vedi 29,4-15), con cui il Profeta rivela e manifesta il Disegno divino. Proprio nella catastrofe nazionale
dell’esilio egli prevede e preannuncia i propositi di pace, di salvezza propri del Signore, non di tribolazione
(v. 11a.c; Is 55,8-11). Al contrario delle previsioni umane, che vedono solo le apparenze ingannevoli il
Profeta avverte che nella catastrofe che si approssima inesorabile, che sta per scatenarsi e consumerà la
sorte di Gerusalemme, occorre restare tanto più fedeli al Signore, e accostarsi a Lui per invocarlo con fede
e con fiducia inalterate, nella fedeltà indefettibile che Egli esaudisce sempre (v. 12). Perciò radunerà da
dovunque i figli suoi dispersi (Gv 11,52), e li reintrodurrà per sempre nella loro patria vera e desiderata (v.

14).
Il testo del canto all’evangelo fa parte del «discorso escatologico» di Luca (Lc 21,5-38), e di questo se
ne deve tener conto nella lettura. Qui i fedeli ricevono il grave avvertimento a stare sempre vigilanti, a
osservare bene i «segni» della Redenzione divina che ormai viene per completare la sua attuazione.
Il discorso escatologico di Gesù, nei sinottici (cfr. Mt 24,1-51; Mc 13,1-37; Lc 21,5-36), è l’ultimo
del suo ministero pubblico ed è una delle pagine più ardue dell’evangelo sia per l’argomento trattato, per se
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stesso oscuro, sia per le sue caratteristiche letterarie, che esigono in particolare la conoscenza del
linguaggio apocalittico giudaico. A queste si aggiungono le difficoltà provenienti dal confronto fra le tre
diverse redazioni.
Dei quattro evangelisti, Luca è l’unico che distingue nettamente la «piccola apocalisse» (c. 17) —
che parla della «mia storia», cioè del destino personale di ciascuno — e la «grande apocalisse» (c. 21) —
che parla della «nostra storia», cioè del destino delle società umane —. Componendo il c. 21, l’evangelista
si è preoccupato in primo luogo di adattare il racconto marciano (Mc 13) ai suoi lettori ellenisti.
Del testo di Luca (21,5-36), chiamato la «grande apocalisse lucana », la liturgia ne utilizza solo la
metà circa (un’altra parte, Lc 21,25-28.34-36, è stata proclamata la I Dom di Avvento C).
Le ragioni per le quali il testo di Luca si differenzia notevolmente dal testo di Marco (da cui dipende anche
Matteo) sembrano essere:
a) sicuramente la scena del discorso, che è uno dei cortili del tempio e dagli
ascoltatori di Gesù, che si rivolge non ai suoi discepoli, ma ad alcuni anonimi;
b) il fatto che Luca ha già utilizzato una parte del materiale di Marco in 17,20-37
(brano detto da alcuni «la piccola apocalisse lucana»);
c) il fatto che il terzo evangelo fu composto quando la distruzione di Gerusalemme
era già avvenuta.
Quest’ultima ragione ha indotto l’evangelista a distinguere più chiaramente degli altri tra la fine di
Gerusalemme ormai avvenuta e gli avvenimenti futuri, conclusivi della storia umana.
Il terzo evangelo segue da vicino Mc 13,1ss; tuttavia all’occasione sopprime, aggiunge, sposta, ritocca
alcuni elementi del discorso.
Secondo alcuni autori l’apporto principale e tipico di Luca è nei vv. 20-24. Quanto all’argomento
principale del discorso, è noto che gli esegeti si schierano su tre posizioni, con numerose sfumature:
1. c’è chi ritiene che il discorso si riferisca soltanto alla fine del mondo;
2. chi lo interpreta soltanto in funzione della fine di Gerusalemme e della catastrofe del
tempio nell’anno 70;
3. chi vi vede insieme trattati i due argomenti, distintamente o ad incastro.
Lo schema di fondo del discorso escatologico è il seguente:
a. una questione introduttoria (vv. 5-7);
b. segue l’indicazione di due segni premonitori della fine: il primo è la presenza dei falsi
profeti e delle guerre (vv. 8-11), il secondo è la persecuzione dei discepoli (vv. 12-19);
c. continua con la descrizione-profezia di due avvenimenti: il primo è la rovina di
Gerusalemme (vv. 20-24), il secondo è la fine del mondo (vv. 25-28);
d. infine, viene la risposta alla questione del quando (vv. 29-36).
