Abbazia Santa Maria di Pulsano Lectio Divina «DEL SIGNORE NOSTRO GESÙ CRISTO RE DELL’UNIVERSO A»
Mt 25,31-46; Ez 34,11-12.15-17; Sal 22; 1 Cor 15,20-26.28
Questa solennità fu istituita dal papa Pio XI con l’enciclica "Quas prìmas " dell’11 dicembre 1925, a conclusione dell’anno santo. Si stabilì che tale celebrazione avesse luogo l’ultima domenica di ottobre, a conclusione del «mese missionario». La riforma liturgica voluta dal
Concilio Vaticano II l’ha trasferita alla domenica ultima dell’anno liturgico.
L’Anno liturgico, che è propriamente 1’«Anno della divina Grazia», si apre, e si chiude, con la visione grandiosa e terribile del «Signore che viene»all’ultimo dei tempi.
In realtà, un Anno liturgico non è mai fine a se stesso.
La «teologia simbolica» ci aiuta a comprendere che esso è il «segno »di un ciclo completo, simbolo della vita degli uomini nel mondo.
Tuttavia paradossalmente tale circolo non è chiuso, ma aperto, a spirale in crescendo, e disposto sapientemente in modo tale che il Principio debba essere identico alla sua Fine.
Come già si è accennato, nei cicli la solennità di Cristo Re, chiude l’anno riportando la visuale alla Gloria finale del Signore: puntualmente, precisamente ripresa dalla Dom. I di Avvento del ciclo successivo.
Ciclo A Dom. 34a, la Venuta finale con il Giudizio
Ciclo B: Dom. la di Avvento: la Venuta finale
Ciclo B: Dom. 34a, la Venuta del Re eterno
Ciclo C: Dom. la di Avvento: la Venuta finale
Ciclo C: Dom. 34a , la Venuta del Re Crocifisso con il Regno suo
Ciclo A Dom. la di Avvento: la Venuta finale
e così proseguendo senza interruzioni.
Nella Scrittura il termine «Re». applicato sia al Dio Vivente, sia al suo Inviato, il Re messianico, significa sempre al di là perfino della gloria regale infinita o finita, il «Salvatore» del popolo dell’alleanza.
I 3 cicli liturgici del Rito romano propongono perciò opportunamente 3 aspetti diversi e convergenti della Regalità del Signore Risorto, non a caso invariabilmente nell’aspetto salvifico.
II ciclo A presenta Cristo come il "Pastore dell’umanità" e, allo stesso tempo, come giudice supremo dei vivi e dei morti; il risorto viene a riprendersi gli eletti suoi dopo il Giudizio (Mt 25,31-46: Evang.; Ez 34,11-12.15-17: I lett.).
Il ciclo B nell’umiltà estrema dell’abbassamento causato dalla Passione volontaria, il Re testimonia al mondo il Regno-Salvezza per il popolo di Dio: prima davanti al tribunale religioso giudaico, egli si era identificato col personaggio annunziato da Daniele (cfr. la lett. Dn 7,13-14); davanti a Pilato con la dichiarazione «Tu lo dici: io sono re»(Gv 18,33-37: Evang.); al mondo, perché Gesù è risuscitato, il «primogenito dei morti, il principe dei re della terra» (II lett. Ap 1,5-8).
Il ciclo C fa notare come l’investitura regale (cfr. 2 Sam 5,1-3: la lett.) sia avvenuta proprio sulla croce (Lc 23,35-43: Evang.). Ma Gesù non è solo Re dei giudei, come dichiara il titolo posto sulla croce, ma è capo del corpo della Chiesa e Signore di tutte le cose, redente e riconciliate nel suo sangue (Col 1,12-20).
Il Re dunque vuol dire solo il Salvatore: gli orpelli del manto con ermellino, della corona gemmata, del globo e dello scettro in mano, togliamoli di mezzo una volta per sempre. Sta sulla croce per risorgere e venire col suo regno di salvezza; anno per anno, tutto questo è oggetto di anamnesi1 della Chiesa che spinta dallo Spirito ripete di continuo: Vieni, Signore!» (Ap 22,17), affinché il Signore possa rispondere: «Si! Vengo presto!» (Ap 22,20).
Lungo l’intero l’Anno si è conosciuto un unico Centro: Cristo Risorto con lo Spirito Santo per la Gloria del Padre e per la redenzione degli uomini. Proprio come Risorto Egli è sempre amato e celebrato Domenica dopo Domenica, ma negli episodi della sua Vita storica, a partire dall’Evangelo della grazia. Le singole pericope evangeliche così formano il varco per contemplare l’intero Mistero, in questo adorando con unico atto d’amore il Signore Unico nella Trinità beata santa consustanziale indivisibile divinizzante delle Persone del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo.
Vediamo come la Divina Liturgia ci guida in questa contemplazione d’amore:
Antifona d’Ingresso Ap 5,12; 1,6
L’Agnello immolato è degno di ricevere potenza
e ricchezza e sapienza e forza e onore:
a lui gloria e potenza nei secoli, in eterno.
“Nell’aula che è la reggia celeste, la corte regale adora il Dio Invisibile sul trono dal quale regna insieme con l’Agnello Risorto (cap. 4; 5,11). Sono uniti nella lode e nell’azione di grazie gli Angeli, i 4 Viventi, i 24 Anziani sacerdotali, nella solenne, gioiosa, festale, cosmica, eterna Liturgia. In particolare tutti insieme questi adoratori proclamano dell’Agnello: «È degno!» È l’Agnello Servo sofferente (Is 53,7-8) ma Risorto, per questo è l’unico degno anzitutto di ricevere e di possedere il Dio Invisibile, il Padre suo. E nel Padre suo, essendo Egli stesso Dio da Dio, l’Agnello Risorto è degno di ricevere «la potenza e la divinità e la salvezza e la forza», da donare agli uomini redenti, santificati e da divinizzare. Perciò è anche degno di ricevere da essi l’adorazione (v. 5,12, qui amputato). E finalmente, è degno della dossologia finale: «A Lui con il Padre la gloria e la potenza in eterno!» (v. 1,6, qui amputato).
Visione e liturgia eterne, beatificanti, trasformanti, divinizzanti. Facendo proprie queste acclamazioni, anche i fedeli chiedono «qui oggi» nella fede e nella speranza di essere ammessi per la grazia inconsumabile dello Spirito Santo a quella liturgia beata. (Tommaso Federici, Cristo Signore Risorto Amato e Celebrato, Palermo 2001).
Canto all’Evangelo Mc 11,9.10
Alleluia, alleluia.
Benedetto colui che viene nel nome del Signore!
Benedetto il Regno che viene, del nostro padre Davide!
Alleluia.
Il canto all’evangelo ci ricorda la regalità di Gesù che folle in tripudio, con il corteo delle palme, acclamano umile e a cavallo di un asino pacifico, mentre compie il suo ingresso regale messianico a Gerusalemme, la Città del Grande Re (Sal 47,3; Mt 5,35), la Sposa regale, della quale ora viene a prendere possesso.
A Gerusalemme si deve consumare il suo destino regale nuziale salvifico: sulla Croce, nella Resurrezione, con l’Ascensione, nel dono dello Spirito Tuttosanto e Buono e Vivificante. Nel Figlio Risorto il Padre con lo Spirito Santo salva tutti gli uomini. Si realizza così la promessa consegnata a Davide, nel Figlio suo, Gesù Cristo, il Figlio di Dio. La II lettura dell’apostolo Paolo (1 Cor 15,20-26.28) è tratta dalla lunga sezione 15,10-58 che tratta della Resurrezione di Cristo, il fatto centrale e principale della storia del mondo e della salvezza, e fonte della resurrezione degli uomini, questa «vittoria» che Dio donò a essi (v. 57). Ma per la mediazione unica del Signore Gesù Cristo.
