riflessione sul Vangelo di ENZO BIANCHI domenica del seminatore
13 luglio 2014
Nel capitolo 13 del vangelo secondo Matteo leggiamo il terzo grande discorso tenuto da Gesù durante il suo ministero. Dopo il discorso della montagna (cf. Mt 5-7) e quello rivolto ai discepoli nell’inviarli in missione (cf. Mt 10), siamo di fronte a un discorso costituito da parabole: “Egli parlò alla folla di molte cose con parabole”. Alla folla Gesù le racconta, ai discepoli poi, in casa, le spiega. Cosa ha vissuto Gesù per narrare la parabola del seminatore, quella che ci è proposta dal brano evangelico odierno? Ha vissuto una serie di fallimenti, ha misurato la grande fatica
necessaria per seminare la Parola e il piccolo risultato ottenuto, ha constatato che i tentativi rinnovati e a caro prezzo possono essere letti come una serie di scacchi, di insuccessi: tanto seme – che sembra sprecato! –, tanta fatica per gettarlo, tanta attesa, ma poi il risultato è scarsissimo.
E nonostante questo, il seme caduto nella terra buona dà un raccolto… Ecco cosa occorre vedere, constatare, per riaccendere la fede nel seme e la speranza della mietitura. Ci sono mille ragioni che imporrebbero di lasciar perdere, di concludere che non ne valeva la pena; ma, nonostante tutto, è possibile vedere il grano che cresce in un angolo di terreno e che dà un raccolto piccolo ma significativo. Pronunciata la parabola, Gesù avverte: “Chi ha orecchi, ascolti”, cioè: “State attenti, perché c’è da capire più di quanto si pensi”. E subito i discepoli interrogano Gesù, chiedendogli conto del suo parlare in parabole: “Perché parli alla folla in parabole?”.
La risposta è semplice. Di fronte alle parole di Gesù, sempre si delineano due campi: quello in cui i discepoli vogliono comprendere e seguono Gesù, fino a fare parte della sua comunità, assumendo un modo di vedere che è proprio di quelli che si collocano “dentro”; vi è poi l’altro campo in cui stanno “quelli di fuori” (Mc 4,11), quelli che, non sentendosi implicati dalle parole di Gesù, in esse sentono solo enigmi, non sono in grado di capirle, e così stanno fuori dalla comunione con lui. Gesù soffre di fronte a questo risultato, ma rispetta la libertà dei suoi ascoltatori, non li forza in nulla: propone, non impone! È così facile cadere in questo intontimento di fronte a Gesù: basta lasciar cadere qualche sua parola, non prestarvi attenzione, non guardare, non ascoltare, non comprendere.
Così a poco a poco l’orecchio del cuore che è in noi si fa calloso, insensibile, con il risultato che la parola di Gesù non ci penetra più, non ci ferisce più. È l’enigma dell’accecamento già intravisto dal profeta Isaia (cf. Is 6,9-10), della durezza di cuore così frequente tra noi credenti, che più ascoltiamo senza volere comprendere, più induriamo il cuore! Eppure molti profeti e molti giusti sono stati arsi dal desiderio di vedere ciò che gli ascoltatori di Gesù vedevano e hanno atteso con tutte le loro forze di poter ascoltare il messaggio che i contemporanei di Gesù ascoltavano…
I discepoli però conoscono questa grande grazia: vedono un uomo, Gesù, e nella sua reale e vera umanità vedono il Profeta, il Messia, il Figlio di Dio. Vedere nella fede che nell’umanità di un uomo ci sono le tracce di Dio: questo è il dono più grande riservato a ciascuno di noi, a ogni discepolo di Gesù Cristo. La parte finale del testo, quella che contiene la spiegazione delle parabole, suscita in noi domande semplici ma decisive, corrispondenti ai quattro tipi di terreno evocati. Perché la parola del Regno può essere ascoltata senza che ci sentiamo da essa interessati e coinvolti?
Siamo noi “uomini di un istante”, “senza radici”, e perciò in balia di ogni vento, di ogni minaccia? Che cosa ci interessa davvero nel nostro quotidiano; e, soprattutto, la ricchezza ci seduce fino a trascinarci dietro a essa, idolo muto ma così allettante? Infine, c’è anche la possibilità di essere terra buona, capace di recepire un seme e di fornirgli tutte le condizioni perché germogli e fruttifichi: siamo terra su cui lo Spirito santo può covare (cf. Gen 1,2) e dunque generare la vita in abbondanza?