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Esaminiamo il brano
v. 5 Il discorso che segue prende le mosse da un’osservazione sulle pietre del tempio, dimora della
presenza divina. Gesù ne annuncia la distruzione (v. 6; cf. 19,43-44). Quando sarà scomparsa questa forma
di presenza di Dio (cf. 13,35), quale presenza potremo rintracciare nella nostra storia?
Si parla del tempio costruito da Erode in 10 anni, impiegando 100.000 operai e 1.000 sacerdoti addestrati
come muratori per i lavori nelle parti più sacre.
La fabbrica iniziata nel 20 a C, continuerà a lungo per le decorazioni; finirà solo nel 64 d.C, sei anni prima
della sua distruzione.
Passeggiando in uno dei cortili del tempio alcuni anonimi esprimono la loro ammirazione per la colossale
costruzione e per i doni votivi che la adornano provenienti dalla pietà dei principi e di privati (cf. 2 Mac
2,13).
Certamente il tempio è bello e Gesù non nega che sia decorato bene. Ma avverte i suoi interlocutori di non
lasciarsi ingannare dalle apparenze perché sono effimere. Essi probabilmente non hanno compreso il senso
delle parole di Gesù sulla fine del tempio, perché alle loro domande Gesù non risponde. Non dice né
quando accadrà né quale sarà il segno che ne indicherà l’imminenza. Invece li ammonisce contro tutto ciò
che sì potrebbe interpretare come segno della fine. Le domande poste non sono quelle giuste, come non era
pertinente l’ammirazione dinanzi alla sontuosa costruzione. Così per le guerre e per tutte le catastrofi: è
certo che avverranno molte cose di questo genere, altrettanto è certo che questo tempio sarà distrutto.
Tuttavia ci si deve guardare bene dal credere che tutto ciò indichi la fine della storia, come lo
annunceranno tanti falsi profeti.
v. 6 Gesù gela l’entusiasmo dei suoi interlocutori, annunziando che tutto sarà ridotto a un cumulo di
macerie.
Già nell’AT. i profeti avevano più volte minacciato la rovina del tempio di Salomone, con grande scandalo
del popolo (cf. Ger c. 26), il quale non riusciva ad immaginare che Dio potesse distruggere il luogo della
sua gloria e della sua dimora tra gli uomini. L’espressione «verranno giorni»è tipica degli oracoli profetici
(cf. ad es. Ger 31,31).
La minaccia dei profeti era motivata dal tradimento dell’alleanza da parte del popolo e anche Gesù
denunzia con le lacrime agli occhi l’incomprensione e l’infedeltà di Israele, che lo ha rifiutato come
Messia e Salvatore (cf. 19,41-44).
Anche questa volta, che sarà la definitiva, lo scandalo sarà grande e darà l’avvio alle accuse contro Gesù
nel processo che si concluderà con la croce (Mt 26,61; 27,40).
v. 7- Allora gli pongono la domanda, sempre la solita, sul «quando»e sul «segno».
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È la domanda tipica degli Ebrei che stavano nell’attesa febbrile della redenzione messianica, poiché questa
si sarebbe preannunciata con «segni»grandiosi e irresistibili. La medesima domanda gliela pongono
perfino dopo la resurrezione, sempre sul «Regno»(cf. At 1,6-7).
«maestro»: In Mc (13,3), Gesù parla soltanto per i discepoli, sul monte degli Ulivi, dopo aver lasciato il
tempio (13,1); lo stesso si riscontra in Mt 24,1-3. Luca non precisa il luogo in cui Gesù impartisce il suo
insegnamento, ma la conclusione (vv. 37-38) lascia supporre che si trovi sempre nel tempio e si rivolga a
tutto il popolo (20,45; 21,38). Notiamo infatti che Gesù è chiamato «maestro» (didáskalos: Mt 8,19; Mc
10,17; Lc 9,38; Gv 3,10) da scribi, aspiranti discepoli, padri disperati, mentre i discepoli in genere lo
chiamano «Signore» epistátēs: 5,5; 8,24.45; 9,33.49; 17,13).
