Padre Raniero Cantalamessa "Vi annuncio una grande gioia"


Evangelizzare mediante la gioia
Dopo aver riflettuto sulla grazia dell’anno fede e sull’anniversario del Vaticano II, dedichiamo questa ultima meditazione di Avvento al terzo grande tema dell’anno, l’evangelizzazione. Il papa ha invitato la Chiesa a fare di questo anno l’occasione per riscoprire “la gioia dell’incontro con Cristo”, la gioia di essere cristiani. Facendomi eco di questa esortazione, parlerò di come evangelizzare attraverso la gioia. Lo faccio rimanendo il più possibile legato al tempo liturgico in atto, in modo che serva anche come preparazione al Santo Natale.
1. Il giubilo escatologico

Nei “vangeli dell’infanzia”, Luca, “mosso dallo Spirito Santo”, è riuscito non solo a presentarci dei fatti e dei personaggi, ma anche a ricreare l’atmosfera e lo stato d’animo con cui furono vissuti quei fatti. Uno degli elementi più evidenti di questo mondo spirituale è la gioia. La pietà cristiana non si è sbagliata, quando ha dato agli avvenimenti dell’infanzia di Gesù il nome di “misteri gaudiosi”, misteri della gioia.
A Zaccaria, l’angelo promette che avrà “gioia ed esultanza” per la nascita del figlio e che molti “si rallegreranno” per essa (cf Lc 1, 14). C’è un termine greco che, a partire da questo momento, ricomparirà sulla bocca dei vari personaggi come una specie di nota continua ed è il termine agallìasis che indica “il giubilo escatologico per l’irrompere del tempo messianico”. Al saluto di Maria, il bambino “esultò di gioia” nel seno di Elisabetta (Lc 1, 44), preannunciando, con ciò, la gioia dell’“amico dello sposo” per la presenza dello sposo (cf Gv 3, 29 s). Quella nota raggiunge un primo vertice nel grido di Maria: “Il mio spirito esulta (egallìasen) in Dio!” (Lc 1, 47); si diffonde nella gioia quieta degli amici e dei parenti intorno alla culla del Precursore (cf Lc 1, 58), per esplodere, infine, in tutta la sua forza, alla nascita di Cristo, nel grido degli angeli ai pastori: “Vi annuncio una grande gioia!” (Lc 2, 10).
Non si tratta solo di alcuni accenni sparsi alla gioia, ma piuttosto di un impeto di gioia calma e profonda che percorre i “vangeli dell’infanzia”, dall’inizio alla fine e si esprime in mille modi diversi: nello slancio con cui Maria si alza per recarsi da Elisabetta e i pastori per recarsi a vedere il Bambino, nei gesti umili e tipici della gioia che sono le visite, gli auguri, i saluti, le congratulazioni, i doni. Ma soprattutto si esprime nello stupore e nella gratitudine commossa di questi protagonisti: “Dio ha visitato il suo popolo! [...] Si è ricordato della sua santa alleanza!”. Ciò che tutti gli oranti avevano chiesto – che Dio si ricordasse delle sue promesse – ora è accaduto! I personaggi dei “vangeli dell’infanzia” sembrano muoversi e parlare nell’atmosfera di sogno cantata dal Salmo 126, il Salmo del ritorno dall’esilio:
“Quando il Signore ricondusse i prigionieri di Sion,
ci sembrava di sognare.
Allora la nostra bocca si aprì al sorriso,
la nostra lingua si sciolse in canti di gioia.
Allora si diceva tra i popoli:
“Il Signore ha fatto grandi cose per loro”.
Grandi cose ha fatto il Signore per noi,
ci ha colmati di gioia”.
Maria fa sua l’ultima espressione di questo Salmo, quando esclama: “Grandi cose ha fatto per me l’Onnipotente!”. Siamo davanti al più puro esempio di “sobria ebbrezza” dello Spirito. La loro è una vera “ebbrezza” spirituale, ma è “sobria”. Non si esaltano, non si preoccupano di avere un posto più o meno importante nell’incipiente regno di Dio. Non si preoccupano neppure di vedere la fine; Simeone, anzi, dice che ora il Signore può anche lasciare che egli se ne vada in pace, che scompaia. Quello che conta è che l’opera di Dio vada avanti, non importa se con loro o senza di loro.