Nel capitolo 13 del vangelo secondo Matteo leggiamo il terzo grande discorso tenuto da Gesù durante il suo ministero. Dopo il discorso della montagna (cf. Mt 5-7) e quello rivolto ai discepoli nell’inviarli in missione (cf. Mt 10), siamo di fronte a un discorso costituito da parabole: “Egli parlò alla folla di molte cose con parabole”. Alla folla Gesù le racconta, ai discepoli poi, in casa, le spiega. Cosa ha vissuto Gesù per narrare la parabola del seminatore, quella che ci è proposta dal brano evangelico odierno? Ha vissuto una serie di fallimenti, ha misurato la grande fatica
necessaria per seminare la Parola e il piccolo risultato ottenuto, ha constatato che i tentativi rinnovati e a caro prezzo possono essere letti come una serie di scacchi, di insuccessi: tanto seme – che sembra sprecato! –, tanta fatica per gettarlo, tanta attesa, ma poi il risultato è scarsissimo.
E nonostante questo, il seme caduto nella terra buona dà un raccolto… Ecco cosa occorre vedere, constatare, per riaccendere la fede nel seme e la speranza della mietitura. Ci sono mille ragioni che imporrebbero di lasciar perdere, di concludere che non ne valeva la pena; ma, nonostante tutto, è possibile vedere il grano che cresce in un angolo di terreno e che dà un raccolto piccolo ma significativo. Pronunciata la parabola, Gesù avverte: “Chi ha orecchi, ascolti”, cioè: “State attenti, perché c’è da capire più di quanto si pensi”. E subito i discepoli interrogano Gesù, chiedendogli conto del suo parlare in parabole: “Perché parli alla folla in parabole?”.
La risposta è semplice. Di fronte alle parole di Gesù, sempre si delineano due campi: quello in cui i discepoli vogliono comprendere e seguono Gesù, fino a fare parte della sua comunità, assumendo un modo di vedere che è proprio di quelli che si collocano “dentro”; vi è poi l’altro campo in cui stanno “quelli di fuori” (Mc 4,11), quelli che, non sentendosi implicati dalle parole di Gesù, in esse sentono solo enigmi, non sono in grado di capirle, e così stanno fuori dalla comunione con lui. Gesù soffre di fronte a questo risultato, ma rispetta la libertà dei suoi ascoltatori, non li forza in nulla: propone, non impone! È così facile cadere in questo intontimento di fronte a Gesù: basta lasciar cadere qualche sua parola, non prestarvi attenzione, non guardare, non ascoltare, non comprendere.
Così a poco a poco l’orecchio del cuore che è in noi si fa calloso, insensibile, con il risultato che la parola di Gesù non ci penetra più, non ci ferisce più. È l’enigma dell’accecamento già intravisto dal profeta Isaia (cf. Is 6,9-10), della durezza di cuore così frequente tra noi credenti, che più ascoltiamo senza volere comprendere, più induriamo il cuore! Eppure molti profeti e molti giusti sono stati arsi dal desiderio di vedere ciò che gli ascoltatori di Gesù vedevano e hanno atteso con tutte le loro forze di poter ascoltare il messaggio che i contemporanei di Gesù ascoltavano…
I discepoli però conoscono questa grande grazia: vedono un uomo, Gesù, e nella sua reale e vera umanità vedono il Profeta, il Messia, il Figlio di Dio. Vedere nella fede che nell’umanità di un uomo ci sono le tracce di Dio: questo è il dono più grande riservato a ciascuno di noi, a ogni discepolo di Gesù Cristo. La parte finale del testo, quella che contiene la spiegazione delle parabole, suscita in noi domande semplici ma decisive, corrispondenti ai quattro tipi di terreno evocati. Perché la parola del Regno può essere ascoltata senza che ci sentiamo da essa interessati e coinvolti?
Siamo noi “uomini di un istante”, “senza radici”, e perciò in balia di ogni vento, di ogni minaccia? Che cosa ci interessa davvero nel nostro quotidiano; e, soprattutto, la ricchezza ci seduce fino a trascinarci dietro a essa, idolo muto ma così allettante? Infine, c’è anche la possibilità di essere terra buona, capace di recepire un seme e di fornirgli tutte le condizioni perché germogli e fruttifichi: siamo terra su cui lo Spirito santo può covare (cf. Gen 1,2) e dunque generare la vita in abbondanza?
Commenti
Posta un commento