dom Luigi Gioia" sono mite e umile di cuore"

XIV Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) (06/07/2014)
Vangelo: Mt 11,25-30
Nella seconda lettura della liturgia di questa XIV domenica del tempo ordinario troviamo questa frase di Paolo nella lettera ai Romani: Fratelli, voi non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi.
"Carne" nel linguaggio paolino indica non solo né prima di tutto la sessualità,
ma tutto quello che è disordinato nei nostri sentimenti, tutta la negatività che abbiamo in noi: l'invidia, la gelosia, la tristezza, la depressione, i risentimenti, cioè tutto quello che c'è in noi quando siamo lasciati a noi stessi e sperimentiamo quanto siamo in balia di forze interiori che non controlliamo e vittime di circostanze esteriori che ci soffocano e a volte ci stritolano.
Secondo Paolo i cristiani non sono sotto il dominio di questa negatività interiore ed esteriore, ma sono sotto l'influenza dello Spirito - e i frutti dello Spirito, i segni della presenza dello Spirito, sono l'amore, la gioia, la pace, la pazienza, la benevolenza, la bontà, la fedeltà, la mitezza, il dominio di sé - come si legge nella lettera ai Galati.
Perché allora, invece di questi sentimenti di amore, gioia, pace, dominio di sé, continuano a perdurare in noi sentimenti negativi, continua a prevalere il dominio della carne? Perché continuiamo a fare la dolorosa esperienza della nostra vulnerabilità nei confronti della negatività che è in noi e di quella che ci condiziona dall'esterno? Vuol forse dire che non siamo dei buoni cristiani? Vuol forse dire che non corrispondiamo veramente alla grazia, alla vita dello Spirito in noi? Se questa fosse la verità, ci sarebbe di che scoraggiarsi.
Il peggior modo di interpretare questa frase di Paolo sarebbe quello che possiamo chiamare "angelismo", cioè credere di poter diventare ‘spirituali' al punto da riuscire a soggiogare completamente questa negatività che c'è in noi. C'è un proverbio in francese che dice: Qui fait l'ange, fait la bête ("Chi fa l'angelo diventa una belva"). Sembra che a livello psicologico gravissime patologie come ad esempio l'anoressia siano delle forme di angelismo, vale a dire l'espressione di una volontà di controllare completamente il proprio corpo, di soggiogare completamente una parte di se stessi.
Il senso della frase di Paolo è un altro. Il dramma della condizione umana non è tanto né prima di tutto quello di fare cose sbagliate, di peccare, ma la divisione interiore, la presenza in noi di una parte di tenebra che ci sfuggirà sempre, fino alla fine, e contro la quale non possiamo nulla.
Nella stessa lettera ai Romani Paolo parla della drammatica esperienza di questa divisione interiore quando afferma Non riesco a capire ciò che faccio, infatti io faccio non quello che voglio, ma quello che detesto. In me, cioè nella mia carne, non abita il bene. Poi aggiunge: In me c'è il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo, infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio. Nel mio intimo acconsento alla legge di Dio, ma nelle mie membra (nella mia carne) vedo un'altra legge che combatte contro la legge della mia ragione e mi rende schiavo. E conclude questa costatazione con la frase: Me infelice, chi mi libererà da questo corpo di morte?
Dobbiamo lasciarci ricordare queste cose da Paolo non per autogiustificarci, non per compiacerci nel peccato, ma semplicemente perché si tratta di una verità di cui non cessiamo di fare l'esperienza. Chi di noi non ha desiderato e non desidera diventare migliore? Chi di noi non ha cercato di lottare contro aspetti della propria negatività interiore per superarla sperimentando la propria impotenza? Si tratta di una verità di cui non cessiamo di fare l'esperienza. Questo non vuol dire che la santità sia impossibile, ma che è necessario farsi la giusta idea della santità.
Infatti santità non vuol dire perfezione, cioè totale eliminazione della parte di ombra che c'è in noi. Questa non solo non sarebbe santità, ma potrebbe diventare una forma di orgoglio che pretende di renderci migliori, ma che in realtà ci rende semplicemente più ipocriti, oppure vuole condurci ad essere autosufficienti ed in un certo senso superiori agli altri, a non avere più bisogno di nessuno, nemmeno del Signore.