2. Dalla liturgia alla vita
Passiamo ora dalla Bibbia e dalla liturgia alla vita. A ciò mira sempre la parola di Dio. L’intento dell’evangelista Luca non è solo di narrare, ma anche di coinvolgere gli uditori e trascinarli, come i pastori, in un corteo gioioso verso Betlemme. “Chi legge queste righe – commenta un esegeta moderno – è chiamato a condividere il giubilo; solo la comunità concelebrante dei credenti in Cristo e dei suoi fedeli può essere all’altezza di questi testi”[1].
Questo spiega perché i vangeli dell’infanzia hanno così poco da dire a chi cerca in essi solo la storia, e hanno invece tanto da dire a chi vi cerca anche il significato della storia, come fa il Santo Padre nel suo ultimo volume su Gesù. Vi sono tanti fatti che sono accaduti, ma non sono “storici” nel senso pregnante del termine, perché non hanno lasciato traccia nella storia, non hanno creato nulla. Gli eventi relativi alla nascita di Gesù sono fatti “storici” nel senso più forte, perché non solo sono accaduti, ma hanno inciso – e in modo determinante – nella storia del mondo.
Ma torniamo al tema della gioia. Da che cosa nasce la gioia? La sua fonte ultima è Dio, la Trinità. Ma noi siamo nel tempo e Dio è nell’eternità; come può scorrere la gioia tra questi due piani così distanti? Difatti, se interroghiamo meglio la Bibbia, scopriamo che la scaturigine immediata della gioia è nel tempo: è l’agire di Dio nella storia. Dio che agisce! Nel punto in cui “cade” un’azione divina, si produce come una vibrazione e un’ondata di gioia che si propaga, poi, per generazioni, anzi – trattandosi di azioni consegnate nella Rivelazione –, per sempre.
L’agire di Dio è, ogni volta, un miracolo che riempie di stupore il cielo e la terra: “Esultate, cieli, perché il Signore ha agito – esclama il profeta –; giubilate, profondità della terra!” (Is 44, 23; 49, 13). La gioia che erompe dal cuore di Maria e degli altri testimoni degli inizi della salvezza si fonda tutta su questo motivo: Dio ha soccorso Israele! Dio ha agito! Ha fatto cose grandi!
Come può, questa gioia per l’agire di Dio, raggiungere la Chiesa di oggi e contagiarla? Lo fa, anzitutto, per via di memoria, nel senso che la Chiesa “ricorda” le opere meravigliose di Dio a suo favore. La Chiesa è invitata a fare sue le parole della Vergine: “Grandi cose ha fatto per me l’Onnipotente”. Il Magnificat è il cantico che Maria ha intonato per prima, come corifea, e ha lasciato alla Chiesa perché lo prolunghi nei secoli. Grandi cose ha fatto, in realtà, il Signore per la Chiesa, in questi venti secoli!
Noi abbiamo, in un certo senso, più ragioni oggettive per gioire, di quante ne avessero Zaccaria, Simeone, i pastori e, più in generale tutta la Chiesa nascente. Essa partiva “portando la semente da gettare”, come dice il Salmo 126 ricordato sopra; aveva ricevuto delle promesse: “Io sono con voi!” e delle consegne: “Andate in tutto il mondo!”. Noi abbiamo visto il compimento. Il seme è cresciuto, l’albero del Regno è divenuto immenso. La Chiesa di oggi è come il seminatore che “torna con giubilo, portando i suoi covoni”.
Quante grazie, quanti santi, quanta sapienza di dottrina e ricchezza di istituzioni, quanta salvezza operata in lei e attraverso di lei! Quale parola di Cristo non ha trovato il suo perfetto compimento? Ha trovato certo compimento la parola: “Nel mondo avrete tribolazione” (Gv 16, 33), ma l’ha trovato anche la parola: “Le porte degli inferi non prevarranno!” (Mt 16, 18).
Con quanta ragione la Chiesa può fare suo, dinanzi alle schiere senza numero dei suoi figli, lo stupore dell’antica Sion e dire: “Chi mi ha generato costoro? Io ero priva di figli e sterile; questi chi li ha allevati?” (Is 49, 21). Chi, guardando indietro con gli occhi della fede, non vede adempiute perfettamente nella Chiesa le parole profetiche rivolte alla nuova Gerusalemme ricostruita dopo l’esilio: “Alza gli occhi intorno e guarda: tutti costoro si sono radunati, vengono a te. I tuoi figli vengono da lontano [...]. Le tue porte saranno sempre aperte, [...] per lasciare introdurre da te le ricchezze dei popoli” (Is 60, 4.11).