La la lettura fa parte degli oracoli profetici durante e dopo l’assedio babilonese di Gerusalemme tra il 598-587 a C (cap. 33-39). La proclamazione liturgica (Ez 34,11-12.15-17) è un brano dell’oracolo contro i pastori d’Israele; le loro rovinose prevaricazioni sono descritte crudamente tanto che il Signore annuncia la sua venuta per fare giustizia. I re e i grandi d’Israele pretendono di garantire la giustizia, ma i piccoli, i malati e gli emarginati ne fanno le spese. Sotto la guida di questi potenti, il popolo è decimato, come un gregge mal condotto. Allora Dio interviene e riprende le cose in mano: egli veglia sulla salute dei malati, cura i feriti, allontana i malvagi pastori, privandoli del loro potere. Dopo il rifiuto dei farisei, dopo che una sola pecora ferita vale quanto le novantanove che non hanno bisogno di assistenza, non abbiamo più da aspettare un altro buon pastore. Ora ricomincerà la vita nuova, adesso il Pastore unico è Lui, che conduce ed accompagna le pecore sempre, sia al pascolo, sia al riposo (cfr. Sal 22: Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla..che è il salmo responsoriale).
In quest’ultima domenica del Tempo ordinario, caratterizzata come festa di Cristo Re, viene proclamata la terza grande pericope che l’evangelista Matteo ha aggiunto al discorso escatologico comune ai tre sinottici: dopo le parabole delle dieci vergini (Mt 25,1-13) e del talenti (Mt 25,14-30), incontriamo la celebre scena nota col nome di «giudizio finale» (Mt 25,31-46), posta come coronamento dell’insegnamento pubblico e direttamente collegata con il racconto della passione e della risurrezione. Il versetto immediatamente seguente introduce la sezione finale del racconto matteano: «Terminati tutti questi discorsi, Gesù disse ai suoi discepoli: “Voi sapete che fra due giorni è la Pasqua e il Figlio dell’uomo sarà consegnato per essere crocifisso”» (Mt 26,1-2).
Il brano dell’ultimo evangelo dell’anno liturgico richiama la nostra attenzione sul rapporto tra la fine dei tempi e la nostra vita, sul nostro atteggiamento nei confronti del prossimo, in base al quale saremo giudicati, sul Cristo re che presiederà al giudizio. Dobbiamo pensare nel modo giusto alla fine dei tempi: non per sognare il cielo come la soluzione-miracolo, ma per attendere nella maniera migliore il grande raduno di tutti gli uomini di fronte al pastore messianico. Il nostro destino ultimo si gioca nella realtà attuale della nostra vita. Saremo infatti giudicati sul nostro atteggiamento di oggi verso il prossimo. Negli uomini stretti dalla sofferenza e dal bisogno, il figlio dell’uomo è già misteriosamente presente. Nel prossimo più vicino, prima di tutto, ma anche nella folla immensa di «quei milioni di Cristi dagli occhi cupi e dolci» (Fr. Mauriac) che, in un mondo attraversato da molteplici legami di interdipendenza, aspettano da noi ben più che un’elemosina: un amore creativo, efficace, che sappia arrivare fino a mettere in moto i meccanismi della decisione politica.
Tutto questo ci porta a pensare al Cristo, re dell’universo. Non per proclamare la sua signoria sulle questioni della vita civile, cosa che suonerebbe piuttosto ambigua in una società pluralista e laicizzata come la nostra. Gesù rivendica il suo titolo di re soltanto per l’ora della sua venuta nella gloria. Ma è presente nei poveri e nei piccoli: è il difensore dei loro diritti e il loro protettore. Servendo i poveri, è lui che serviamo.
Alla sera della vita, «saremo giudicati sull’amore» (s. Giovanni della croce); il giudizio non si baserà altro che sulle opere di misericordia, sulla carità che non verrà mai meno. Bisogna dunque amare sino alla fine Dio e gli uomini. Mai Dio senza l’uomo, mai l’uomo senza Dio.
Abbiamo qui la scena classica del giudizio finale. Ma la nostra sorte, abbiamo più volte detto, non si decide nell’aldilà: è adesso che ci pronunciamo per Cristo o contro di lui. Il testo riprende la serie tradizionale delle opere di misericordia; ma non pone limiti all’amore. Servire il Cristo, è andare alla ricerca dei bisogni e delle carenze e porvi rimedio. Comprendere che sì ha bisogno di noi è più importante che interrogarsi sul giudizio a cui saranno sottoposte le nostre azioni. In ogni modo, i criteri di Dio oltrepassano di molto la nostra immaginazione, e il suo verdetto ci sorprenderà sempre.
La struttura della pericope comprende una cornice narrativa che inquadra un duplice dialogo: la cornice comprende una introduzione, in chiaro stile apocalittico, e una conclusione sintetica sul destino eterno. Il dialogo centrale si ripete due volte in modo strettamente simile, anche se antitetico: gli interlocutori infatti sono i due gruppi in cui tutte le genti sono divise, e per ben quattro volte viene ripetuto in modo quasi identico l’elenco delle sei opere decisive per il giudizio.
Esaminiamo il brano
vv. 31-33 L’intenzione di Gesù nel momento in cui pronunziò questo discorso non era quella di descriverci gli avvenimenti finali in quanto tali e per se stessi. Gesù, come figlio del suo tempo, e partecipe della mentalità del suo tempo, tiene conto dei fatti e se ne serve per inculcare agli uomini la preparazione necessaria per superare felicemente la prova finale. Allo stesso tempo, egli mira a mettere in evidenza il significato centrale della sua persona. Gli uomini saranno giudicati in base al loro atteggiamento di fronte a lui. Questo brano estremamente suggestivo, di chiara marca apocalittica, conclude l’esortazione escatologica matteana alla sua chiesa, bisognosa di ritrovare, unitamente all’attenzione spirituale per il futuro, una fedeltà operante di vita. Non si tratta esattamente di una parabola, ma piuttosto di una visione profetica delle realtà ultime. Mt 25,31-46 è prima di tutto e soprattutto una scena giudiziaria. Il tribunale è presieduto dal Figlio dell’uomo, il quale premia alcuni e condanna altri.
Il paragone del pastore che separa le capre dalle pecore indica forse che in origine il brano doveva essere una vera parabola, «il Figlio dell’uomo verrà» il brano si apre con la solenne presentazione del giudice; egli verrà come il regale “figlio dell’uomo” del libro di Daniele (7,13-14).
«nella sua gloria»: già in 16,27 e 19,28 Gesù aveva accennato alla sua venuta «nella gloria del Padre suo» per dare a ciascuno secondo il proprio operato.
La «gloria» di Cristo giudice è dunque una prerogativa divina. come, secondo il costante insegnamento dell’AT, divino è il compito di giudicare il mondo.
«con tutti i suoi angeli»: l’espressione si ispira a Zc 14,5, in cui si dice che nel «grande giorno» del Signore «apparirà Jahvè e con lui tutti i suoi santi».
Il corteo celeste, che nell’immaginazione orientale dell’evangelista dovrebbe assistere il Giudice sovrano nella grande inchiesta giudiziaria, ha qui una funzione piuttosto coreografica, come del resto immaginario e non necessariamente reale è tutto l’apparato descritto, ne è indice il linguaggio semiparabolico del brano.
v. 32 - «verranno radunati»: Davanti al Cristo intronizzato Dio raccoglie tutte le genti: il verbo al passivo si rivela come un comune “passivo teologico” con cui viene presentata un’azione divina, evitando di nominare direttamente Dio. L’immagine della raccolta è tipica dell’apocalittica e in questo senso usata ripetutamente da Matteo: il Regno è come una rete che raccoglie ogni tipo di pesci (Mt 13,47) e i servi del re sono mandati per le strade a raccogliere tutti quelli che trovano per il banchetto di nozze (Mt 22,10). Ma la nostra pericope non è interessata alla raccolta, bensì a ciò che la segue, cioè la separazione. -
Anche questo è un motivo caro a Matteo, tanto è vero che entrambe le parabole citate terminano con una separazione: dei pesci buoni da quelli cattivi (Mt 13,49), dei commensali con l’abito nuziale da quello senza (Mt 22,13). Pure le altre due parabole escatologiche del cap. 25 terminano con una separazione: cinque ragazze, quelle sagge, entrano alle nozze, mentre le altre cinque, stolte, restano fuori; due servi entrano nella gioia del loro Signore, mentre il terzo, quello pigro, viene buttato fuori.
