Papa Francesco"Messa a Santa Marta -Il compito di ricucire i buchi"
Cristiani a rischio «squalifica», come ammonisce san Paolo, se pretendono di fare la correzione fraterna senza carità, verità e umiltà, dando spazio a ipocrisia e chiacchiere. In realtà questo servizio all’altro richiede anzitutto di riconoscersi peccatori e non ergersi a giudici, come ha ricordato il Papa durante la messa celebrata venerdì mattina, 12 settembre, nella cappella della Casa Santa Marta.
Francesco ha fatto subito notare come «in questi giorni la liturgia ci ha fatto meditare su tanti atteggiamenti cristiani: dare, essere generoso, servire gli altri, perdonare, essere misericordioso». Questi «sono atteggiamenti — ha spiegato — che aiutano a crescere la Chiesa». Ma in particolare «oggi il Signore ci fa tornare su uno di questi atteggiamenti, del quale ha già parlato, e cioè la correzione fraterna». La questione di fondo è: «Quando un fratello, una sorella della comunità sbaglia, come devo correggerlo?».
Sempre attraverso la liturgia, ha proseguito il Pontefice, «il Signore ci aveva detto alcuni consigli su come correggere» l’altro. Ma «oggi riprende tutto e dice: si deve correggerlo, ma come una persona che vede e non come un cieco». Lo ricorda proprio il Vangelo di Luca (6, 39-42): può forse un cieco guidare un altro cieco?
Insomma per correggere bisogna vedere bene. E seguire alcune regole di comportamento suggerite dal Signore stesso. «Prima di tutto — ha affermato il Pontefice — il consiglio che dà per correggere il fratello, lo abbiamo sentito l’altro giorno, è prendere da parte il tuo fratello che ha sbagliato e parlagli», dicendogli: «Ma, fratello, in questo credo che tu non hai fatto bene!».
E «prenderlo da parte» significa, appunto, «correggerlo con carità». Perché «non si può correggere una persona senza amore e senza carità». Sarebbe come «fare un intervento chirurgico senza anestesia», con la conseguenza che l’ammalato morirebbe di dolore. E «la carità è come una anestesia che aiuta a ricevere la cura e accettare la correzione». Ecco allora il primo passo verso il fratello: «prenderlo da parte, con mitezza, con amore, e parlagli».
Il Papa, rivolgendosi anche alle numerose religiose presenti alla celebrazione a Santa Marta, ha invitato dunque a parlare sempre «con carità», senza causare ferite, «quando nelle nostre comunità, nelle parrocchie, nelle istituzioni, nelle comunità religiose, si deve dire qualcosa a una sorella, a un fratello».
Insieme alla carità, bisogna «dire la verità» e mai «dire una cosa che non è vera». In realtà, ha fatto notare, «quante volte nelle nostre comunità si dicono cose di un’altra persona che non sono vere: sono calunnie». Oppure, «se sono vere», comunque «si toglie la fama di quella persona».
In questa prospettiva, un modo di rivolgersi al fratello, secondo il Papa, può essere il seguente: «Questo che io ti dico, a te, che tu hai fatto, è vero. Non è una chiacchiera che mi è arrivata». Perché «le chiacchiere feriscono, sono schiaffi alla fama di una persona, sono schiaffi al cuore di una persona». Allora ci vuole sempre «la verità», anche se a volte «non è bello sentirla». In ogni caso, se la verità «è detta con carità e con amore, è più facile accettarla». Ecco perché bisogna dire «la verità con carità: così si deve parlare dei difetti agli altri».
Della terza regola, l’umiltà, parla Gesù nel passo del Vangelo di Luca: correggere l’altro «senza ipocrisia, cioè con umiltà». È bene far presente a se stessi, ha consigliato il vescovo di Roma, che «se devi correggere un difetto piccolino lì, pensa che tu ne hai tanti più grossi». Il Signore lo dice con efficacia: togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza nell’occhio dell’altro. Solo così «non sarai cieco» e «vedrai bene» per aiutare davvero il fratello. Occorre perciò «l’umiltà» per riconoscere che «io sono più peccatore di lui, più peccatore di lei». Dopodiché «io devo aiutare lui e lei a correggere questo» difetto.
«Se io non faccio con carità la correzione fraterna, non la faccio in verità e non la faccio con umiltà, divento cieco» ha ammonito il Papa. E se non vedo, si è chiesto, come faccio a «guarire un altro cieco?».