Quante volte la Chiesa ha dovuto allargare, in questi venti secoli – anche se non sempre ciò è avvenuto prontamente e senza resistenze –, lo “spazio della sua tenda”, cioè la capacità di accoglienza, per far entrare le ricchezze umane e culturali dei diversi popoli! A noi, figli della Chiesa che ci nutriamo “dall’abbondanza del suo seno”, è rivolto l’invito del profeta a rallegrarci per la Chiesa, a “sfavillare di gioia per essa”, dopo aver partecipato al suo lutto (cf Is 66, 10).
La gioia per l’agire di Dio raggiunge, dunque, noi credenti di oggi per via di memoria, perché vediamo le cose grandi che Dio ha fatto per noi in passato. Ma ci raggiunge anche in un altro modo non meno importante: per via di presenza, perché constatiamo che anche ora, al presente, Dio agisce in mezzo a noi, nella Chiesa.
Se la Chiesa di oggi vuole ritrovare, in mezzo a tutte le angustie e le tribolazioni che la stringono, le vie del coraggio e della gioia, deve aprire bene gli occhi su ciò che Dio sta compiendo oggi stesso in lei. Il dito di Dio, che è lo Spirito Santo, sta scrivendo ancora nella Chiesa e nelle anime e sta scrivendo storie meravigliose di santità, tali che un giorno – quando sarà scomparso nel nulla tutto il negativo e il peccato faranno, forse, guardare alla nostra epoca con stupore e santa invidia. Chiudiamo forse gli occhi, così facendo, ai tanti mali che affliggono la Chiesa e ai tradimenti di tanti suoi ministri? No, ma dal momento che il mondo e i suoi media non mettono in risalto, della Chiesa, che queste cose, è bene una volta sollevare lo sguardo e vedere anche il lato luminoso di essa, la sua santità.
In ogni epoca – anche nella nostra – lo Spirito dice alla Chiesa, come al tempo del Deuteroisaia: “Ora ti faccio udire cose nuove e segrete che tu nemmeno sospetti. Ora sono create e non da tempo” (Is 48, 6-7). Non è una “cosa nuova e segreta” questo soffio potente dello Spirito che rianima il popolo di Dio e suscita in mezzo ad esso carismi di ogni genere, ordinari e straordinari? Questo amore per la parola di Dio? Questa partecipazione attiva dei laici alla vita della Chiesa e all’evangelizzazione? L’impegno costante del magistero e di tante organizzazioni a favore dei poveri e dei sofferenti e l’anelito a ricomporre l’unità spezzata del Corpo di Cristo? In quale epoca passata la Chiesa ha avuto una tale serie di Sommi Pontefici dotti e santi come da un secolo e mezzo a questa parte e tanti martiri della fede?
3. Un diverso rapporto tra gioia e dolore
Dal piano ecclesiale passiamo al piano esistenziale e personale. Qualche anno fa ci fu una campagna promossa dall’ala militante dell’ateismo, il cui slogan pubblicitario, affisso sui mezzi di trasporto pubblico di Londra, diceva: “Dio probabilmente non esiste. Dunque smetti di tormentarti e goditi la vita”: There’s probably no God. Now stop worrying and enjoy your life”.
L’elemento più insidioso di questo slogan non è la premessa “Dio non esiste” (che è tutta da dimostrare), ma la conclusione: “Goditi la vita!” Il messaggio sottinteso è che la fede in Dio impedisce di godere la vita, è nemica della gioia. Senza di essa ci sarebbe più felicità nel mondo! Bisogna dare una risposta a questa insinuazione che tiene lontani dalla fede soprattutto i giovani.
Gesù ha operato, a proposito della gioia, una rivoluzione di cui è difficile esagerare la portata e che ci può essere di grande aiuto nell’evangelizzazione. È un pensiero che credo di avere già espresso in questa stessa sede, ma l’argomento lo richiede. Esiste un’esperienza umana universale: in questa vita piacere e dolore si susseguono con la stessa regolarità con cui, al sollevarsi di un’onda nel mare, segue un avvallamento e un vuoto che risucchia indietro il naufrago. “Un non so che di amaro – ha scritto il poeta pagano Lucrezio – sorge dall’intimo stesso di ogni piacere e ci angoscia in mezzo alle delizie”[2]. L’uso della droga, l’abuso del sesso, la violenza omicida, sul momento danno l’ebbrezza del piacere, ma conducono alla dissoluzione morale, e spesso anche fisica, della persona.
