dom Luigi Gioia" Sei stato fedele nel poco, prendi parte alla gioia del tuo padrone"

XXXIII Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) (16/11/2014)
Vangelo: Mt 25,14-30
A prima vista sembra difficile riconoscere la logica evangelica in questa parabola e ciò già
riguardo al frutto atteso. La parabola del seme nel capitolo 13 del Vangelo Matteo dice infatti
che il seme gettato sulla buona terra produce il cento, il sessanta, il trenta per uno, mentre
in questa parabola il padrone non sembra attendere nulla di più dell'uno per uno! Da chi ha

ricevuto 5 talenti se ne attendono non 500, ma solo 5; da chi ha ricevuto 2 talenti, solo 2.
Non è certo la logica dell'abbondanza che caratterizza i frutti dell'azione di Dio negli uomini
nel Nuovo Testamento!
Ma la logica evangelica è difficilmente riconoscibile anche riguardo al tipo di relazione
che questa strana parabola dei talenti sembra presupporre. Si parla di un padrone e di servi,
sembra che si tratti di un contratto ben definito, un do ut des, "ti do perché tu mi dia in
ritorno". Per riprendere una classificazione ben nota nella tradizione spirituale, sembra che
essa descriva una relazione da servi o da mercenari, non da figli o da amici. Invece sappiamo
che il cuore del messaggio evangelico è che siamo non mercenari ma figli, non servi ma
amici: Vi ho chiamati amici e non servi, dice Gesù. Siamo figli e invitati a chiamare Dio
"Padre".
Si tratta dunque, come ogni volta che leggiamo la Parola, di interpretarla alla luce di tutta
la Scrittura e di lasciarsi interrogare soprattutto dai punti che sembrano contraddittori.
Partiamo dalla frase con la quale l'ultimo servitore cerca di giustificare la propria
negligenza con il suo padrone. Signore, io so che sei un uomo duro che mieti dove non hai
seminato e raccogli dove non hai sparso. Ho avuto paura e sono andato a nascondere il
tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo.
E' in causa qui la percezione che questo servitore si fa del suo padrone. Fin dall'inizio lo
ha giudicato come un uomo duro, come qualcuno che vuole solo approfittare di lui, vuole
sfruttarlo, tendergli un tranello, che gli mente o che comunque sicuramente non vuole il suo
vero bene. Non è sorprendente allora che subentri la paura ed il riflesso che sempre
accompagna la paura, quello cioè di nascondersi, di proteggersi, di chiudersi in se stessi. Ma
è soprattutto la frase conclusiva quella che fa più impressione: Ecco ciò che è tuo - dice il
servo. C'è la volontà di stabilire una differenza tra il mio e il tuo, di separarsi. C'è un rifiuto
di relazione, un rifiuto di cooperazione, un rifiuto di comunione.
Un tale comportamento ci invita a riflettere profondamente sull'immagine che ci
facciamo del Signore, su come lo percepiamo, su che tipo di relazione abbiamo con lui. C'è
una differenza fondamentale tra l'avere paura del Signore -la paura di cui parla l'ultimo
servo quando dice Ho avuto paura- e il timore del Signore evocato nella prima lettura
tratta dal libro dei Proverbi e dal salmo 127: La donna che teme Dio è da lodare. Oppure:
Ecco come è benedetto l'uomo che teme il Signore.
La paura del Signore paralizza, rinchiude in sé, acceca, intristisce, rende meschini e
sterili, come lo vediamo nell'atteggiamento dell'ultimo servitore. Il timore del Signore invece
rende beati: Beato chi teme il Signore. Il timore del Signore rende fecondi. Vediamo che i
figli si moltiplicano come i virgulti d'ulivo - dice ancora il salmo. Il timore del Signore
rende operosi, forti, coraggiosi, come questa donna della prima lettura che vediamo lavorare
volentieri, stendere la mano al povero, suscitare la lode della città.
Dobbiamo essere attenti in modo particolare al parallelo tra il timore del Signore e la