Nel racconto lucano, Gesù non prende le distanze nei confronti del santuario: la sua persona è il
luogo stesso in cui Dio si lascia incontrare. Quanto alla rovina del tempio, non è più un avvenimento che si
svolgerà alla fine dei tempi: i termini che indicano la «fine» (synteleia: Mt 24,3; synteleisthai: Mc 13,4)
sono scomparsi dalla redazione lucana, per far posto a un fatto storico: bisogna che «questo avvenga»
(tauta ginesthai: v. 9; cf. vv. 28.31.32.36); ed è un avvenimento decisivo per gli uomini, alla luce del
destino di Gesù.
v. 8 Al primo quesito Gesù non risponde e parla soltanto dei segni del clamoroso intervento punitivo di
Dio su Gerusalemme che non ha voluto riconoscere il «messaggio di pace»(Lc 19,42). Anzitutto li esorta a
non farsi ingannare come avevano avvertito invano i Profeti (cf. Ger 29,8), come con poca fortuna, lo
stesso Paolo (cf. Ef 5,6; Col 2,8; 2 Ts 2,3) e Giovanni (1 Gv 3,7).
Il verbo «ingannare» (gr. planáō), esprime l’idea di far deviare dal retto cammino, di sedurre, ridurre in
schiavitù appartiene alla terminologia apocalittica per indicare seduzioni varie di carattere messianico e
deviazioni dottrinali (vedi Col 2,8 gr. sylagōgéō, cf. anche 1 Gv 1,8; 2,26; Ap 2,20; 12,9; 13,14). Una volta
liberati dal potere delle tenebre e affrancati dal Cristo, rinnegare Cristo per ritornare agli errori antichi
sarebbe ricadere in schiavitù (Gal 4,8s; 5,1).
Il preambolo (vv. 8-9) costituisce una messa in guardia dai falsi messia. Gli Atti degli apostoli ne citeranno
due (intorno al 44-46 d.C): un certo Tèuda, «che pretendeva di essere qualcuno» (At 5,36), e Giuda il
galileo che «indusse molta gente a seguirlo» (At 5,37). Costoro diranno: «Il momento si è avvicinato»,
riprendendo le parole di Gesù a proposito del regno (10,11), e arrogandosi la capacità di riconoscerne la
venuta (19,11; cf. 12,56). Lo stesso vale per le prospettive allarmiste o avventiste che credono di scoprire
nelle guerre e negli sconvolgimenti della storia — Luca allude forse alla rivolta giudaica degli anni 66-70
— un segno della fine del mondo. L’evangelista insiste, sottolineando che ciò di cui si parla qui non
riguarda il termine degli avvenimenti umani, ma lo sviluppo storico di ciò che avviene nel tempo e nello
spazio degli uomini. Per questo l’evangelista Luca non accenna più ai «dolori del parto» (cf. Mt 24,8.19-
28; Mc 13,8), che nei profeti sono presagio della liberazione finale (cf. Mi 4,9-10; Ger 30,5-7; Is 66,7-13).
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«Io sono»: (= JHWH, cf. Es 3,13ss) È la pretesa di sostituirsi a Dio o di spacciarsi come suoi mediatori,
investiti di prerogative divine. Era già accaduto al tempo dei Profeti, contro l’avvertenza contraria del
Signore (cf. Ger 14,14), accadrà anche dopo l’Ascensione (cf. 1 Gv 2,18).
«il tempo è prossimo»: il tempo è solo quello stabilito irrevocabilmente da Dio (Dn 7,22; Mt 3,2), non da
avventurieri rovinosi.
Il termine greco «Kairòs» (= tempo, vedi anche Chronos e Aion) usato dal terzo evangelista indica nella
Bibbia il momento decisivo, momento opportuno per prendere risoluzioni. Richiede enormi responsabilità.
Nell’AT. JHWH decide che è il momento buono per il giudizio (cf. Dn7,22; Sal 119,126; Qo 3,1).
Nel N.T. il Kairòs è segnato dall’apparizione e dai gesti di Gesù (i 30 anni sono fondamentali, cf. Mt
26,18; Mc 1,15; Lc 19,44).
Dio attua il suo progetto di salvezza secondo un proprio ordine e conserva il segreto dei momenti decisivi
per se stesso (At 1,7).
Per gli uomini i Kairòs vengono all’improvviso (1 Ts 5,1-2), un momento di questi è la parusia (= avvento
del Signore, del suo Giorno).
Dunque l’imperativo a non seguirli!
v. 9 - Invece verranno guerre e sollevazioni di popoli, che fanno parte del corredo permanente della storia
umana quando vive dell’orgoglio, della sete di potere e della violenza. Luca usa «rivoluzioni (rivolte,
sommosse)» invece di «rumori di guerre (vedi Mc 13,7); allude alla rivolta del 66-70 d. C, che porterà alla
distruzione di Gerusalemme.
