don Luca Garbinetto "Chi mangia la mia carne rimane in me e ha la vita eterna"

Santissimo Corpo e Sangue di Cristo (Anno A) (22/06/2014)
Vangelo: Gv 6,51-58
Ci sono due verbi che si intrecciano nel testo del vangelo proposto alla nostra meditazione questa domenica: mangiare e rimanere. Mangiare la carne di Cristo è la via per rimanere in Lui. A quale scopo? Per avere la vita eterna.

I capi dei Giudei non capiscono: mangiare la carne di un uomo è scandaloso; bere il sangue, poi, anche se si trattasse di animale, significherebbe presumere di rubare la vita a Dio, che ne è il Signore e Padrone. I Giudei, immagine di ogni uomo religioso che fa della propria religione una maschera protettiva dalle proprie debolezze e di Dio una specie di mago da interpellare per gratificare i propri bisogni di dominio e di sicurezza, non possono concepire un Dio che non è geloso di tenere per sé tutto se stesso. Anzi, Dio, in Gesù, si manifesta come tutto fuori di sé, tutto donato, tutto per gli altri. E se è geloso di qualcosa, è che i suoi abbiano vita in abbondanza!
Gesù, dunque, il Figlio di Dio, incompreso dai suoi contemporanei come da noi, contemporanei di una nuova epoca di autoreferenzialità religiosa, offre oggi scandalosamente la via per realizzare il più intimo desiderio della persona: quello di vivere, e di vivere per sempre.
Capiamo bene: vivere per sempre è cosa divina, è dono che può concernere solo le dimore di Dio. Sembra allora che i Giudei, arroccati nella difesa dei propri privilegi, impegnati a camuffare il volto di Dio dietro le menzogne del potere, non si accorgano di lasciarsi sfuggire di mano la grande novità: nella carne di Gesù, Dio stesso concede anche a loro, come a tutti, la porta di accesso proprio alla condizione divina.
Si tratta di accettarne lo scandalo del percorso, il paradosso dell'itinerario. Gesù, il Figlio di Dio, stupisce, sorprende. La strada che porta alla vita eterna, o meglio, che porta la vita eterna in noi, non è quella delle barriere difensive contro gli altri e dei muri di separazione tra individui e popoli, bensì è la strada della carne. Il che vuol dire che Dio rifiuta le ideologie e gli astrattismi - di cui spesso si impregnano anche i nostri ambienti lavorativi e famigliari, oltre che le nostre relazioni ecclesiali - e ci sollecita a un ‘tu a tu', a un rapporto autentico, a sporcarci le mani con Lui e con gli altri.
La strada che in-carna la vita eterna nella nostra carne, la sarx, simbolo di tutto quello che c'è in noi di fragile e caduco, soggetto anche alle seduzioni del Maligno, è la strada della frequentazione - oserei dire - fisica con Dio. Ebbene sì: Dio si fa mangiare!
Non è cosa da poco. Lo diciamo anche di noi, quando ci impegniamo molto in una attività o assumiamo con notevole dispendio di energie un compito: ci siamo ‘lasciati mangiare' dagli altri! Ma per noi è figurativo. Per Dio, è realtà.
Dio lo fa: si fa mangiare. E lo fa per amore, per primo. Chi vuole vivere la vita divina, fin d'ora trova nella carne del Figlio di Dio da mangiare l'unica autentica via. Via da percorrere come grazia, da scoprire come dono, da accogliere come meraviglia.
Due sono, sostanzialmente, le carni del Figlio di Dio che danno consistenza anche oggi al suo Corpo, che è la Chiesa.
C'è la carne eucaristica, quel pane tanto piccolo, debole e discreto, che non finirà mai di commuoverci per il suo parlare silenzioso e per la sua calda presenza umanamente quasi insignificante. Lì il Figlio di Dio non solo si fa presente perché noi possiamo ad-orarlo (‘portarlo alla bocca', magari per coprirlo di baci, come un figlio fragile che si ama tanto), possiamo masticarlo, possiamo assumerlo affinché ci assuma in Lui. Ma il Figlio soprattutto rimane. Definitivamente. Le parole del sacerdote invocano come preghiera accorata e fiduciosa la presenza carnale di Gesù, ed il miracolo avviene per rimanere, con l'umiltà e la delicatezza dell'amore. Gesù si fa amabile, accessibile, perché noi, nella nostra miseria, non ci sentiamo sbattuti fuori dal tempio del Dio dei dominatori e dei potenti.
Ma c'è poi la seconda carne: è la carne dei poveri. Lì Gesù ancora una volta rimane, ‘fino alla fine dei tempi', perché nelle piaghe insostenibili, nei caratteri intrattabili, nelle pene indicibili non perdiamo mai l'opportunità di mangiare in compagnia dei prediletti di Dio. Sono loro che ricordano a noi il senso più vero della nostra stessa carne, che è piagata quanto la loro, se non fisicamente, certamente negli incroci interiori che fanno esistere lo spirito. Perché non c'è spirito senza carne, come non c'è stato Spirito senza incarnazione. Di fronte all'altro, specialmente povero e umiliato, anche noi siamo messi nelle condizioni di abbracciare, baciare, assumere la carne ferita di ogni uomo, compresa la nostra. Ci scopriamo irrimediabilmente fragili anche noi, perché impotenti al cospetto di miriadi di drammi vissuti dal nostro prossimo.
Accade così il miracolo più vero. L'eucaristia diviene davvero vita vissuta. Perché nella carne dei poveri intravediamo la carne del Crocifisso, che ha reso vere le parole dell'ultima cena. Perché nella nostra carne debole notiamo rispecchiata la debolezza di Dio, e riconosciamo allora che solo a partire dalla nostra debolezza possiamo comprendere qualcosa dell'intimità di Dio. E perché se è vero che amare Dio significa, per Gesù, solo e instancabilmente amare il prossimo, allora chi porta alla bocca e mangia il ‘pane vivo disceso dal cielo' non completa il banchetto se non baciando la carne sfigurata dei poveri.
Le nozze così si consumano. Lo Sposo incarnato, rimasto fra noi nella fragilità della sua carne divenuta pane di vita eterna, giace con la Chiesa sua sposa che lo bacia e lo porta in bocca, ricevendone così una nuova fecondità. É, appunto, il dono della vita eterna che si diffonde a tutti, perché nessuno più muoia.

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