don Alberto Brignoli "Ma Dio, non aveva fatto tutto bene?"
Vangelo: Mt 13,24-43
"Si Deus est, cur, et unde malum?". "Se Dio esiste, perché, e da dove viene il male?".
Non so se Sant'Agostino, nel momento in cui si pose questa domanda, avesse davanti agli occhi il brano
di Vangelo che ascoltiamo quest'oggi: "Signore, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene la zizzania?". Di certo, si è posto una domanda che da sempre l'uomo fa frullare nella propria mente, e che, dopo aver ascoltato domenica scorsa un brano di grande speranza che parlava di un seme che dà frutto nonostante tutto, oggi suona ancor più stridente e drammatica, nella nostra esistenza: se Dio è la bontà per essenza, se Dio può tutto, perché non può sconfiggere il male?
Perché ci sono tante cose che non vanno come dovrebbero? Perché la creazione sin dall'inizio ha voltato le spalle a Dio? Perché l'uomo ha fatto subito di testa sua? Perché adesso, nonostante il male che c'è nel mondo, Dio non interviene nuovamente a mettere a posto le cose?
Perché il bene non fa notizia mentre il male finisce sulle prime pagine dei giornali? Perché non possiamo fare niente per sconfiggerlo? Perché Dio non fa niente per sconfiggerlo? Perché dobbiamo concludere che Dio permette l'ingiustizia, e quindi è ingiusto?
Ha un bel dire il saggio autore del libro della Sapienza, che ci descrive Dio come "padrone della forza che giudica con mitezza", che si deve "difendere dall'accusa di giudice ingiusto", e la cui forza è "il principio della giustizia"... Mi piacerebbe metterlo a confronto con il Geremia del capitolo 12, che si mette senza timore contro Dio e vedendo il male intorno a se, gli rinfaccia: "Tu sei troppo giusto, Signore, perché io possa discutere con te; ma vorrei solo rivolgerti una parola sulla giustizia. Perché le cose degli empi prosperano? Perché tutti i traditori sono tranquilli? Tu li hai piantati ed essi hanno messo radici, crescono e producono frutto!".
Geremia non ha peli sulla lingua: altro che nemico, è Dio stesso che ha "piantato" nel suo campo empi e traditori; per cui, ora, deve "strapparli via come pecore per il macello, riservarli per il giorno dell'uccisione". Geremia è come i servi della parabola: la soluzione al male è immediata, va estirpato al volo. Se le cose non si mettono a posto finché si è ancora in tempo, non c'è più rimedio.
Del resto, la nostra lotta quotidiana è una lotta contro il male, e deve essere efficace. Chi, tra noi cristiani, non la pensa così? E spesso, a questo pensiero corrispondono tutta una serie di atteggiamenti "apologetici" che condizionano la nostra pastorale. Spesso la Chiesa si trova ad assumere atteggiamenti come quelli di Geremia e dei servi della parabola: con il "nemico" non ci può essere dialogo, il male va estirpato alla radice, subito. E allora si gioca a stare in difesa, si sta sulle difensive, ci si preoccupa di salvare il salvabile più che di andare alla ricerca di ciò che è perduto, di difendersi più che di proporre, di stare rinchiusi piuttosto che di aprirsi, di irrigidirsi più che di dialogare; in definitiva, di conservare più che di annunciare.
Ma perché mai Dio dovrebbe arrivare al punto di doversi "difendere dall'accusa di giudice ingiusto"? Ingiusto perché? Perché non castiga i cattivi? O perché lascia che il male accada? Questo riguarda sempre gli altri, i cattivi, i nemici: e con noi? Quando ci perdona invece di condannarci per una colpa commessa, non è forse ingiusto? Quando lascia che bene e male convivano in noi senza per questo distruggerci, si sta comportando ingiustamente?
"Padrone della forza che giudica con mitezza", Dio non dimostra il suo potere in modo arbitrario, trattando gli altri, gli uomini, certamente più deboli di lui, come degli esseri su cui infierire. Questa è la forza bruta che risponde ai criteri del mondo, è la logica dei potenti del mondo: forse, è con questi che Dio dovrebbe essere duro, e "mostrare la sua forza con chi non crede nella pienezza del suo potere".
Ma la pienezza del potere che Dio vuole mostrare ai deboli e ai semplici peccatori di questo mondo è un'altra: è quella di chi "giudica con mitezza e governa con molta indulgenza".