«tutti i popoli»: L’espressione greca panta ta ethne normalmente viene tradotta «tutti i popoli» (compreso Israele). Ma in altri passi di Matteo (vedi 4,15; 6,32; 10,5.18; 12,18.21; 20,19.25; 21,43; 24,7.9.14; 28,19) ethne e panta ta ethne si riferiscono ai popoli al di fuori di Israele, ossia i pagani.
Questa frase, che in ambiente giudaico rievoca il «giudizio» di Dio contro la nazioni pagane a favore del popolo eletto (cfr. Zc 14,2), può ora indicare che le vecchie distinzioni fra giudei e pagani, fra cristiani ed infedeli, sono cadute, poiché il giudizio è universale ed è fatto in base all’operato di ciascuno.
L’interpretazione normale di Mt 25,31-46 la prende per una scena giudiziaria in cui panta ta ethne (25,32) rappresenta l’intera umanità («tutti i popoli»), e «questi miei fratelli più piccoli» (25,40; vedi 25,45) si riferisce a tutti quelli che soffrono in qualsiasi modo.
Un’altra interpretazione vede nel panta ta ethne «tutti i pagani» e nel «questi miei fratelli più piccoli» i cristiani, siano essi missionari o semplici cristiani. Questa interpretazione è basata sul significato attribuito ad ethne («popoli, nazioni, pagani») e ad adelphoi («fratelli») in altri passi dell’Evangelo di Matteo. Se nel contesto matteano questi termini significano rispettivamente «pagani» e «discepoli di Gesù», ci sono validi motivi per ritenere che abbiano questo significato anche in Mt 25,31-46.
«come il pastore separa le pecore dai capri»: Le greggi miste sono abituali in Palestina. Alla sera il pastore separa le pecore dalle capre perché le capre di notte hanno bisogno di stare al riparo (soffrono il freddo), mentre le pecore di notte preferiscono stare all’aria aperta. Dato che le pecore hanno maggior valore, nella parabola viene loro riservato un trattamento migliore (vedi i vv. 33-34).
L’immagine deriva probabilmente da Ez 34,17 (cfr. la lett.); il Pastore Buono divide con cura le pecore domestiche dai capri selvatici, come il Seminatore Buono aveva promesso che avrebbe fatto con il grano sincero e la zizania (13,49), come il pescatore separa i pesci commestibili da tutto il resto (13,47-50), affinché non esista confusione tra quanto è buono da quanto è cattivo ed inutile.
«alla sua destra... alla sinistra»: La parte destra è la parte favorevole, in opposizione alla sinistra (cfr. Gen 48,13-19; Qo 10,2). Come il Figlio dell’uomo deve sedere alla destra del Padre (cfr. Sal 110,1; Mt 26,63-64; Mc 16,19; Ef 1,20; Col 3,1; Eb 1,3; 8,1; 10,12; 12,2; At 7,55).
v. 34 - Come ogni giudizio che si rispetti, il Giudice sovrano pronuncia prima il dispositivo della sentenza: alle pecore buone proclama: «Venite, benedetti dal Padre mio». La scena pastorale è solo evocata e infatti lascia subito il posto al dialogo centrale che avviene fra il re e gli uomini; ma essa serve soprattutto a presentare il Messia come il Pastore, titolo comune in Oriente per qualificare i capi delle nazioni e i grandi condottieri.
In senso analogo nella parte centrale il Figlio dell’uomo viene chiamato sempre «il re» e gli uomini gli si rivolgono col titolo Kyrios ("Signore"): la dignità regale compete naturalmente al Messia ed egli la esercita in qualità di giudice escatologico, signore della storia, e nel suo regno ammette come eredi gli uomini “benedetti dal Padre”.
«il re»: Qui e nel v. 40 il glorioso Figlio dell’uomo che siede in giudizio è chiamato «il re». Questo titolo porta avanti il motivo della regalità di Gesù che era cominciato nel racconto dell’infanzia (cfr. 1,1.20; 2,2.13-14) e verrà ripreso in chiave sarcastica nel racconto della passione (cfr. 27,11.29.27.42). Qui vediamo Gesù come re in tutta la sua gloria, senza ironia né segretezza.
«ereditate il regno preparato per voi...»: la salvezza non è il frutto del caso o del capriccio; essa segue un piano preordinato, i cui inizi coincidono con la stessa origine del mondo. Inoltre, l’assegnazione del premio ai singoli non è fatta secondo una cieca preordinazione, ma, come risulta da tutto il senso del brano, in base alle opere.
«fin dalla creazione del mondo»: Per l’immagine della Sapienza che è stata creata fin dalla creazione del mondo si veda Pr 8,22-31. In seguito tale origine è stata attribuita alla Torah nonché ad altre cose importanti (per un elenco di tali elementi vedi m. ‘Abot 5,6).
vv. 35-36 Ecco la motivazione della sentenza: l’enumerazione, con il numero simbolico2, di 6 «opere di carità». L’elenco che enumera affamati, assetati, forestieri, nudi, malati e prigionieri ripete gli schemi tradizionali delle opere di misericordia previsti dalla Bibbia: Is 58,7; Tb 4,16 e Gb 22,6-7; 31,17.19.21.
Anche nella letteratura giudaica, si trovano motivi molto simili: vestire gli ignudi, ospitare i forestieri o i pellegrini e visitare gl’infermi. Gesù, nella motivazione determinante dell’ultima sorte, allude quindi all’insegnamento dell’AT e del giudaismo, ma supera l’antico nel senso seguente: le opere di carità ricordate sono una manifestazione del precetto fondamentale dell’amore, e non semplici opere benefiche compiute senza spirito di benevolenza.
D’altra parte, l’insegnamento di Gesù esclude lo spirito di calcolo con cui, a volte, quelle opere erano compiute nel giudaismo. Dio restava obbligato. Si compivano perché Dio non potesse fare a meno di premiarle. In altre parole, le opere ricordate non erano compiute per Dio, ma contro Dio, per legargli le mani e obbligarlo a premiare i suoi devoti. Un travisamento della vera religione.
La sentenza definitiva è dunque fondata sui motivi di servizio caritativo al prossimo bisognoso. Questo non va contro la predicazione di Gesù sulla necessità della conversione, sulla fede, sui comandamenti, sul precetto dell’amore, sulla purezza del cuore, sull’umiltà, sulla filiazione divina, sulla rinunzia, sulla necessità di portare la croce...? L’enumerazione che Gesù fa in questa occasione non è esclusiva, ma complementare: vuole mettere in evidenza l’importanza preponderante che ha, per lui, il precetto dell’amore manifestato appunto in queste opere. Non esclude il resto, e anzi, lo suppone.
