Enzo Bianchi"Santi Pietro e Paolo "

Commento al Vangelo di Enzo Bianchi - Domenica 29 giugno 2014
Mt 16,13-19
La solennità dei santi apostoli Pietro e Paolo riunisce in un’unica celebrazione Pietro –il primo discepolo
chiamato da Gesù nelle narrazioni dei vangeli sinottici, la roccia della chiesa – e Paolo, che non fu
discepolo di Gesù, né fece parte del gruppo dei dodici, ma che è stato chiamato “l’Apostolo”, il missionario
per eccellenza. Gli scritti del Nuovo Testamento non
raccontano la loro fine, ma un’antica tradizione li
vuole martiri, nella medesima città, Roma, e nello stesso giorno, vittime delle persecuzioni contro i
cristiani: due vite offerte in libagione a causa di Gesù e del Vangelo. I due apostoli sono così accomunati
nella celebrazione liturgica, dopo che le loro vicende terrene li hanno visti anche opporsi l’uno all’altro:
una comunione vissuta nella parresia evangelica e, proprio per questo, non sempre facile, anzi, sovente
faticosa.
Il bassorilievo in calcare conservato ad Aquileia, così come l’iconografia tradizionale che narra l’abbraccio
tra i due, vuole esprimere proprio quella comunione a caro prezzo che garantì l’opera di ciascuno dei due
come fondamento della chiesa di Roma, il luogo dove ebbe fine la loro corsa, il luogo che li vide entrambi
martiri al tempo di Nerone, messi a morte per la stessa motivazione. Pietro è tra i primi chiamati da Gesù:
un pescatore di Betsaida sul lago di Tiberiade, un uomo che certamente non diede molto spazio a una
formazione intellettuale e che viveva la propria fede soprattutto grazie al culto sinagogale del sabato e
poi, dopo la chiamata di Gesù, attraverso l’insegnamento di quel maestro che parlava come nessun altro
prima di lui.
Uomo generoso, impulsivo, Pietro seguì Gesù rispondendo di slancio alla chiamata, restando tuttavia
uomo incostante, facile preda della paura, capace persino di vigliaccheria, fino al misconoscimento di colui
che seguiva come discepolo. Sempre vicino a Gesù, a volte appare come portavoce degli altri discepoli, in
mezzo ai quali occupava una posizione preminente: non si potrebbe parlare delle vicende di Gesù senza
menzionare Pietro, che per primo osò confessare audacemente la fede in Gesù quale Messia. I discepoli,
come molti tra la folla, si chiedevano se Gesù fosse un profeta o addirittura “il” profeta degli ultimi tempi,
se fosse il Messia, l’Unto del Signore: fu Pietro che, sollecitato da Gesù, fece una confessione di fede con
parole che suonano diverse nei quattro vangeli ma che attestano tutte la sua priorità nel riconoscere la
vera identità di Gesù.
Pietro fece questa confessione non come “portavoce” dei dodici, bensì mosso da una forza interiore, da
una rivelazione (apokálypsis) che gli poteva venire solo da Dio. Credere che Gesù è il Messia, il Figlio di
Dio, non era possibile solo analizzando e interpretando l’eventuale compimento delle Scritture: è stato Dio
stesso, il Padre che è nei cieli a rivelare a Pietro l’identità di Gesù (cf. Mt 16,17). Gesù ha così riconosciuto
nel discepolo Simone una “roccia”, Kefa, una pietra sulla cui fede poteva trovare fondamento la comunità
la chiesa.
Pietro, chiamato “beato” da Gesù, dichiarato roccia solida capace di confermare nella fede i fratelli, non
sarà esente da errori, cadute, infedeltà al suo Signore. Subito dopo la confessione di fede che abbiamo
ricordato, manifesterà il suo pensiero troppo mondano riguardo al cammino di passione di Gesù, al punto
che questi lo chiamerà “Satana”, e alla fine della vicenda terrena di Gesù, Pietro per ben tre volte
dichiarerà di non averlo mai conosciuto: paura e volontà di salvare se stesso lo porteranno a dichiarare
con forza di “non conoscere” quel Gesù la cui conoscenza aveva ricevuto addirittura da Dio! Gesù, che lo
aveva assicurato della preghiera affinché non venisse meno la sua fede, dopo la risurrezione lo
riconfermerà al suo posto, chiedendogli però per tre volte di attestargli il suo amore: “Simone, figlio di
Giovanni, mi ami tu?” (Gv 21,15.16.17).