benedizione. Dice il salmo: Ecco come è benedetto l'uomo che teme il Signore. Chi teme il
Signore è benedetto dal Signore, cioè è reso fecondo, è amato, è ricompensato. Chi si
riconosce benedetto dal Signore, lo benedice in ritorno, cioè gli rende grazie, lo adora, vive
la sua vita in un trasporto di gratitudine che gli da ali, le ali che si acquistano quando ci si
sente amati. Quando ci si sente amati, non si cammina più, si vola. Quando si fanno le cose
per dare gioia a chi ci ama tutto è più leggero.
Allora il timore del Signore è una forma di gratitudine: riconosco quanto ho ricevuto dal
Signore, riconosco che tutto quello che ho e più ancora tutto quello che sono è un dono e ne
gioisco, ne rendo grazie. Il timore del Signore è una forma di gioia. Sapermi amato in questo
modo, sapermi colmato, vedere quale prezzo ho agli occhi del Signore, dà un senso alla mia
vita, dà una direzione, un dinamismo.
I primi due servitori hanno capito che il loro padrone era in realtà un padre e che i talenti
affidati loro non erano un investimento dal quale il padrone sperava di ricavare qualcosa,
ma erano un ‘poco'. Il padrone dice: Sei stato fedele nel poco. Ma questo ‘poco' è molto
importante, perché questi talenti erano solo l'occasione che il padre offriva loro di mostrare
un piccolo segno della loro fedeltà, del loro amore, della loro gratitudine. Il Signore non ci
chiede di fare grandi cose, si accontenta di piccoli segni. Come dice il salmo, non cerco cose
grandi, superiori alle mie forze: "Io non sono capace di grandi imprese ma cerco di fare
almeno quel ‘poco' che dà gioia al Signore".
Non vi è più grande fierezza in un figlio che nell'avere la possibilità, l'occasione di
manifestare a suo padre il proprio amore filiale e la propria gratitudine. I due primi servitori
hanno riconosciuto nel lascito di questi talenti il Padre e il dono e si sono donati in cambio,
felici di farlo, non per calcolo, ma per amore.
Paolo ci dice: Vi è più gioia nel dare che nel ricevere. Il dono dà gioia. In questo modo
hanno avuto la più grande di tutte le ricompense: non le città sulle quali esercitare il potere,
ma il fatto di aver dato gioia al loro padrone: Entra nella gioia del tuo padrone.
Questa parabola dei talenti troppo spesso è interpretata in maniera volontaristica, come
se noi dovessimo dare qualcosa al Signore per ricevere qualcosa in ricompensa. Non è
questo il senso di questa parabola. Essa vuole insegnarci soprattutto che abbiamo una
grande vocazione che è quella di dare gioia a Dio: Entra nella gioia del tuo padrone.
Solo il dono dà gioia a Dio. Nella gioia il Signore ci ha creati, ci ha dato la vita, il mondo,
una famiglia, una missione e soprattutto ci ha donati gli uni agli altri. Nella gioia siamo
invitati a riconoscere questi doni e, grazie a questa presa di coscienza, a lasciare che questi
doni fruttifichino, si moltiplichino, quasi senza farlo apposta, senza che la nostra mano
sinistra veda cosa fa la destra, senza contare, senza calcolare, senza capitalizzare (un talento,
due talenti, cinque talenti...), ma semplicemente temendo, amando, benedicendo la
sorgente della nostra vita.
Tutto questo in vista della più grande gioia che ci possa essere dato di vivere: poter un
giorno incrociare lo sguardo del Signore e costatare che, poveramente, facendo un ‘poco', sì,
facendo anche solo un ‘poco', gli abbiamo dato gioia, abbiamo saputo accogliere il suo
amore, lo abbiamo lasciato crescere in noi e diffondersi intorno a noi. Teniamo allora,
meditiamo, portiamo con noi questa frase: Bene, servo buono e fedele, sei stato fedele nel
poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone.

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