Il Re Giudice si appropria al passivo di queste opere, che dichiara come riferite a lui, fatte alla sua stessa Persona.
vv. 37-39: Chi ha operato questo, è la moltitudine chiamata adesso dei «giusti». Essi hanno operato e basta; non hanno fatto indagine sui meritevoli di aiuto, né chi fossero gli aiutati. Le opere di carità ricordate hanno il merito di essere state compiute in onore di Gesù. Tanto quelli di destra come quelli di sinistra restano sorpresi davanti alla dichiarazione del giudice e si rivolgono a lui, esprimendo la loro meraviglia. In questo modo, si espone chiaramente un principio che abbatte molte barriere: le opere compiute per amore sono liberate da ogni genere di limiti che condizioni il loro valore. Sono premiate le opere compiute per amore del prossimo bisognoso.
Gesù si rivolge a tutti indistintamente, dimostrando così che, anche fuori dell’ambito visibile dei suoi discepoli, della sua Chiesa, vi può essere un vero regno e un vero «cristianesimo». La sentenza pronunziata per quelli che si trovano alla sua sinistra sta a indicare la separazione eterna da Cristo e, per conseguenza, dalla vita, senza che le sue parole facciano supporre una predestinazione alla condanna. La loro mancanza di amore, cosa personale, ha determinato la loro destinazione alle pene senza fine. Le parole di Gesù parlano della fissazione definitiva della sorte degli uomini in quel momento supremo.
«quando...»: i giusti, sorpresi , pongono alla motivazione della sentenza un’interrogazione perfettamente simmetrica, ripercorrendo le 6 opere della «giustizia» (cfr. Mt 6.3).
La domanda con buona probabilità è un espediente stilistico, come altre volte negli Evangeli, che serve a spezzare una esposizione monotona e a sottolineare un punto importante dell’argomento trattato. Inoltre, la ripetizione alla lettera anche di lunghi brani in una narrazione di tipo colloquiale è una caratteristica propria della narrativa orientale.
v. 40 La risposta del Re è l’affermazione decisiva di tutto il brano, introdotta dalla formula solenne: «Io il Dio Amen, il Fedele, parlo a voi».
«fratelli più piccoli»: rimanda in prima istanza ai discepoli, accolti come si accoglie il loro Signore (Mt 10,40-42). Continuando, i fratelli di Gesù sono coloro che si fanno piccoli per entrare nel regno (18,1-5); anche chi esegue la Volontà del Padre suo, è suo fratello e sorella e madre (12,50).
La Resurrezione inaugura la sua fraternità (28,10), che deve essere portata al mondo, essendo ormai «il primogenito tra molti fratelli» (Rm 8,29).
Chi operò la giustizia-carità ignorava tutto questo.
vv. 41-45 la seconda parte della scena è sviluppata in parallelismo antitetico con la prima. Lo stesso procedimento stilistico ricorre in 7,24-27.
La materia dell’azione giudiziale all’ultimo, non saranno le dottrine, la fede, la speranza, la santità, bensì tutte queste se presero corpo nella giustizia-carità ai fratelli. Ancora una volta la Tavola 2a della Legge santa, i doveri verso il prossimo, è assunta come criterio di giudizio; la Tavola Ia , i doveri verso Dio, è significativamente taciuta: «Chi ama il prossimo adempì la Legge» (Rm 13.8-10; Gal 5.14).
L’ultimo quadro può dunque riguardare il giudizio per l’umanità intera, soprattutto per quelli che non hanno conosciuto il Cristo, cioè né ebrei né cristiani: anche loro saranno giudicati dal Re Messia, non in base alle attese profetiche né alla fecondità evangelica, bensì con il criterio dell’attenzione all’uomo bisognoso. Infatti tutti gli interpellati reagiscono, dicendo di non aver mai visto il Cristo: fra loro però la differenza è data da un generoso servizio verso l’affamato, l’assetato, il nudo, il forestiero, il malato, il carcerato.
La novità proposta non sta nelle opere di misericordia, ma nell’identificazione del Messia con i suoi fratelli più piccoli: il criterio di giudizio è dunque cristologico, seppur implicitamente. Il destino eterno di ogni uomo si gioca quindi nel temporale rapporto di accoglienza o di rifiuto del Cristo: e ciò avviene nella persona di ogni uomo.
v. 46 «supplizio eterno... vita eterna»: il castigo e il premio sono «eterni», perché trattandosi dì un giudizio «finale», la sentenza che in esso si emette riveste carattere definitivo ed è irrevocabile.
La collocazione di questo capitolo in Matteo alla conclusione del discorso finale di Gesù fa pensare che esso sia stato inteso come l’ultima parola di Gesù ai suoi discepoli. Il cap. è di enorme importanza teologica.
In ultima analisi, è l’amore che determina se un uomo è buono o cattivo; se il nostro amore è attivo, l’insuccesso nel realizzare una moralità perfetta in altri campi sarà infrequente, e comunque sarà perdonato.
Ma non esiste nessun sostituto dell’amore attivo.
Antifona alla Comunione Sal 28,10-11
Re in eterno siede il Signore:
benedirà il suo popolo nella pace.
Il testo di oggi forma un’inclusione letteraria eucaristica, molto interessante, in quanto si usa per la Domenica del Battesimo del Signore e per la Domenica ultima, quindi al principio e al termine dell’arco grandioso detto Tempo per l’Anno. L’Orante alla fine del suo canto vuole confessare la fede e la gioia, riconoscendo e acclamando il suo Signore, il Vivente, quale Sovrano eterno. Qui l’eternità non è vista come un futuro, ma come un illimitato presente (v. l0b). Il Salmista gioisce per questo anche altre volte (10,37), in genere dopo un annuncio profetico (Ger 10,10). Il Signore regna come Sovrano dal suo trono inaccessibile, e tuttavia viene a unirsi al popolo suo, e questo pronome possessivo come sempre indica l’alleanza. Viene per benedirlo, e poiché «la benedizione torna sempre sul Benedicente e unisce a Lui il benedetto», fa comunicare quest’ultimo alla pace divina (v. 11b). Il rimando è alla «benedizione sacerdotale» di Nm 6,24-26; Sal 27,9. Paolo riprende questo tratto in Fil 4,7.
«Oggi qui», al termine benedetto dell’Anno della divina grazia, noi fedeli contempliamo in questo canto e in questa comunione la visione iniziale della nostra vera vita, la visione terminale del nostro pellegrinare sulla terra. Il Padre, il Sovrano eterno, il Re della pace e della verità, il Re Salvatore che dona la sua benedizione trasformante ai figli suoi benedetti, oggi una volta di più dona lo Spirito suo Tuttosanto e Buono e Vivificante nella Parola che Lo testimonia e nel Convito nuziale preparato per il Figlio.
Le preghiere di colletta:
Dio onnipotente ed eterno,
che hai voluto rinnovare tutte le cose
in Cristo tuo Figlio, Re dell’universo,
fa’ che ogni creatura, libera dalla schiavitù del peccato,
ti serva e ti lodi senza fine.
Per il nostro Signore...
La preghiera fa anamnesi che il Padre nel Figlio, che elesse a Re dell’universo, volle ricapitolare tutto (Ef 1,10), e con epiclesi chiede che la creazione intera, liberata dalla schiavitù del peccato e della corruzione, dia culto alla divina Maestà e giunga alla lode eterna.
La Colletta A:
O Padre, che hai posto il tuo Figlio
come unico re e pastore di tutti gli uomini,
per costruire nelle tormentate vicende della storia il tuo regno d’amore,
alimenta in noi la certezza di fede,
che un giorno, annientato anche l’ultimo nemico,
la morte, egli ti consegnerà l’opera della sua redenzione,
perché tu sia tutto in tutti.
Egli è Dio, e vive e regna con te ..