Questa è una caricatura della santità che ci rende come i sapienti e i dotti di cui parla Gesù nel vangelo di oggi quando dice: Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti. I "sapienti" e i "dotti" sono coloro i quali, per la loro scienza o la loro presunta perfezione morale, raggiungono uno stato che li fa sentire al di sopra degli altri, li fa sentire autosufficienti. Ma riguardo a costoro Gesù dice che le cose del regno dei cieli sono loro nascoste. La loro perfezione li fa infatti diventare come impermeabili.
Invece, paradossalmente, a chi è promessa questa conoscenza? Chi è che Gesù chiama a sé? Chi è che Gesù vuole consolare? A chi vuole dare ristoro? Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. E' ai piccoli, è a coloro che sono affaticati e oppressi che Gesù promette questa conoscenza. Sono questi che Gesù chiama a sé, cioè coloro i quali con Paolo, nella quotidiana esperienza della loro povertà, della loro miseria, della loro incapacità, della loro tristezza, gridano: me infelice, chi mi libererà da questo corpo di morte.
Qui risiede il segreto della vita cristiana che ci rivela il vangelo di oggi. Questa divisione interiore, questa parte di tenebra che è in noi, questa quotidiana esperienza della nostra debolezza non solo non ci allontana dal Signore, non solo non è un ostacolo per la vita dello Spirito in noi, ma anzi, in un certo senso, è la condizione per una vita spirituale autentica, per accedere ad una santità autentica.
Nessuno meglio di Paolo ha espresso questa verità che nella seconda lettera ai Corinzi afferma: Affinché io non monti in superbia, è stata data alla mia carne una spina. A causa di questo tre volte ho pregato il Signore che la allontanasse da me, ma egli mi ha risposto: «Ti basta la mia grazia. La mia forza, infatti, si manifesta pienamente nella debolezza».
Paolo capisce questa lezione e a partire da questo momento non vuole cerca più la perfezione, non aspira più a vedere scomparire tutte le spine che ha nella sua carne, ma comincia a dire, a predicare, a ripetere costantemente: Mi vanterò delle mie debolezze.
Paolo arriva a vantarsi della sua debolezza, della sua povertà, dell'esperienza quotidiana della negatività che è in lui, perché dimori in me la potenza di Cristo.
Arriva anzi a dire: io mi compiaccio nelle mie debolezze, infatti è quando sono debole che sono forte. Solo se siamo deboli, o piuttosto, solo se siamo coscienti della nostra debolezza, della nostra povertà, della nostra miseria, possiamo lasciarci raggiungere dall'appello, dalla chiamata di Gesù nel vangelo di oggi: Venite a me voi tutti che siete stanchi e oppressi e io vi darò ristoro.
Chi non è stanco, non è oppresso, non percepisce questa chiamata di Gesù, non ha bisogno di Gesù, va per la propria strada. E questo non perché sia realmente buono, realmente perfetto, ma perché in fondo è ipocrita, non conosce se stesso, non ha consapevolezza della negatività, della povertà, della debolezza, della tristezza che ha dentro di se.
Gesù non ci promette la perfezione in questa vita, non ci promette che non ci saranno più sofferenze interiori ed esteriori, non ci libera neanche dalla dolorosa esperienza di non riuscire a corrispondere al suo amore per noi, ma ci chiama a sé: Venite a me!
Rispetto alla nostra fatica e oppressione quello che ci offre è la condivisione, è il prendere il nostro peso su di sé, non per dispensarci dal portarlo noi, ma per portarlo con noi.
Il vero peccato, infatti, non è in questa miseria che ci portiamo dentro, anche quando ci conduce a fare dei gesti di cui poi ci pentiamo. Il vero peccato è nell'orgoglio, nel credere di non aver bisogno del Signore. Per questo, ben venga l'esperienza della nostra debolezza e della nostra miseria, se con essa viene anche la capacità di sentire il Signore che ci chiama e se con essa viene il ristoro che Gesù vuole darci con la sua misericordia, con il suo amore e con il suo perdono.

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