Perché il criterio di giustizia di Dio è altro, rispetto al nostro. Essere giusto per Dio significa "amare gli uomini", "dare loro la buona speranza", "concedere il pentimento dopo i peccati". Altro che strappare subito dal cuore dell'uomo la zizzania! Per cosa? Con che motivo? Per estirpare un male che - talmente radicato nel cuore di ognuno di noi - rischierebbe di lacerare un cuore che è capace anche di opere di bene? Bene e male sono talmente e così naturalmente coabitanti in noi da non poter, a volte, neppure essere distinti in maniera evidente. Quante volte - lo dice Paolo - il nostro "libero arbitrio", la nostra libera interpretazione delle cose, ci porta a fare del male proprio mentre pensiamo di fare del bene? E con ciò? Dovremmo "strappare" il male dal nostro cuore in maniera inequivocabile? Se il male esiste nonostante Dio abbia fatto tutto bene, forse è perché ci sono momenti della nostra vita in cui sentiamo il "vuoto" di Dio; e la sua assenza, l'assenza del bene, porta al male.
Ma non c'è oggetto illuminato di sole che non abbia un'ombra; non c'è luce splendente che non abbagli chi sta intorno; è paradossale, ma non c'è bontà di Dio senza un male che ne esalti la grandezza... così come non c'è redenzione in Cristo senza una necessaria, e addirittura "felice" colpa (come la chiama il Preconio Pasquale) da sempre nascosta nel cuore dell'uomo, frutto del suo libero arbitrio, del suo titanico ed eterno tentativo di essere come Dio.
Ma il Regno di Dio annunciato da Cristo è molto di più della colpa dell'uomo. Agli occhi del mondo sarà debole, fragile, piccolo, insignificante come un granello di senape in mezzo ad altri semi o un pizzico di lievito mischiato in tre misure di farina. Ma una volta lievitata la pasta, diventa pane spezzato per tutti i popoli. Una volta cresciuto, diviene un albero alla cui ombra si trovano riparo e conforto.
Né massa né alberi crescono all'istante. Occorre pazienza. Occorre attendere i tempi di Dio, accettando anche il male che è intorno e dentro di noi, quasi sempre per nostra stessa causa.
Ciò che conta è che anche il bene cresca. Senza paura, senza giudizi, senza condanne.
Perché "Dio è padrone di tutti, e questo lo rende indulgente con tutti". Vogliamo essere da meno?
"Si Deus est, cur, et unde malum?". "Se Dio esiste, perché, e da dove viene il male?".
Non so se Sant'Agostino, nel momento in cui si pose questa domanda, avesse davanti agli occhi il brano
di Vangelo che ascoltiamo quest'oggi: "Signore, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene la zizzania?". Di certo, si è posto una domanda che da sempre l'uomo fa frullare nella propria mente, e che, dopo aver ascoltato domenica scorsa un brano di grande speranza che parlava di un seme che dà frutto nonostante tutto, oggi suona ancor più stridente e drammatica, nella nostra esistenza: se Dio è la bontà per essenza, se Dio può tutto, perché non può sconfiggere il male?
Perché ci sono tante cose che non vanno come dovrebbero? Perché la creazione sin dall'inizio ha voltato le spalle a Dio? Perché l'uomo ha fatto subito di testa sua? Perché adesso, nonostante il male che c'è nel mondo, Dio non interviene nuovamente a mettere a posto le cose?
Perché il bene non fa notizia mentre il male finisce sulle prime pagine dei giornali? Perché non possiamo fare niente per sconfiggerlo? Perché Dio non fa niente per sconfiggerlo? Perché dobbiamo concludere che Dio permette l'ingiustizia, e quindi è ingiusto?
Ha un bel dire il saggio autore del libro della Sapienza, che ci descrive Dio come "padrone della forza che giudica con mitezza", che si deve "difendere dall'accusa di giudice ingiusto", e la cui forza è "il principio della giustizia"... Mi piacerebbe metterlo a confronto con il Geremia del capitolo 12, che si mette senza timore contro Dio e vedendo il male intorno a se, gli rinfaccia: "Tu sei troppo giusto, Signore, perché io possa discutere con te; ma vorrei solo rivolgerti una parola sulla giustizia. Perché le cose degli empi prosperano? Perché tutti i traditori sono tranquilli? Tu li hai piantati ed essi hanno messo radici, crescono e producono frutto!".