La preghiera confessa chiede e supplica il rafforzamento della fede della comunità cristiana nel Padre che consacrò il Figlio Sacerdote eterno come Re e Pastore unico per l’opera della nostra redenzione. Assogettando così l’intera creazione al suo dominio salvifico può riconsegnare al Padre il Regno che ha le note della verità, della vita, della santità, della grazia, della giustizia, della carità e della pace (cfr. la Prece eucaristica).
lunedì 17 novembre 2014
Abbazia Santa Maria di Pulsano
Questa solennità fu istituita dal papa Pio XI con l’enciclica "Quas prìmas " dell’11 dicembre 1925, a conclusione dell’anno santo. Si stabilì che tale celebrazione avesse luogo l’ultima domenica di ottobre, a conclusione del «mese missionario». La riforma liturgica voluta dal
Concilio Vaticano II l’ha trasferita alla domenica ultima dell’anno liturgico.
L’Anno liturgico, che è propriamente 1’«Anno della divina Grazia», si apre, e si chiude, con la visione grandiosa e terribile del «Signore che viene»all’ultimo dei tempi.
In realtà, un Anno liturgico non è mai fine a se stesso.
La «teologia simbolica» ci aiuta a comprendere che esso è il «segno »di un ciclo completo, simbolo della vita degli uomini nel mondo.
Tuttavia paradossalmente tale circolo non è chiuso, ma aperto, a spirale in crescendo, e disposto sapientemente in modo tale che il Principio debba essere identico alla sua Fine.
Come già si è accennato, nei cicli la solennità di Cristo Re, chiude l’anno riportando la visuale alla Gloria finale del Signore: puntualmente, precisamente ripresa dalla Dom. I di Avvento del ciclo successivo.
Ciclo A Dom. 34a, la Venuta finale con il Giudizio
Ciclo B: Dom. la di Avvento: la Venuta finale
Ciclo B: Dom. 34a, la Venuta del Re eterno
Ciclo C: Dom. la di Avvento: la Venuta finale
Ciclo C: Dom. 34a , la Venuta del Re Crocifisso con il Regno suo
Ciclo A Dom. la di Avvento: la Venuta finale
e così proseguendo senza interruzioni.
Nella Scrittura il termine «Re». applicato sia al Dio Vivente, sia al suo Inviato, il Re messianico, significa sempre al di là perfino della gloria regale infinita o finita, il «Salvatore» del popolo dell’alleanza.
I 3 cicli liturgici del Rito romano propongono perciò opportunamente 3 aspetti diversi e convergenti della Regalità del Signore Risorto, non a caso invariabilmente nell’aspetto salvifico.
II ciclo A presenta Cristo come il "Pastore dell’umanità" e, allo stesso tempo, come giudice supremo dei vivi e dei morti; il risorto viene a riprendersi gli eletti suoi dopo il Giudizio (Mt 25,31-46: Evang.; Ez 34,11-12.15-17: I lett.).
Il ciclo B nell’umiltà estrema dell’abbassamento causato dalla Passione volontaria, il Re testimonia al mondo il Regno-Salvezza per il popolo di Dio: prima davanti al tribunale religioso giudaico, egli si era identificato col personaggio annunziato da Daniele (cfr. la lett. Dn 7,13-14); davanti a Pilato con la dichiarazione «Tu lo dici: io sono re»(Gv 18,33-37: Evang.); al mondo, perché Gesù è risuscitato, il «primogenito dei morti, il principe dei re della terra» (II lett. Ap 1,5-8).
Il ciclo C fa notare come l’investitura regale (cfr. 2 Sam 5,1-3: la lett.) sia avvenuta proprio sulla croce (Lc 23,35-43: Evang.). Ma Gesù non è solo Re dei giudei, come dichiara il titolo posto sulla croce, ma è capo del corpo della Chiesa e Signore di tutte le cose, redente e riconciliate nel suo sangue (Col 1,12-20).
Il Re dunque vuol dire solo il Salvatore: gli orpelli del manto con ermellino, della corona gemmata, del globo e dello scettro in mano, togliamoli di mezzo una volta per sempre. Sta sulla croce per risorgere e venire col suo regno di salvezza; anno per anno, tutto questo è oggetto di anamnesi1 della Chiesa che spinta dallo Spirito ripete di continuo: Vieni, Signore!» (Ap 22,17), affinché il Signore possa rispondere: «Si! Vengo presto!» (Ap 22,20).
Lungo l’intero l’Anno si è conosciuto un unico Centro: Cristo Risorto con lo Spirito Santo per la Gloria del Padre e per la redenzione degli uomini. Proprio come Risorto Egli è sempre amato e celebrato Domenica dopo Domenica, ma negli episodi della sua Vita storica, a partire dall’Evangelo della grazia. Le singole pericope evangeliche così formano il varco per contemplare l’intero Mistero, in questo adorando con unico atto d’amore il Signore Unico nella Trinità beata santa consustanziale indivisibile divinizzante delle Persone del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo.
Vediamo come la Divina Liturgia ci guida in questa contemplazione d’amore:
Antifona d’Ingresso Ap 5,12; 1,6
L’Agnello immolato è degno di ricevere potenza
e ricchezza e sapienza e forza e onore:
a lui gloria e potenza nei secoli, in eterno.
“Nell’aula che è la reggia celeste, la corte regale adora il Dio Invisibile sul trono dal quale regna insieme con l’Agnello Risorto (cap. 4; 5,11). Sono uniti nella lode e nell’azione di grazie gli Angeli, i 4 Viventi, i 24 Anziani sacerdotali, nella solenne, gioiosa, festale, cosmica, eterna Liturgia. In particolare tutti insieme questi adoratori proclamano dell’Agnello: «È degno!» È l’Agnello Servo sofferente (Is 53,7-8) ma Risorto, per questo è l’unico degno anzitutto di ricevere e di possedere il Dio Invisibile, il Padre suo. E nel Padre suo, essendo Egli stesso Dio da Dio, l’Agnello Risorto è degno di ricevere «la potenza e la divinità e la salvezza e la forza», da donare agli uomini redenti, santificati e da divinizzare. Perciò è anche degno di ricevere da essi l’adorazione (v. 5,12, qui amputato). E finalmente, è degno della dossologia finale: «A Lui con il Padre la gloria e la potenza in eterno!» (v. 1,6, qui amputato).
Visione e liturgia eterne, beatificanti, trasformanti, divinizzanti. Facendo proprie queste acclamazioni, anche i fedeli chiedono «qui oggi» nella fede e nella speranza di essere ammessi per la grazia inconsumabile dello Spirito Santo a quella liturgia beata. (Tommaso Federici, Cristo Signore Risorto Amato e Celebrato, Palermo 2001).
Canto all’Evangelo Mc 11,9.10
Alleluia, alleluia.
Benedetto colui che viene nel nome del Signore!
Benedetto il Regno che viene, del nostro padre Davide!
Alleluia.
Il canto all’evangelo ci ricorda la regalità di Gesù che folle in tripudio, con il corteo delle palme, acclamano umile e a cavallo di un asino pacifico, mentre compie il suo ingresso regale messianico a Gerusalemme, la Città del Grande Re (Sal 47,3; Mt 5,35), la Sposa regale, della quale ora viene a prendere possesso.
A Gerusalemme si deve consumare il suo destino regale nuziale salvifico: sulla Croce, nella Resurrezione, con l’Ascensione, nel dono dello Spirito Tuttosanto e Buono e Vivificante. Nel Figlio Risorto il Padre con lo Spirito Santo salva tutti gli uomini. Si realizza così la promessa consegnata a Davide, nel Figlio suo, Gesù Cristo, il Figlio di Dio. La II lettura dell’apostolo Paolo (1 Cor 15,20-26.28) è tratta dalla lunga sezione 15,10-58 che tratta della Resurrezione di Cristo, il fatto centrale e principale della storia del mondo e della salvezza, e fonte della resurrezione degli uomini, questa «vittoria» che Dio donò a essi (v. 57). Ma per la mediazione unica del Signore Gesù Cristo.
