Commento a cura di don Paolo Ricciardi" "Io sono buono"Commento su Matteo 20,1-16

XXV Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) (21/09/2014)
Vangelo: Mt 20,1-16 
Eccoci qui, nella prima domenica di autunno, a confrontarci con una delle parabole più incredibili raccontate da Gesù.
Eccoci, mentre tutto riprende con ritmo incalzante: il lavoro, la scuola, la vita parrocchiale ordinaria, le fatiche e le preoccupazioni quotidiane. L'estate con le sue vacanze (per chi è riuscito a farle), sembra un
ricordo lontano.
E, in questa ripresa, ci si mette anche il Vangelo di oggi che fa "saltare" ogni logica di giustizia umana, soprattutto in questi tempi in cui per molti il "cercare lavoro" sembra un'utopia, grande quanto il rischio di perdere il posto per chi già ce l'ha.
Perché la parabola di oggi ci parla di lavoro, di stipendio, di assunzione ad ore, di ricompensa, ma con metodi e intese che non corrispondono alla giustizia. Ma, allo stesso tempo c'è una parola che brilla luminosa oltre il diritto e le rivendicazione: la parola "bontà".
"Io sono buono".
In mezzo alle chiacchiere e alle critiche nei confronti del padrone - umanamente giustificabili - c'è quella parola: "Io sono buono" che scompiglia ogni logica umana.
Perché la parabola, come ogni parabola di Gesù, rimanda sempre a qualcos'altro, occorre interpretarla, andare al di là di un semplice racconto. Alcune parole di Gesù rimangono illogiche a livello umano, incomprensibili a "quelli di fuori" come lui stesso affermava dopo aver raccontato la prima parabola, quella del seminatore.
Dunque, ancora una volta il Dio di Gesù ci sconcerta: "le sue vie - come ci ha ricordato il profeta Isaia nella prima Lettura - non sono le nostre vie, le sovrastano" quanto la croce e il dono sovrasta la nostra logica.
È chiaro che istintivamente ognuno di noi si senta solidale con gli operai della prima ora: non è giusto dare la medesima paga a chi lavora molto e a chi poco. Non è giusto, se al centro di tutto metto il denaro e le leggi dell'economia.
Ma se mi lascio provocare da questa parabola, se, come Dio, al centro metto non il denaro, ma l'uomo; non la produttività, ma la persona; allora non posso mormorare contro chi intende assicurare la vita di tutti. La parabola c'invita a conquistare lo sguardo di Dio.
Se infatti entriamo nella logica di Dio ecco che si apre una prospettiva nuova: c'è un patto tra le parti, è vero, ma è speciale, unico. Perché Dio chiama a lavorare nella sua Vigna, non come un datore di lavoro distaccato dai suoi operai, ma come uno che dà agli uomini i frutti stessi di quella vigna e che rende gli uomini partecipi della sua opera di redenzione. Già il lavorare nella vigna del Signore è la ricompensa!
Dio dà all'uomo tutto se stesso in un dono gratuito, continuo, fedele, senza limiti; dà tutto il suo amore. E chiede in cambio "solo" l'accettazione del dono. La risposta decisa alla Sua chiamata, il "rimboccarsi le maniche" per mettersi all'opera anche per un'ora soltanto della vita, può rendere tutta una vita finalmente redenta! Pensiamo a quell'intensissimo momento di amore e di fede che ha fatto, dell' "ultimo" ladrone crocifisso, un "primo" nel Regno.
Nessun uomo, in un certo senso, è confrontabile con un altro. Ciascuno ha la sua chiamata, la sua ora, la sua storia.
Ognuno è il "preferito" al quale Dio destina il suo denaro di salvezza, cioè l'intera paga, tutto se stesso.
In questa avventura di amore infinito che è la storia della nostra salvezza, la stonatura più grande, il contrasto più evidente, lo sfregio allo splendore della sua Bontà, è l'invidia che possiamo nutrire per questo dono che va oltre ogni merito, rivelando la misura di Dio.
Cedere all'invidia ha in se stessa la sua punizione, tant'è vero che il libro dei Proverbi definisce l'invidia "una carie delle ossa" (Prv 14, 30).
All'invidia si accompagna poi la lamentela, il rincrescimento, quasi, di aver "sopportato il peso della giornata e il caldo", di aver faticato nella vigna di Dio, di aver "dovuto" amare fin dalla prima ora.
Se l'operaio dell'ultima ora lo guardo con bontà, se lo vedo cioè come un amico, non come un rivale, se lo guardo come mio fratello, non come un avversario, allora gioisco con lui della paga piena, faccio festa con mio fratello e ci sentiamo entrambi più ricchi.
È questione di bontà, così difficile da trovare ai giorni nostri, forse anche nella vita delle nostre comunità, dove a volte l'invidia e la chiacchiera - come dice spesso papa Francesco - sono mali che feriscono la comunione e scandalizzano il mondo.
Se mi credo lavoratore instancabile della prima ora, "cristiano esemplare", che dà a Dio impegno e fatica, che pretende la ricompensa, allora sono urtato dalla bontà di Dio.
Se invece con umiltà, con verità, mi metto tra gli ultimi operai, tra i "servi inutili", accanto ai peccatori, a Maria Maddalena e al buon ladrone, se conto non sui miei meriti ma sulla bontà di Dio, allora la parabola mi rivela il segreto della speranza: Dio è buono.
È quello che avrà sperimentato lo stesso evangelista, Matteo, l'unico che ci riporta questa parabola (e di cui oggi, 21 settembre, si celebra la festa) forse perché toccato personalmente dall'invito di Gesù a seguirlo nonostante il suo peccato. È ciò che ha sperimentato Paolo che ai cristiani di Filippi arriva a dire "per me vivere è Cristo e il morire un guadagno".
Allora, "ti dispiace che io sia buono?"
No, non mi dispiace, perché quell'operaio dell'ultima ora sono io, Signore, un po' ozioso, un po' bisognoso. No, non mi dispiace, perché spesso non ho la forza di portare "il peso della giornata e il caldo". Vieni a cercarmi anche se si è fatto tardi.
Non mi dispiace che tu sia buono.
Anzi, sono felice di avere un Dio così, che bussa così contro le pareti strette del mio cuore fariseo, contro la povertà della mia anima perché diventi, finalmente, ricca del suo stesso Amore. Aiutami a riscoprire che il vero guadagno è vivere di Te, morire per Te, e che è impagabile l'onore di lavorare nella tua vigna fin dal mattino.

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