Geremia non ha peli sulla lingua: altro che nemico, è Dio stesso che ha "piantato" nel suo campo empi e traditori; per cui, ora, deve "strapparli via come pecore per il macello, riservarli per il giorno dell'uccisione". Geremia è come i servi della parabola: la soluzione al male è immediata, va estirpato al volo. Se le cose non si mettono a posto finché si è ancora in tempo, non c'è più rimedio.
Del resto, la nostra lotta quotidiana è una lotta contro il male, e deve essere efficace. Chi, tra noi cristiani, non la pensa così? E spesso, a questo pensiero corrispondono tutta una serie di atteggiamenti "apologetici" che condizionano la nostra pastorale. Spesso la Chiesa si trova ad assumere atteggiamenti come quelli di Geremia e dei servi della parabola: con il "nemico" non ci può essere dialogo, il male va estirpato alla radice, subito. E allora si gioca a stare in difesa, si sta sulle difensive, ci si preoccupa di salvare il salvabile più che di andare alla ricerca di ciò che è perduto, di difendersi più che di proporre, di stare rinchiusi piuttosto che di aprirsi, di irrigidirsi più che di dialogare; in definitiva, di conservare più che di annunciare.
Ma perché mai Dio dovrebbe arrivare al punto di doversi "difendere dall'accusa di giudice ingiusto"? Ingiusto perché? Perché non castiga i cattivi? O perché lascia che il male accada? Questo riguarda sempre gli altri, i cattivi, i nemici: e con noi? Quando ci perdona invece di condannarci per una colpa commessa, non è forse ingiusto? Quando lascia che bene e male convivano in noi senza per questo distruggerci, si sta comportando ingiustamente?
"Padrone della forza che giudica con mitezza", Dio non dimostra il suo potere in modo arbitrario, trattando gli altri, gli uomini, certamente più deboli di lui, come degli esseri su cui infierire. Questa è la forza bruta che risponde ai criteri del mondo, è la logica dei potenti del mondo: forse, è con questi che Dio dovrebbe essere duro, e "mostrare la sua forza con chi non crede nella pienezza del suo potere".
Ma la pienezza del potere che Dio vuole mostrare ai deboli e ai semplici peccatori di questo mondo è un'altra: è quella di chi "giudica con mitezza e governa con molta indulgenza".
Perché il criterio di giustizia di Dio è altro, rispetto al nostro. Essere giusto per Dio significa "amare gli uomini", "dare loro la buona speranza", "concedere il pentimento dopo i peccati". Altro che strappare subito dal cuore dell'uomo la zizzania! Per cosa? Con che motivo? Per estirpare un male che - talmente radicato nel cuore di ognuno di noi - rischierebbe di lacerare un cuore che è capace anche di opere di bene? Bene e male sono talmente e così naturalmente coabitanti in noi da non poter, a volte, neppure essere distinti in maniera evidente. Quante volte - lo dice Paolo - il nostro "libero arbitrio", la nostra libera interpretazione delle cose, ci porta a fare del male proprio mentre pensiamo di fare del bene? E con ciò? Dovremmo "strappare" il male dal nostro cuore in maniera inequivocabile? Se il male esiste nonostante Dio abbia fatto tutto bene, forse è perché ci sono momenti della nostra vita in cui sentiamo il "vuoto" di Dio; e la sua assenza, l'assenza del bene, porta al male.
Ma non c'è oggetto illuminato di sole che non abbia un'ombra; non c'è luce splendente che non abbagli chi sta intorno; è paradossale, ma non c'è bontà di Dio senza un male che ne esalti la grandezza... così come non c'è redenzione in Cristo senza una necessaria, e addirittura "felice" colpa (come la chiama il Preconio Pasquale) da sempre nascosta nel cuore dell'uomo, frutto del suo libero arbitrio, del suo titanico ed eterno tentativo di essere come Dio.
Ma il Regno di Dio annunciato da Cristo è molto di più della colpa dell'uomo. Agli occhi del mondo sarà debole, fragile, piccolo, insignificante come un granello di senape in mezzo ad altri semi o un pizzico di lievito mischiato in tre misure di farina. Ma una volta lievitata la pasta, diventa pane spezzato per tutti i popoli. Una volta cresciuto, diviene un albero alla cui ombra si trovano riparo e conforto.
Né massa né alberi crescono all'istante. Occorre pazienza. Occorre attendere i tempi di Dio, accettando anche il male che è intorno e dentro di noi, quasi sempre per nostra stessa causa.
Ciò che conta è che anche il bene cresca. Senza paura, senza giudizi, senza condanne.
Perché "Dio è padrone di tutti, e questo lo rende indulgente con tutti". Vogliamo essere da meno?
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