La la lettura fa parte degli oracoli profetici durante e dopo l’assedio babilonese di Gerusalemme tra il 598-587 a C (cap. 33-39). La proclamazione liturgica (Ez 34,11-12.15-17) è un brano dell’oracolo contro i pastori d’Israele; le loro rovinose prevaricazioni sono descritte crudamente tanto che il Signore annuncia la sua venuta per fare giustizia. I re e i grandi d’Israele pretendono di garantire la giustizia, ma i piccoli, i malati e gli emarginati ne fanno le spese. Sotto la guida di questi potenti, il popolo è decimato, come un gregge mal condotto. Allora Dio interviene e riprende le cose in mano: egli veglia sulla salute dei malati, cura i feriti, allontana i malvagi pastori, privandoli del loro potere. Dopo il rifiuto dei farisei, dopo che una sola pecora ferita vale quanto le novantanove che non hanno bisogno di assistenza, non abbiamo più da aspettare un altro buon pastore. Ora ricomincerà la vita nuova, adesso il Pastore unico è Lui, che conduce ed accompagna le pecore sempre, sia al pascolo, sia al riposo (cfr. Sal 22: Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla..che è il salmo responsoriale).
In quest’ultima domenica del Tempo ordinario, caratterizzata come festa di Cristo Re, viene proclamata la terza grande pericope che l’evangelista Matteo ha aggiunto al discorso escatologico comune ai tre sinottici: dopo le parabole delle dieci vergini (Mt 25,1-13) e del talenti (Mt 25,14-30), incontriamo la celebre scena nota col nome di «giudizio finale» (Mt 25,31-46), posta come coronamento dell’insegnamento pubblico e direttamente collegata con il racconto della passione e della risurrezione. Il versetto immediatamente seguente introduce la sezione finale del racconto matteano: «Terminati tutti questi discorsi, Gesù disse ai suoi discepoli: “Voi sapete che fra due giorni è la Pasqua e il Figlio dell’uomo sarà consegnato per essere crocifisso”» (Mt 26,1-2).
Il brano dell’ultimo evangelo dell’anno liturgico richiama la nostra attenzione sul rapporto tra la fine dei tempi e la nostra vita, sul nostro atteggiamento nei confronti del prossimo, in base al quale saremo giudicati, sul Cristo re che presiederà al giudizio. Dobbiamo pensare nel modo giusto alla fine dei tempi: non per sognare il cielo come la soluzione-miracolo, ma per attendere nella maniera migliore il grande raduno di tutti gli uomini di fronte al pastore messianico. Il nostro destino ultimo si gioca nella realtà attuale della nostra vita. Saremo infatti giudicati sul nostro atteggiamento di oggi verso il prossimo. Negli uomini stretti dalla sofferenza e dal bisogno, il figlio dell’uomo è già misteriosamente presente. Nel prossimo più vicino, prima di tutto, ma anche nella folla immensa di «quei milioni di Cristi dagli occhi cupi e dolci» (Fr. Mauriac) che, in un mondo attraversato da molteplici legami di interdipendenza, aspettano da noi ben più che un’elemosina: un amore creativo, efficace, che sappia arrivare fino a mettere in moto i meccanismi della decisione politica.
Tutto questo ci porta a pensare al Cristo, re dell’universo. Non per proclamare la sua signoria sulle questioni della vita civile, cosa che suonerebbe piuttosto ambigua in una società pluralista e laicizzata come la nostra. Gesù rivendica il suo titolo di re soltanto per l’ora della sua venuta nella gloria. Ma è presente nei poveri e nei piccoli: è il difensore dei loro diritti e il loro protettore. Servendo i poveri, è lui che serviamo.
Alla sera della vita, «saremo giudicati sull’amore» (s. Giovanni della croce); il giudizio non si baserà altro che sulle opere di misericordia, sulla carità che non verrà mai meno. Bisogna dunque amare sino alla fine Dio e gli uomini. Mai Dio senza l’uomo, mai l’uomo senza Dio.
Abbiamo qui la scena classica del giudizio finale. Ma la nostra sorte, abbiamo più volte detto, non si decide nell’aldilà: è adesso che ci pronunciamo per Cristo o contro di lui. Il testo riprende la serie tradizionale delle opere di misericordia; ma non pone limiti all’amore. Servire il Cristo, è andare alla ricerca dei bisogni e delle carenze e porvi rimedio. Comprendere che sì ha bisogno di noi è più importante che interrogarsi sul giudizio a cui saranno sottoposte le nostre azioni. In ogni modo, i criteri di Dio oltrepassano di molto la nostra immaginazione, e il suo verdetto ci sorprenderà sempre.
La struttura della pericope comprende una cornice narrativa che inquadra un duplice dialogo: la cornice comprende una introduzione, in chiaro stile apocalittico, e una conclusione sintetica sul destino eterno. Il dialogo centrale si ripete due volte in modo strettamente simile, anche se antitetico: gli interlocutori infatti sono i due gruppi in cui tutte le genti sono divise, e per ben quattro volte viene ripetuto in modo quasi identico l’elenco delle sei opere decisive per il giudizio.
Esaminiamo il brano
vv. 31-33 L’intenzione di Gesù nel momento in cui pronunziò questo discorso non era quella di descriverci gli avvenimenti finali in quanto tali e per se stessi. Gesù, come figlio del suo tempo, e partecipe della mentalità del suo tempo, tiene conto dei fatti e se ne serve per inculcare agli uomini la preparazione necessaria per superare felicemente la prova finale. Allo stesso tempo, egli mira a mettere in evidenza il significato centrale della sua persona. Gli uomini saranno giudicati in base al loro atteggiamento di fronte a lui. Questo brano estremamente suggestivo, di chiara marca apocalittica, conclude l’esortazione escatologica matteana alla sua chiesa, bisognosa di ritrovare, unitamente all’attenzione spirituale per il futuro, una fedeltà operante di vita. Non si tratta esattamente di una parabola, ma piuttosto di una visione profetica delle realtà ultime. Mt 25,31-46 è prima di tutto e soprattutto una scena giudiziaria. Il tribunale è presieduto dal Figlio dell’uomo, il quale premia alcuni e condanna altri.
Il paragone del pastore che separa le capre dalle pecore indica forse che in origine il brano doveva essere una vera parabola, «il Figlio dell’uomo verrà» il brano si apre con la solenne presentazione del giudice; egli verrà come il regale “figlio dell’uomo” del libro di Daniele (7,13-14).
«nella sua gloria»: già in 16,27 e 19,28 Gesù aveva accennato alla sua venuta «nella gloria del Padre suo» per dare a ciascuno secondo il proprio operato.
La «gloria» di Cristo giudice è dunque una prerogativa divina. come, secondo il costante insegnamento dell’AT, divino è il compito di giudicare il mondo.
«con tutti i suoi angeli»: l’espressione si ispira a Zc 14,5, in cui si dice che nel «grande giorno» del Signore «apparirà Jahvè e con lui tutti i suoi santi».
Il corteo celeste, che nell’immaginazione orientale dell’evangelista dovrebbe assistere il Giudice sovrano nella grande inchiesta giudiziaria, ha qui una funzione piuttosto coreografica, come del resto immaginario e non necessariamente reale è tutto l’apparato descritto, ne è indice il linguaggio semiparabolico del brano.
v. 32 - «verranno radunati»: Davanti al Cristo intronizzato Dio raccoglie tutte le genti: il verbo al passivo si rivela come un comune “passivo teologico” con cui viene presentata un’azione divina, evitando di nominare direttamente Dio. L’immagine della raccolta è tipica dell’apocalittica e in questo senso usata ripetutamente da Matteo: il Regno è come una rete che raccoglie ogni tipo di pesci (Mt 13,47) e i servi del re sono mandati per le strade a raccogliere tutti quelli che trovano per il banchetto di nozze (Mt 22,10). Ma la nostra pericope non è interessata alla raccolta, bensì a ciò che la segue, cioè la separazione. -
Anche questo è un motivo caro a Matteo, tanto è vero che entrambe le parabole citate terminano con una separazione: dei pesci buoni da quelli cattivi (Mt 13,49), dei commensali con l’abito nuziale da quello senza (Mt 22,13). Pure le altre due parabole escatologiche del cap. 25 terminano con una separazione: cinque ragazze, quelle sagge, entrano alle nozze, mentre le altre cinque, stolte, restano fuori; due servi entrano nella gioia del loro Signore, mentre il terzo, quello pigro, viene buttato fuori.