In sostanza «la correzione fraterna è un atto per guarire il corpo della Chiesa». Francesco l’ha descritta con un’immagine efficace: è come ricucire «un buco nel tessuto della Chiesa». Però bisogna procedere «con tanta delicatezza, come le mamme e le nonne quando ricuciono», ed è proprio questo lo stile con cui «si deve fare la correzione fraterna».
D’altro canto, ha messo in guardia, «se tu non sei capace di fare la correzione fraterna con amore, con carità, nella verità e con umiltà, tu farai un’offesa, una distruzione al cuore di quella persona: tu farai una chiacchiera in più che ferisce e diventerai un cieco ipocrita, come dice Gesù». Si legge infatti nella pagina evangelica di Luca: «Ipocrita! Togli prima la trave dal tuo occhio». Anche se bisogna riconoscere di essere «più peccatore dell’altro», come fratelli siamo chiamati comunque ad «aiutare a correggerlo».
Il Pontefice non ha mancato di suggerire un consiglio pratico. C’è «un segno — ha detto — che forse ci può aiutare: quando uno vede qualcosa che non va e sente che deve correggerla» ma avverte «un certo piacere nel fare quello», allora è il momento di «stare attenti, perché quello non è del Signore». Infatti «nel Signore sempre c’è la croce, la difficoltà di fare una cosa buona». E dal Signore vengono sempre amore e mitezza.
Tutto questo ragionamento sulla correzione fraterna, ha proseguito il Papa, ci sollecita a «non fare da giudice». Anche se, ha avvertito, «noi cristiani abbiamo la tentazione di farci come dottori», quasi di «spostarci fuori del gioco del peccato e della grazia, come se noi fossimo angeli».
È una tentazione di cui parla anche san Paolo nella prima Lettera ai corinzi (9,16-19.22-27): «Non succeda che dopo avere predicato agli altri, io stesso venga squalificato». Dunque, ci ricorda l’apostolo, «un cristiano che, in comunità, non fa le cose — anche la correzione fraterna — in carità, in verità e con umiltà, si squalifica!». Perché «non è riuscito a diventare un cristiano maturo».
Francesco ha concluso pregando il Signore che «ci aiuti in questo servizio fraterno, tanto bello e tanto doloroso, di aiutare i fratelli e le sorelle a essere migliori», spingendoci «a farlo sempre con carità, in verità e con umiltà».
Francesco ha fatto subito notare come «in questi giorni la liturgia ci ha fatto meditare su tanti atteggiamenti cristiani: dare, essere generoso, servire gli altri, perdonare, essere misericordioso». Questi «sono atteggiamenti — ha spiegato — che aiutano a crescere la Chiesa». Ma in particolare «oggi il Signore ci fa tornare su uno di questi atteggiamenti, del quale ha già parlato, e cioè la correzione fraterna». La questione di fondo è: «Quando un fratello, una sorella della comunità sbaglia, come devo correggerlo?».
Sempre attraverso la liturgia, ha proseguito il Pontefice, «il Signore ci aveva detto alcuni consigli su come correggere» l’altro. Ma «oggi riprende tutto e dice: si deve correggerlo, ma come una persona che vede e non come un cieco». Lo ricorda proprio il Vangelo di Luca (6, 39-42): può forse un cieco guidare un altro cieco?
Insomma per correggere bisogna vedere bene. E seguire alcune regole di comportamento suggerite dal Signore stesso. «Prima di tutto — ha affermato il Pontefice — il consiglio che dà per correggere il fratello, lo abbiamo sentito l’altro giorno, è prendere da parte il tuo fratello che ha sbagliato e parlagli», dicendogli: «Ma, fratello, in questo credo che tu non hai fatto bene!».
E «prenderlo da parte» significa, appunto, «correggerlo con carità». Perché «non si può correggere una persona senza amore e senza carità». Sarebbe come «fare un intervento chirurgico senza anestesia», con la conseguenza che l’ammalato morirebbe di dolore. E «la carità è come una anestesia che aiuta a ricevere la cura e accettare la correzione». Ecco allora il primo passo verso il fratello: «prenderlo da parte, con mitezza, con amore, e parlagli».
