Gaetano Salvati Commento su Matteo 22,15-21

Commento su Matteo 22,15-21
XXIX Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) (19/10/2014)
La sfida che le letture di questa domenica pongono al nostro cammino di fede è molteplice. Innanzitutto esse mettono in crisi il nostro modo di ragionare schematico e tendente a giudicare per evidenze. La Parola di Dio non ci invita a concordare con una verità una situazione particolare della vita, perché in quel momento gratifica le nostre aspettative o, perché è reputata migliore di altre; il nostro essere,
trasformato dalla presenza dell'amore, ora non può adeguarsi e adagiarsi solo in ciò che conviene o che fanno tutti. La chiarezza della Parola, infatti, non ci dispensa dalla fatica quotidiana del dubbio e dell'incertezza, il quale non è tumulto dello spirito umano, ma capacità di discernimento del modo di essere segno della grazia nel mondo.
La prima incertezza ai nostri giudizi viene dal libro del profeta Isaia. Il re pagano Ciro, una persona non credente, è lo strumento di salvezza per il popolo eletto, l'orma della potenza e, soprattutto, della libertà del Dio di Giacobbe (Is 45,4). Dio, per mezzo di Ciro, manifesta a tutti che è l'unico Signore (v.5), può far tutto per mezzo di chiunque (v.6). Il Dio libero, allora, rompe qualsiasi termine di paragone assoluto (modello) che noi possiamo avere di Lui o della stessa fede: Egli, onnipotente, ci viene incontro e ci mostra che non è la nostra superbia, ciò che noi crediamo giusto, a renderci santi, cristiani, e a riunirci nella Chiesa quali membra dell'unico corpo di Cristo, ma il Suo immenso amore e la Sua infinità misericordia fatta carne.
La seconda lacerazione al nostro pensiero comune è contenuta nel vangelo. "Rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio" (Mt 22,21). La rivelazione dell'amore di Dio per mezzo dell'opera del Maestro si dà nella storia concreta. In essa il Dio personale si mette in gioco per condurre tutti nella pienezza di comunione con Lui. Essere in comunione con Lui significa essere Sua immagine e somiglianza, sforzarsi cioè di non cedere alla facile soluzione di fuggire dal mondo, dalla storia, né a quella rassegnata fusione con i suoi meccanismi. In altri termini, è necessario attivarsi nella "fatica della carità, nell'operosità della fede e nella fermezza della speranza" (1Ts 1,3) per essere Suoi discepoli. Ma cosa vuol dire questo versetto di Paolo? Chi imita la bontà del Signore deve sacrificare l'esistenza per amore degli altri (carità). Sacrificarsi non esprime carenza di vita, mancanza di gioia, bensì riconoscere che in ogni gesto per il fratello, se indirizzato da e verso di Lui, ci dona quella pienezza accennata prima. È la fede: fa camminare nonostante le difficoltà o le sofferenze, fa scorgere nei volti il volto dei volti (Dio), dona la consapevolezza che abbiamo necessità continuamente di conversione; infine, della Sua presenza fra di noi e in noi (speranza).
Quanto detto sembra orientare solo i cristiani "adulti"; l'annuncio dell'amore invece è per tutti. Per quelli che sono alla ricerca, come per coloro che attraversano momenti bui o di stanchezza di fede. Non siamo noi a completare l'ultimo passo: è sempre Dio che accomoda i timpani, storditi dalla superficialità, per parlare al nostro cuore. Egli ha parlato e ci parla continuamente. Ritorniamo con la mente al passato, quando abbiamo sperimentato il dolore della perdita di un caro, la malattia, lo sconforto causato da una circostanza. Eravamo soli dinanzi a queste ansie o c'era Qualcuno con noi che silenziosamente, discretamente, alimentava la fiamma del coraggio, la consolazione di un futuro lieto? Ora confrontiamoci con il presente: Dio è stato vicino a noi e continuerà ad esserlo, fino alla fine, nonostante tutte le mancanze e i nostri disinteressi alla Sua chiamata. Per questo non stanchiamoci mai di invocarLo, di avere l'umiltà di riconoscerci poveri mendicanti del Suo amore (conversione). Amen.

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