«tutti i popoli»: L’espressione greca panta ta ethne normalmente viene tradotta «tutti i popoli» (compreso Israele). Ma in altri passi di Matteo (vedi 4,15; 6,32; 10,5.18; 12,18.21; 20,19.25; 21,43; 24,7.9.14; 28,19) ethne e panta ta ethne si riferiscono ai popoli al di fuori di Israele, ossia i pagani.
Questa frase, che in ambiente giudaico rievoca il «giudizio» di Dio contro la nazioni pagane a favore del popolo eletto (cfr. Zc 14,2), può ora indicare che le vecchie distinzioni fra giudei e pagani, fra cristiani ed infedeli, sono cadute, poiché il giudizio è universale ed è fatto in base all’operato di ciascuno.
L’interpretazione normale di Mt 25,31-46 la prende per una scena giudiziaria in cui panta ta ethne (25,32) rappresenta l’intera umanità («tutti i popoli»), e «questi miei fratelli più piccoli» (25,40; vedi 25,45) si riferisce a tutti quelli che soffrono in qualsiasi modo.
Un’altra interpretazione vede nel panta ta ethne «tutti i pagani» e nel «questi miei fratelli più piccoli» i cristiani, siano essi missionari o semplici cristiani. Questa interpretazione è basata sul significato attribuito ad ethne («popoli, nazioni, pagani») e ad adelphoi («fratelli») in altri passi dell’Evangelo di Matteo. Se nel contesto matteano questi termini significano rispettivamente «pagani» e «discepoli di Gesù», ci sono validi motivi per ritenere che abbiano questo significato anche in Mt 25,31-46.
«come il pastore separa le pecore dai capri»: Le greggi miste sono abituali in Palestina. Alla sera il pastore separa le pecore dalle capre perché le capre di notte hanno bisogno di stare al riparo (soffrono il freddo), mentre le pecore di notte preferiscono stare all’aria aperta. Dato che le pecore hanno maggior valore, nella parabola viene loro riservato un trattamento migliore (vedi i vv. 33-34).
L’immagine deriva probabilmente da Ez 34,17 (cfr. la lett.); il Pastore Buono divide con cura le pecore domestiche dai capri selvatici, come il Seminatore Buono aveva promesso che avrebbe fatto con il grano sincero e la zizania (13,49), come il pescatore separa i pesci commestibili da tutto il resto (13,47-50), affinché non esista confusione tra quanto è buono da quanto è cattivo ed inutile.
«alla sua destra... alla sinistra»: La parte destra è la parte favorevole, in opposizione alla sinistra (cfr. Gen 48,13-19; Qo 10,2). Come il Figlio dell’uomo deve sedere alla destra del Padre (cfr. Sal 110,1; Mt 26,63-64; Mc 16,19; Ef 1,20; Col 3,1; Eb 1,3; 8,1; 10,12; 12,2; At 7,55).
v. 34 - Come ogni giudizio che si rispetti, il Giudice sovrano pronuncia prima il dispositivo della sentenza: alle pecore buone proclama: «Venite, benedetti dal Padre mio». La scena pastorale è solo evocata e infatti lascia subito il posto al dialogo centrale che avviene fra il re e gli uomini; ma essa serve soprattutto a presentare il Messia come il Pastore, titolo comune in Oriente per qualificare i capi delle nazioni e i grandi condottieri.
In senso analogo nella parte centrale il Figlio dell’uomo viene chiamato sempre «il re» e gli uomini gli si rivolgono col titolo Kyrios ("Signore"): la dignità regale compete naturalmente al Messia ed egli la esercita in qualità di giudice escatologico, signore della storia, e nel suo regno ammette come eredi gli uomini “benedetti dal Padre”.
«il re»: Qui e nel v. 40 il glorioso Figlio dell’uomo che siede in giudizio è chiamato «il re». Questo titolo porta avanti il motivo della regalità di Gesù che era cominciato nel racconto dell’infanzia (cfr. 1,1.20; 2,2.13-14) e verrà ripreso in chiave sarcastica nel racconto della passione (cfr. 27,11.29.27.42). Qui vediamo Gesù come re in tutta la sua gloria, senza ironia né segretezza.
«ereditate il regno preparato per voi...»: la salvezza non è il frutto del caso o del capriccio; essa segue un piano preordinato, i cui inizi coincidono con la stessa origine del mondo. Inoltre, l’assegnazione del premio ai singoli non è fatta secondo una cieca preordinazione, ma, come risulta da tutto il senso del brano, in base alle opere.
«fin dalla creazione del mondo»: Per l’immagine della Sapienza che è stata creata fin dalla creazione del mondo si veda Pr 8,22-31. In seguito tale origine è stata attribuita alla Torah nonché ad altre cose importanti (per un elenco di tali elementi vedi m. ‘Abot 5,6).
vv. 35-36 Ecco la motivazione della sentenza: l’enumerazione, con il numero simbolico2, di 6 «opere di carità». L’elenco che enumera affamati, assetati, forestieri, nudi, malati e prigionieri ripete gli schemi tradizionali delle opere di misericordia previsti dalla Bibbia: Is 58,7; Tb 4,16 e Gb 22,6-7; 31,17.19.21.
Anche nella letteratura giudaica, si trovano motivi molto simili: vestire gli ignudi, ospitare i forestieri o i pellegrini e visitare gl’infermi. Gesù, nella motivazione determinante dell’ultima sorte, allude quindi all’insegnamento dell’AT e del giudaismo, ma supera l’antico nel senso seguente: le opere di carità ricordate sono una manifestazione del precetto fondamentale dell’amore, e non semplici opere benefiche compiute senza spirito di benevolenza.
D’altra parte, l’insegnamento di Gesù esclude lo spirito di calcolo con cui, a volte, quelle opere erano compiute nel giudaismo. Dio restava obbligato. Si compivano perché Dio non potesse fare a meno di premiarle. In altre parole, le opere ricordate non erano compiute per Dio, ma contro Dio, per legargli le mani e obbligarlo a premiare i suoi devoti. Un travisamento della vera religione.
La sentenza definitiva è dunque fondata sui motivi di servizio caritativo al prossimo bisognoso. Questo non va contro la predicazione di Gesù sulla necessità della conversione, sulla fede, sui comandamenti, sul precetto dell’amore, sulla purezza del cuore, sull’umiltà, sulla filiazione divina, sulla rinunzia, sulla necessità di portare la croce...? L’enumerazione che Gesù fa in questa occasione non è esclusiva, ma complementare: vuole mettere in evidenza l’importanza preponderante che ha, per lui, il precetto dell’amore manifestato appunto in queste opere. Non esclude il resto, e anzi, lo suppone.
Il Re Giudice si appropria al passivo di queste opere, che dichiara come riferite a lui, fatte alla sua stessa Persona.
vv. 37-39: Chi ha operato questo, è la moltitudine chiamata adesso dei «giusti». Essi hanno operato e basta; non hanno fatto indagine sui meritevoli di aiuto, né chi fossero gli aiutati. Le opere di carità ricordate hanno il merito di essere state compiute in onore di Gesù. Tanto quelli di destra come quelli di sinistra restano sorpresi davanti alla dichiarazione del giudice e si rivolgono a lui, esprimendo la loro meraviglia. In questo modo, si espone chiaramente un principio che abbatte molte barriere: le opere compiute per amore sono liberate da ogni genere di limiti che condizioni il loro valore. Sono premiate le opere compiute per amore del prossimo bisognoso.