Con quel «prima» l’evangelista Luca pone un distacco netto tra i segni e la fine, specifica che questi e
simili fatti appartengono ancora alla storia e non alla fine dei tempi (vedi anche inizio della parabola delle
mine trafficate, Lc 19,11ss).
Notiamo infatti che Marco parla della «fine» (ho telos: Mc 13,7; cf. Mt 24,6.14): per il giudeo, essa è una
realtà già presente nella nostra storia, dal momento che si tratta del compimento del disegno divino. Nella
mentalità greco-romana, invece, la «fine» (v. 9) è il termine»: non avviene «adesso», e quindi non interessa
la vita presente. Luca cerca allora un’altra via per far comprendere la medesima realtà, precisando che non
intende parlare del punto d’arrivo della storia, ma di ciò che «avviene prima» (cf. anche v. 12).
vv. 10-11 «Poi disse loro»: L’evangelista Luca spezza il discorso e distingue i segni della fine (vv. 10s.25-
27) dalla storia che li precede (vv. 12-19.20-24).
Le espressioni utilizzate da Luca appartengono a temi e linguaggio apocalittici; l’espressione «si solleverà
popolo contro popolo e regno contro regno»si trova in Isaia (19,2), in un oracolo contro l’Egitto sconvolto
dalle vittorie assire (722-711 a C.) e nel secondo libro delle Cronache (15,6), in una profezia del tempo del
re di Giuda Asa (sec. IX-VIII a.C).
La cornice del discorso (vv. 10-11) è chiaramente cosmica. Riprendendo il filo del racconto con
l’espressione: «Allora diceva loro», Luca attenua il legame che Mc 13,9 e Mt 24,9 stabiliscono fra le
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catastrofi di cui si è parlato sopra e quelle che annunciano la fine. Gli sconvolgimenti a cui allude Luca a
questo punto sembrano essere piuttosto le ripercussioni, su scala cosmica, dello scandalo della morte
dell’Inviato. Le perturbazioni della natura indicano fino a che punto l’intera creazione è sconvolta da
questo rifiuto omicida: cogliere il vero significato di tali eventi cosmici, significa scoprire in essi gli
elementi della storia nella loro portata profetica, alla luce dell’avvento del figlio dell’uomo; è quanto verrà
espresso dai vv. 25-27.
v. 12 - Prima ancora avverrà la persecuzione generale dei discepoli a causa del nome di Gesù Cristo;
abbiamo qui praticamente, in termini profetici, una sintesi dei primi capitoli del libro degli Atti.. Un
preludio alla storia della Chiesa, nella quale la persecuzione subita è indice di appartenenza a Gesù e di
condivisione del suo stesso destino.
Anche la storia di Paolo può essere considerata su questa linea (cf. At 14,22 e il racconto delle sue
prigionie, comparse davanti a re e governatori, insuccessi nelle sinagoghe).
Il tempo delle persecuzioni (vv. 12-19) non va preso come una tragedia.
L’espressione «prima di tutto» riporta il lettore alla concretezza delle situazioni che attendono i discepoli
nel corso della storia. Quello che viene tracciato qui, è già il programma degli Atti degli apostoli, che si
concluderanno a Roma, crocevia del mondo, dove la Parola è proclamata a tutti «senza impedimento» (At
28,31). Attraverso gli avvenimenti narrati in quel libro, si può scoprire che la persecuzione, e a volte
persino il martirio, non sono una barriera tragica e insormontabile. Infatti, né la misericordia di Dio, né il
suo disegno di salvezza vengono meno per questo. Anche il naufragio di Paolo e dei suoi compagni (At
27), in definitiva, è una parabola della salvezza gratuita offerta a tutti: neppure «un capello della vostra
testa ... sarà perduto» (v. 18; cf. At 27,34).
Sarebbe sbagliato vedere in questo una presentazione troppo rosea della vita dei discepoli: il libro degli
Atti descrive chiaramente il cammino difficile dei testimoni che si sono posti al servizio della Parola.
v. 13 «rendere testimonianza»: nel senso: sia di attestare l’esistenza di un fatto, di una realtà ad un
uditorio che lo ignora e non può verificarlo direttamente; sia di testimonianza suprema, quella del sangue.