Cristo ha ribaltato il rapporto tra piacere e dolore. Egli “in cambio della gioia che gli era posta innanzi, si sottomise alla croce” (Eb 12,2). Non più un piacere che termina in sofferenza, ma una sofferenza che porta alla vita e alla gioia. Non si tratta solo di un diverso susseguirsi delle due cose; è la gioia, in questo modo, ad avere l’ultima parola, non la sofferenza, e una gioia che durerà in eterno. “Cristo risuscitato dai morti non muore più; la morte non ha più potere su di lui” (Rom 6,9). La croce termina con il Venerdì Santo, la beatitudine e la gloria della Domenica di risurrezione si prolungano in eterno.
Questo nuovo rapporto tra sofferenza e piacere si riflette perfino nel modo di scandire il tempo della Bibbia. Nel calcolo umano, il giorno inizia con la mattina e termina con la notte; per la Bibbia comincia con la notte e termina con il giorno: “E fu sera e fu mattina: primo giorno”, recita il racconto della creazione (Gen 1,5). Anche per la liturgia, la solennità comincia con i vespri della vigilia. Che significa questo? Che senza Dio, la vita è un giorno che termina nella notte; con Dio, è una notte (a volte, una “notte oscura”), ma termina nel giorno, e un giorno senza tramonto.
Dobbiamo però prevenire una facile obiezione: la gioia è dunque solo per dopo la morte? Questa vita non è, per i cristiani, che una “valle di lacrime”? Al contrario, nessuno sperimenta in questa vita la vera gioia quanto i veri credenti. Si narra di un santo che un giorno gridò a Dio: “Basta con la gioia! Il mio cuore non ne può contenere di più”. I credenti, esorta l’Apostolo sono “spe gaudentes”, lieti nella speranza (Rom 12, 12), il che non significa solo che “sperano di essere felici” (s’intende, nell’al di là), ma anche che “sono felici di sperare”, felici già ora, grazie alla speranza.
La gioia cristiana è interiore; non viene dal di fuori, ma dal di dentro, come certi laghi alpini che si alimentano, non da un fiume che vi si getta dall’esterno, ma da una sorgente che zampilla nel suo stesso fondo. Nasce dall’agire misterioso e attuale di Dio nel cuore dell’uomo in grazia. Può far sì perciò che si abbondi di gioia anche nelle tribolazioni (cf 2 Cor 7, 4). È “frutto dello Spirito” (Gal 5, 22; Rom 14, 17) e si esprime in pace del cuore, pienezza di senso, capacità di amare e di lasciarsi amare e soprattutto in speranza, senza la quale non ci può essere gioia.
Nel 1972 il Consiglio d’Europa, su proposta di Herbert von Karajan, adottò come inno ufficiale dell’Europa unita l’inno alla gioia che conclude la Nona Sinfonia di Beethoven. Si tratta certamente di uno dei vertici della musica mondiale, ma la gioia cantata in esso è una gioia vagheggiata, non realizzata; è un grido che si leva dal cuore umano, più che una risposta ad esso.
Nell’ode di Schiller, da cui è tratto il testo dell’inno, si leggono parole inquietanti: “Chi ha avuto la gioia di possedere un amico o una buona moglie, chi ha conosciuto, non fosse che per un’ora sola, cos’è l’amore, questi si accosti pure; ma chi non ha conosciuto nulla di tutto ciò, ebbene che si allontani, piangendo, dalla nostra cerchia”. Come si vede, la gioia che gli uomini “bevono dai seni della natura” non è per tutti, ma solo per alcuni privilegiati della vita.
Siamo ben lontani dal linguaggio di Gesù che dice: “Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò” (Mt 11, 28). Il vero inno cristiano alla gioia è il Magnificat di Maria. Esso parla di una esultanza (agalliasis) dello spirito per quello che Dio ha fatto in lei e fa per tutti gli umili e gli affamati della terra.
4. Testimoniare la gioia
Questa la gioia che dobbiamo testimoniare. Il mondo cerca la gioia. “Al solo sentirla nominare – scrive sant’Agostino – tutti si drizzano e ti guardano, per così dire, nelle mani, per vedere se mai tu sia in grado di dare qualcosa al loro bisogno”[3]. Tutti vogliamo essere felici. È la cosa che accomuna tutti, buoni e cattivi. Chi è buono, è buono per essere felice; chi è cattivo non sarebbe cattivo, se non sperasse di potere, con ciò, essere felice[4]. Se tutti amiamo la gioia è perché, in qualche modo misterioso, l’abbiamo conosciuta; se infatti non l’avessimo conosciuta – se non fossimo fatti per essa –, non l’ameremmo[5]. Questa nostalgia della gioia è il lato del cuore umano naturalmente aperto a ricevere il “lieto messaggio”.