Gesù si rivolge a tutti indistintamente, dimostrando così che, anche fuori dell’ambito visibile dei suoi discepoli, della sua Chiesa, vi può essere un vero regno e un vero «cristianesimo». La sentenza pronunziata per quelli che si trovano alla sua sinistra sta a indicare la separazione eterna da Cristo e, per conseguenza, dalla vita, senza che le sue parole facciano supporre una predestinazione alla condanna. La loro mancanza di amore, cosa personale, ha determinato la loro destinazione alle pene senza fine. Le parole di Gesù parlano della fissazione definitiva della sorte degli uomini in quel momento supremo.
«quando...»: i giusti, sorpresi , pongono alla motivazione della sentenza un’interrogazione perfettamente simmetrica, ripercorrendo le 6 opere della «giustizia» (cfr. Mt 6.3).
La domanda con buona probabilità è un espediente stilistico, come altre volte negli Evangeli, che serve a spezzare una esposizione monotona e a sottolineare un punto importante dell’argomento trattato. Inoltre, la ripetizione alla lettera anche di lunghi brani in una narrazione di tipo colloquiale è una caratteristica propria della narrativa orientale.
v. 40 La risposta del Re è l’affermazione decisiva di tutto il brano, introdotta dalla formula solenne: «Io il Dio Amen, il Fedele, parlo a voi».
«fratelli più piccoli»: rimanda in prima istanza ai discepoli, accolti come si accoglie il loro Signore (Mt 10,40-42). Continuando, i fratelli di Gesù sono coloro che si fanno piccoli per entrare nel regno (18,1-5); anche chi esegue la Volontà del Padre suo, è suo fratello e sorella e madre (12,50).
La Resurrezione inaugura la sua fraternità (28,10), che deve essere portata al mondo, essendo ormai «il primogenito tra molti fratelli» (Rm 8,29).
Chi operò la giustizia-carità ignorava tutto questo.
vv. 41-45 la seconda parte della scena è sviluppata in parallelismo antitetico con la prima. Lo stesso procedimento stilistico ricorre in 7,24-27.
La materia dell’azione giudiziale all’ultimo, non saranno le dottrine, la fede, la speranza, la santità, bensì tutte queste se presero corpo nella giustizia-carità ai fratelli. Ancora una volta la Tavola 2a della Legge santa, i doveri verso il prossimo, è assunta come criterio di giudizio; la Tavola Ia , i doveri verso Dio, è significativamente taciuta: «Chi ama il prossimo adempì la Legge» (Rm 13.8-10; Gal 5.14).
L’ultimo quadro può dunque riguardare il giudizio per l’umanità intera, soprattutto per quelli che non hanno conosciuto il Cristo, cioè né ebrei né cristiani: anche loro saranno giudicati dal Re Messia, non in base alle attese profetiche né alla fecondità evangelica, bensì con il criterio dell’attenzione all’uomo bisognoso. Infatti tutti gli interpellati reagiscono, dicendo di non aver mai visto il Cristo: fra loro però la differenza è data da un generoso servizio verso l’affamato, l’assetato, il nudo, il forestiero, il malato, il carcerato.
La novità proposta non sta nelle opere di misericordia, ma nell’identificazione del Messia con i suoi fratelli più piccoli: il criterio di giudizio è dunque cristologico, seppur implicitamente. Il destino eterno di ogni uomo si gioca quindi nel temporale rapporto di accoglienza o di rifiuto del Cristo: e ciò avviene nella persona di ogni uomo.
v. 46 «supplizio eterno... vita eterna»: il castigo e il premio sono «eterni», perché trattandosi dì un giudizio «finale», la sentenza che in esso si emette riveste carattere definitivo ed è irrevocabile.
La collocazione di questo capitolo in Matteo alla conclusione del discorso finale di Gesù fa pensare che esso sia stato inteso come l’ultima parola di Gesù ai suoi discepoli. Il cap. è di enorme importanza teologica.
In ultima analisi, è l’amore che determina se un uomo è buono o cattivo; se il nostro amore è attivo, l’insuccesso nel realizzare una moralità perfetta in altri campi sarà infrequente, e comunque sarà perdonato.
Ma non esiste nessun sostituto dell’amore attivo.
Antifona alla Comunione Sal 28,10-11
Re in eterno siede il Signore:
benedirà il suo popolo nella pace.
Il testo di oggi forma un’inclusione letteraria eucaristica, molto interessante, in quanto si usa per la Domenica del Battesimo del Signore e per la Domenica ultima, quindi al principio e al termine dell’arco grandioso detto Tempo per l’Anno. L’Orante alla fine del suo canto vuole confessare la fede e la gioia, riconoscendo e acclamando il suo Signore, il Vivente, quale Sovrano eterno. Qui l’eternità non è vista come un futuro, ma come un illimitato presente (v. l0b). Il Salmista gioisce per questo anche altre volte (10,37), in genere dopo un annuncio profetico (Ger 10,10). Il Signore regna come Sovrano dal suo trono inaccessibile, e tuttavia viene a unirsi al popolo suo, e questo pronome possessivo come sempre indica l’alleanza. Viene per benedirlo, e poiché «la benedizione torna sempre sul Benedicente e unisce a Lui il benedetto», fa comunicare quest’ultimo alla pace divina (v. 11b). Il rimando è alla «benedizione sacerdotale» di Nm 6,24-26; Sal 27,9. Paolo riprende questo tratto in Fil 4,7.
«Oggi qui», al termine benedetto dell’Anno della divina grazia, noi fedeli contempliamo in questo canto e in questa comunione la visione iniziale della nostra vera vita, la visione terminale del nostro pellegrinare sulla terra. Il Padre, il Sovrano eterno, il Re della pace e della verità, il Re Salvatore che dona la sua benedizione trasformante ai figli suoi benedetti, oggi una volta di più dona lo Spirito suo Tuttosanto e Buono e Vivificante nella Parola che Lo testimonia e nel Convito nuziale preparato per il Figlio.
Le preghiere di colletta:
Dio onnipotente ed eterno,
che hai voluto rinnovare tutte le cose
in Cristo tuo Figlio, Re dell’universo,
fa’ che ogni creatura, libera dalla schiavitù del peccato,
ti serva e ti lodi senza fine.
Per il nostro Signore...
La preghiera fa anamnesi che il Padre nel Figlio, che elesse a Re dell’universo, volle ricapitolare tutto (Ef 1,10), e con epiclesi chiede che la creazione intera, liberata dalla schiavitù del peccato e della corruzione, dia culto alla divina Maestà e giunga alla lode eterna.
La Colletta A:
O Padre, che hai posto il tuo Figlio
come unico re e pastore di tutti gli uomini,
per costruire nelle tormentate vicende della storia il tuo regno d’amore,
alimenta in noi la certezza di fede,
che un giorno, annientato anche l’ultimo nemico,
la morte, egli ti consegnerà l’opera della sua redenzione,
perché tu sia tutto in tutti.
Egli è Dio, e vive e regna con te ..
La preghiera confessa chiede e supplica il rafforzamento della fede della comunità cristiana nel Padre che consacrò il Figlio Sacerdote eterno come Re e Pastore unico per l’opera della nostra redenzione. Assogettando così l’intera creazione al suo dominio salvifico può riconsegnare al Padre il Regno che ha le note della verità, della vita, della santità, della grazia, della giustizia, della carità e della pace (cfr. la Prece eucaristica).
lunedì 17 novembre 2014
Abbazia Santa Maria di Pulsano
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