In italiano questa testimonianza viene designata con la stessa parola greca «martyrìa»; il testimone è
associato al destino di colui a cui rende testimonianza (leggi ad es. Ap 11,3-12).
Ma la testimonianza è anche quella resa dalla parola di Dio nella vita dei discepoli perseguitati e a loro
favore. L’azione dello Spirito santo (cf. 12,12) e della sapienza (v. 15) si manifesta in particolare nella
testimonianza di Stefano (At 6,10). La prospettiva di speranza a cui Gesù invita i futuri testimoni è
sottolineata dal loghion che abbiamo citato sopra, e che esprime simbolicamente la protezione divina: «Ma
anche i capelli della vostra testa sono tutti contati» (12,7; cf. Mt 10,30); sono le parole con cui, in passato,
il popolo aveva riscattato Giònata dalla sua colpa (1Sam 14,45).
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vv. 14-15 «non premeditare»: unico uso di questa espressione nel N.T., benché un concetto analogo
ricorra in 12,1 ls. Il termine greco «pro-meletao» è usato anche col significato di fare esercizi ginnici o far
la prova di una danza; i cristiani non dovranno comportarsi come attori di teatro.
«io vi darò lingua e sapienza»: vedi il caso di Stefano in At 6,10; è la sapienza che manifestò Gesù, fin da
fanciullo, nel tempio tra i dottori (Lc 2,42ss).
Da notare come qui Luca attribuisce a Gesù l’iniziativa che Mt 10,20 e Mc 13,11 (altrove lo stesso Lc in
12,12) riservano allo Spirito del Padre (Mt) o allo Spirito Santo (Mc e Lc)
vv. 16-17 Nella decisione per Gesù si verifica la vera divisione tra gli uomini (cf. Lc 12,51ss; 14,25ss).
«neppure un capello»: dopo l’affermazione precedente può sembrare alquanto strana una simile
affermazione (cf. Lc 12,7; 12,4); possiamo considerarla un invito alla fiducia, dato anche il tono del
versetto successivo.
v. 19 - A questo punto, Luca aggiunge un versetto abbastanza diverso dal parallelo marciano (13,13) e da
quello matteano (24,13), che parlano di «restare saldi sino alla fine»:
«Con la vostra perseveranza possiederete le vostre vite»: Questa «perseveranza» (gr. hypomonḗ)
manifesta la lunga pazienza dell’azione di Dio nella vita degli uomini, espressa dalla parabola della
semente (cf. 8,15). Frutto della fede, essa è il segno dell’assimilazione del destino del credente a quello di
Gesù (Rm 2,7; 5,3f; 8,25; 2 Cor 12,12; 2 Ts 3,5; Gc 1,3f; 5,11; Ap 2,2f; 13,10).
La raccomandazione finale della pericope è di confermazione nella perseveranza, che è sopportazione e
costanza (il termine greco hypomonḗ è usato solo due volte nell’evangelo di Luca e comprende ambedue i
significati), che è la vera virtù cristiana (cf. Lc 8,15), i discepoli resteranno in saldo possesso della loro
anima, ossia della salvezza finale.
Il discorso è interrotto qui. Il seguito, almeno in parte (come abbiamo già detto), è proclamato nella Dom.
la di Avvento.
È una lettura da tener presente e meditare non solo in questo periodo, ma tutto l’anno.
L’interpretazione letterale con un pò di impegno è abbastanza chiara; difficile, se non impossibile, ne è
l’applicazione a situazioni storiche concrete; come accade per il libro dell’Apocalisse.
Un solo suggerimento: ciascuno di noi è interessato nella sua vita da «segni» che lo chiamano al signore,
alla sua fine personale, e deve farne attenta meditazione.
Esistono anche «segni»comunitari.
Confessiamo di aver perduto un pò il senso «escatologico », finale della nostra esistenza individuale e
comunitaria, che confondiamo con la venuta ultima del Signore, un evento proiettato lontano da noi.
La proclamazione di domani ci aiuti in qualche modo a ritrovarla.
II Colletta
O Dio, principio e fine di tutte le cose,
che raduni tutta l'umanità
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nel tempio vivo del tuo Figlio,
fa' che attraverso le vicende,
lieti e tristi, di questo mondo,
teniamo fissa la speranza del tuo regno,
certi che nella nostra pazienza possederemo la vita.
Per il nostro Signore Gesù Cristo...
lunedì 11 novembre 2013
Abbazia Santa Maria di Pulsano

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