Il Papa, rivolgendosi anche alle numerose religiose presenti alla celebrazione a Santa Marta, ha invitato dunque a parlare sempre «con carità», senza causare ferite, «quando nelle nostre comunità, nelle parrocchie, nelle istituzioni, nelle comunità religiose, si deve dire qualcosa a una sorella, a un fratello».
Insieme alla carità, bisogna «dire la verità» e mai «dire una cosa che non è vera». In realtà, ha fatto notare, «quante volte nelle nostre comunità si dicono cose di un’altra persona che non sono vere: sono calunnie». Oppure, «se sono vere», comunque «si toglie la fama di quella persona».
In questa prospettiva, un modo di rivolgersi al fratello, secondo il Papa, può essere il seguente: «Questo che io ti dico, a te, che tu hai fatto, è vero. Non è una chiacchiera che mi è arrivata». Perché «le chiacchiere feriscono, sono schiaffi alla fama di una persona, sono schiaffi al cuore di una persona». Allora ci vuole sempre «la verità», anche se a volte «non è bello sentirla». In ogni caso, se la verità «è detta con carità e con amore, è più facile accettarla». Ecco perché bisogna dire «la verità con carità: così si deve parlare dei difetti agli altri».
Della terza regola, l’umiltà, parla Gesù nel passo del Vangelo di Luca: correggere l’altro «senza ipocrisia, cioè con umiltà». È bene far presente a se stessi, ha consigliato il vescovo di Roma, che «se devi correggere un difetto piccolino lì, pensa che tu ne hai tanti più grossi». Il Signore lo dice con efficacia: togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza nell’occhio dell’altro. Solo così «non sarai cieco» e «vedrai bene» per aiutare davvero il fratello. Occorre perciò «l’umiltà» per riconoscere che «io sono più peccatore di lui, più peccatore di lei». Dopodiché «io devo aiutare lui e lei a correggere questo» difetto.
«Se io non faccio con carità la correzione fraterna, non la faccio in verità e non la faccio con umiltà, divento cieco» ha ammonito il Papa. E se non vedo, si è chiesto, come faccio a «guarire un altro cieco?».
In sostanza «la correzione fraterna è un atto per guarire il corpo della Chiesa». Francesco l’ha descritta con un’immagine efficace: è come ricucire «un buco nel tessuto della Chiesa». Però bisogna procedere «con tanta delicatezza, come le mamme e le nonne quando ricuciono», ed è proprio questo lo stile con cui «si deve fare la correzione fraterna».
D’altro canto, ha messo in guardia, «se tu non sei capace di fare la correzione fraterna con amore, con carità, nella verità e con umiltà, tu farai un’offesa, una distruzione al cuore di quella persona: tu farai una chiacchiera in più che ferisce e diventerai un cieco ipocrita, come dice Gesù». Si legge infatti nella pagina evangelica di Luca: «Ipocrita! Togli prima la trave dal tuo occhio». Anche se bisogna riconoscere di essere «più peccatore dell’altro», come fratelli siamo chiamati comunque ad «aiutare a correggerlo».
Il Pontefice non ha mancato di suggerire un consiglio pratico. C’è «un segno — ha detto — che forse ci può aiutare: quando uno vede qualcosa che non va e sente che deve correggerla» ma avverte «un certo piacere nel fare quello», allora è il momento di «stare attenti, perché quello non è del Signore». Infatti «nel Signore sempre c’è la croce, la difficoltà di fare una cosa buona». E dal Signore vengono sempre amore e mitezza.
Tutto questo ragionamento sulla correzione fraterna, ha proseguito il Papa, ci sollecita a «non fare da giudice». Anche se, ha avvertito, «noi cristiani abbiamo la tentazione di farci come dottori», quasi di «spostarci fuori del gioco del peccato e della grazia, come se noi fossimo angeli».
È una tentazione di cui parla anche san Paolo nella prima Lettera ai corinzi (9,16-19.22-27): «Non succeda che dopo avere predicato agli altri, io stesso venga squalificato». Dunque, ci ricorda l’apostolo, «un cristiano che, in comunità, non fa le cose — anche la correzione fraterna — in carità, in verità e con umiltà, si squalifica!». Perché «non è riuscito a diventare un cristiano maturo».
Francesco ha concluso pregando il Signore che «ci aiuti in questo servizio fraterno, tanto bello e tanto doloroso, di aiutare i fratelli e le sorelle a essere migliori», spingendoci «a farlo sempre con carità, in verità e con umiltà».
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