Quando il mondo bussa alle porte della Chiesa – perfino quando lo fa con violenza e con ira – è perché cerca la gioia. I giovani soprattutto cercano la gioia. Il mondo intorno a loro è triste. La tristezza, per così dire, ci prende alla gola, a Natale più che nel resto dell’anno. Non è una tristezza che dipende dalla mancanza di beni materiali perché è molto più evidente nei paesi ricchi che in quelli poveri.
In Isaia leggiamo queste parole, rivolte al popolo di Dio: “Hanno detto i vostri fratelli che vi odiano e vi respingono a causa del mio nome: Mostri il Signore la sua gloria e voi fateci vedere la vostra gioia!” (Is 66, 5). La stessa sfida è rivolta, silenziosamente, al popolo di Dio, anche oggi. Una Chiesa malinconica e timorosa non sarebbe, perciò, all’altezza del suo compito; non potrebbe rispondere alle attese dell’umanità e soprattutto dei giovani.
La gioia è l’unico segno che anche i non credenti sono in grado di recepire e che può metterli seriamente in crisi. Non tanto i ragionamenti e i rimproveri. La testimonianza più bella che una sposa può dare al suo sposo è un volto che mostra la gioia, perché esso dice, da solo, che egli è stato capace di riempirle la vita, di renderla felice. Questa è anche la testimonianza più bella che la Chiesa può rendere al suo Sposo divino.
San Paolo, rivolgendo ai cristiani di Filippi quell’invito alla gioia che dà il tono a tutta la terza settimana di Avvento: “Rallegratevi nel Signore sempre, ve lo ripeto ancora, rallegratevi!”, spiega anche come si può testimoniare, nella pratica, questa allegrezza: “La vostra affabilità – dice – sia nota a tutti gli uomini” (Fil 4, 4-5). La parola “affabilità” traduce qui un termine greco (epieikès) che indica tutto un complesso di atteggiamenti fatto di clemenza, indulgenza, capacità di saper cedere, di non essere puntigliosi. (È lo stesso vocabolo da cui deriva la parola epicheia, usata nel diritto!).
I cristiani testimoniano, perciò, la gioia quando mettono in pratica queste disposizioni; quando, evitando ogni acredine e inutile risentimento nel dialogo con il mondo e tra loro, sanno irradiare fiducia, imitando, in tal modo, Dio, che fa piovere la sua acqua anche sugli ingiusti. Chi è felice, in genere, non è amaro, non sente il bisogno di puntualizzare tutto e sempre; sa relativizzare le cose, perché conosce qualcosa che è troppo più grande. Paolo VI, nella sua “Esortazione apostolica sulla gioia”, scritta negli ultimi anni del suo pontificato, parla di uno “sguardo positivo sulle persone e sulle cose, frutto d’uno spirito umano illuminato e dello Spirito Santo”[6].
Anche dentro la Chiesa, non solo verso quelli di fuori, c’è bisogno vitale della testimonianza della gioia. San Paolo diceva di sé e degli altri apostoli: “Noi non intendiamo fare da padroni sulla vostra fede, ma siamo i collaboratori della vostra gioia” (2 Cor 1, 24). Che splendida definizione del compito dei pastori nella Chiesa! Collaboratori della gioia: coloro che infondono sicurezza alle pecorelle del gregge di Cristo, i valorosi capitani che, con il solo loro sguardo tranquillo, rincuorano i soldati impegnati nella lotta.
In mezzo alle prove e alle calamità che affliggono la Chiesa, specialmente in alcune parti del mondo, i pastori possono ripetere, anche oggi, quelle parole che Neemia, un giorno, dopo l’esilio, rivolse al popolo d’Israele affranto e in lacrime: “Non fate lutto e non piangete [...], perché la gioia del Signore è la vostra forza!” (Ne 8, 9-10).
Che la gioia del Signore, Santo Padre, Venerabili Padri, fratelli e sorelle, sia davvero, la nostra forza, la forza della Chiesa. Buon Natale!

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