Don Alberto Brignoli "Ho visto, e ora credo"

IV Domenica di Quaresima - Laetare (Anno A) (30/03/2014)
Vangelo: Gv 9,1-41
Ci fidiamo molto di ciò che vediamo. "L'ho visto io, con i miei occhi!": è una delle tipiche frasi cui attribuiamo un certificato originale di veridicità, e di fronte alla quale riteniamo inattendibile ogni tentativo di opinione contraria. "Diamine, l'ho visto io: sono sicuro! Non sono stupido: credi che mi sia sognato?": e guai a chi prova ad affermare il contrario o anche solo qualcosa di diverso...
"Vedere per credere": lo diciamo spesso, soprattutto quando non ci fidiamo della testimonianza altrui. E sembra proprio che a dare manforte a questa teoria ci si metta pure il Vangelo di Giovanni, la cui lettura ci sta accompagnando in queste tre domeniche di Quaresima immediatamente precedenti la Settimana Santa. L'evangelista Giovanni, infatti, basa molto la fede del credente sul "vedere": a partire dall'incontro di Gesù con la Samaritana, al termine del quale i samaritani credono non più per la sua parola, ma perché hanno visto di persona il Messia, fino poi ai capitoli finali del
Vangelo, in cui l'utilizzo del verbo "vedere" costituisce una vera e propria catechesi, un cammino dell'uomo in ricerca di Dio fino alla rivelazione totale e definitiva che per Giovanni si concretizza nelle visioni del libro dell'Apocalisse.
Il versetto centrale del Vangelo di Giovanni è ritenuto da molti studiosi quello in cui, alla richiesta di Filippo di poter vedere il Padre, di poter quindi incontrare Dio definitivamente, Gesù risponde: "Chi ha visto me, ha visto il Padre" (Gv 14,9). È un vedere fisico, che certamente non basta per riconoscere in quell'uomo il Figlio unigenito di Dio: ma senz'altro è il primo, fondamentale passo. Il "vedere", poi, è fatto di altri passaggi, di cui il capitolo 20, quello della Resurrezione, è impregnato: dai segni "visti" dalla Maddalena senza comprendere (il sepolcro vuoto e il giardiniere), alla vista del sepolcro e delle bende da parte di Giovanni che "vide e iniziò a credere", alla vista del Maestro ancora da parte della Maddalena (i cui occhi nel frattempo si sono progressivamente aperti) per giungere poi al "vedere" su testimonianza, quello per cui i discepoli che hanno visto il Signore risorto in mezzo a loro lo testimoniano a Tommaso. Sarà proprio lui, con la sua iniziale incredulità, ad aprire alla rivelazione finale sul "vedere e credere": lui che voleva "vedere per credere", crederà non perché ha visto, ma perché ha contemplato, e per fare questo, lo sguardo fisico - momento fondamentale per l'inizio del cammino di fede - non serve più. Gesù, infatti, proclamerà "beati coloro che, pur non avendo visto, crederanno".
Potrà sembrare strano, ma per giungere a questo cammino della "fides e visu" - la fede per la visione - bisogna partire dal capitolo 9 del Vangelo di Giovanni, quello che oggi abbiamo ascoltato, ovvero...da un cieco, da uno che proprio non vede nulla. Gesù stesso lo presenta come cieco non perché castigato da Dio (come la teologia della retribuzione sosteneva, a causa dei peccati suoi o meglio ancora dei suoi genitori), ma "perché in lui siano manifestate le opere di Dio", ovvero perché Dio possa manifestare la sua essenza più vera, la Teologia della Grazia. Per grazia, infatti, siamo stati salvati; e questo non perché Dio abbia guardato alle nostre buone o cattive opere o a ciò che appare di noi all'esterno. Dio, infatti - ce lo dice la prima lettura - "vede il cuore", e non le apparenze: ed è per questo che ci salva, e salva soprattutto i cuori affranti, come può essere il cuore di un uomo che, afflitto perché cieco dalla nascita, si sente per giunta dire che questa sua afflizione è dovuta alle sue colpe o a quelle dei suoi genitori.
E pensare che c'è qualcuno che non ne esce proprio, da una "visione" di questo tipo! C'è ancora chi si ostina a vedere Dio come un retributore di grazie e di disgrazie a seconda del comportamento umano! Al punto che non c'è assolutamente spazio per la grazia e la misericordia di Dio, che rimangono invece soggette al legalismo farisaico, capace di condannare un gesto di misericordia per il solo fatto di essere stato compiuto in giorno di sabato. Un legalismo che arriva fino alla bestemmia: il Dio di Gesù Cristo è un peccatore, perché manifesta la sua misericordia quando invece la legge gli impedirebbe di farlo. Ancora peggio, il legalismo dei farisei arriva fino alla negazione dell'evidenza: quest'uomo non è stato guarito, perché cieco non lo è mai stato. È proprio vero che non c'è peggior cieco di chi non vuole vedere...
Ma il cieco nato del Vangelo ha visto, e soprattutto ha creduto: il brano di Vangelo di oggi narrerebbe, infatti, una delle tante belle guarigioni di Gesù, come molte ne ha operate, ma non avrebbe la sua pienezza di senso se non ci fosse quel grido "Credo, Signore!" e quel gesto di prostrazione e contemplazione che il cieco ormai guarito compire di fronte a Gesù. È ciò a cui Gesù voleva giungere: suscitare nuovamente la fede di quest'uomo in un Dio verso il quale, forse, non aveva più così tanta fiducia dopo che la vita lo aveva reso cieco, emarginato, disprezzato, e per giunta ritenuto peccatore sin dal concepimento.
Dio non perde occasione per far ritornare a sé anche l'uomo immerso nella peggiore delle tenebre: come dice Paolo nella seconda lettura, "un tempo eravate tenebra, ora siete luce nel Signore".
Un altro importante passo, in questo cammino verso la Pasqua, alla scoperta di Dio: dall'incontro di una donna samaritana con un Dio che non è legato a un luogo di culto, all'incontro di un cieco dalla nascita con un Dio che è grazia e misericordia.
Fino alla sconvolgente potenza dell'amore di un Dio che salva i suoi amici dalla fossa e li restituisce alla vita. Ma questa è storia di domenica prossima.

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