Punto sul vivo da questa domanda di Gesù, Pietro diverrà l’apostolo di Gesù, il pastore delle sue pecore
prima a Gerusalemme, poi presso le comunità giudaiche della Palestina, poi ad Antiochia e infine a Roma,
dove a sua volta deporrà la vita sull’esempio del suo Signore e Maestro. E a Roma Pietro ritroverà anche Paolo: non sappiamo se nel quotidiano della testimonianza cristiana, ma certamente nel segno grande del
martirio. Paolo, “l’altro”, l’apostolo differente, posto accanto a Pietro nella sua alterità, quasi a garantire
fin dai primi passi che la chiesa cristiana è sempre plurale e si nutre di diversità. Giudeo della diaspora,
originario di Tarso, capitale della Cilicia, salito a Gerusalemme per diventare scriba e rabbi al seguito di
Gamaliele, uno dei più famosi maestri della tradizione rabbinica, Paolo era un fariseo, esperto e zelante
della legge di Mosè, che non conobbe né Gesù né i suoi primi discepoli, ma che si distinse nell’opposizione
e nella persecuzione verso il nascente movimento cristiano.
Sulla via di Damasco, però, avvenne anche per Paolo l’incontro con Gesù risorto, la conversione e la
rivelazione, infatti, come confessa lo stesso Paolo, “la grazia si è compiaciuta di rivelare in me suo Figlio”
(Gal 1,15-16). Paolo si definisce un “aborto” (cf. 1Cor 15,8) rispetto agli altri apostoli che avevano visto il
Signore Gesù risorto, ma chiedeva di essere considerato inviato, servo, apostolo di Gesù Cristo al pari loro,
perché aveva messo la sua vita a servizio del Vangelo, si era fatto imitatore di Cristo anche nelle
sofferenze, si era prodigato in viaggi apostolici in tutto il Mediterraneo orientale, era abitato da una
sollecitudine per tutte le chiese di Dio. La sua passione, la sua intelligenza, il suo impegno ad annunciare il
Signore Gesù traspaiono da tutte le sue lettere e anche gli Atti degli apostoli ne danno sincera
testimonianza. È lui, per sua stessa definizione, “l’apostolo delle genti” come Pietro è “l’apostolo dei
circoncisi” (Gal 2,8).
Pietro e Paolo, entrambi discepoli e apostoli di Cristo, eppure così diversi: Pietro un povero pescatore,
Paolo un rigoroso intellettuale; Pietro un giudeo palestinese di un oscuro villaggio, Paolo un ebreo della
diaspora e cittadino romano; Pietro lento a capire e a operare di conseguenza, Paolo consumato
dall’urgenza escatologica… Dice un prefazio gallico del VII secolo: “Pietro ha rinnegato per credere
meglio, Paolo è stato accecato per vedere meglio… l’uno apre, l’altro fa entrare: entrambi ricevono il
Regno eterno”. Sono stati apostoli con due stili differenti, hanno servito il Signore con modalità
diversissime, hanno vissuto la chiesa in un modo a volte dialettico se non contrapposto, ma entrambi
hanno cercato di seguire il Signore e la sua volontà e insieme, proprio grazie alle loro diversità, hanno
saputo dare un volto alla missione cristiana e un fondamento alla chiesa di Roma che presiede nella carità.
Insieme allora è giusto celebrare la loro memoria, che è memoria di unità nella diversità, di vita
consegnata per amore del Signore, di carità vissuta nell’attesa del ritorno di Cristo. L’iconografia li
rappresenta stretti in un abbraccio oppure mentre sostengono l’unica chiesa che insieme hanno
contribuito a edificare: una sinfonia che è memoria e profezia dell’unica comunione ecclesiale in cui Pietro
deve abbracciare Paolo e Paolo deve abbracciare Pietro.
Enzo Bianchi

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