don Alberto Brignoli"Su, poche parole, e diamoci da fare!
XXXIII Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) (16/11/2014)
Vangelo: Mt 25,14-30
È troppo scontato interpretare la parabola dei talenti in chiave "vocazionale", ovvero come una bella esortazione da parte di Gesù a seguirlo, mettendo a frutto i doni che ha messo a nostra diposizione per il bene di tutti, in primis della nostra stessa vita. Questa interpretazione è
talmente assodata da averci condotti a pensare che "i talenti" che il padrone affida ai suoi servi siano le loro capacità, le loro abilità e le loro doti naturali, simboleggiate da una o più monete alle quali è dato appunto il nome di "talenti"; mentre invece è l'esatto contrario. Si tratta, cioè, di un'unità di misura (il talento) riguardante il peso dei metalli preziosi: un talento di metallo prezioso era talmente pesante (siamo nell'ordine dei 25 - 30 chilogrammi) che averne il possesso significava veramente avere una ricchezza tra le mani (pensate a un talento, ovvero 25 chilogrammi, di oro puro!). Da quando il Vangelo di Matteo si è diffuso in tutto l'Occidente fino ai nostri giorni, per antonomasia "avere un talento" significa avere con sé una dote preziosa, una capacità innata di fare qualcosa che si rivela un tesoro prezioso nelle mani di chi lo sa fare fruttare; per cui, mettere a frutto i doni naturali che il Signore ci ha dato significa rispondere alla sua chiamata ed essere suoi buoni seguitori. Appunto, come dicevo, un'interpretazione puramente vocazionale.
Ma non è questo il senso della parabola, perché altrimenti non ci si spiega come mai si trovi alla fine del Vangelo di Matteo e perché mai la si legga a conclusione dell'anno liturgico: se deve esortare ad essere discepoli seguaci di Cristo, va messa all'inizio del Vangelo e di un anno con il Signore, non alla fine! La chiave di interpretazione di questa parabola sta proprio qui: nella "fine". Questa parabola, insieme a quella che la precede (le dieci vergini) e a quella che la segue (il giudizio finale) forma il trittico "apocalittico" del capitolo 25 di Matteo, collocato alla conclusione dei discorsi di Gesù sulle realtà ultime del mondo; di fatto, esse chiudono i discorsi della vita pubblica di Gesù, dal momento che il capitolo 26 è il primo dei capitoli della vicenda di passione, morte e risurrezione di Gesù. Una sorta di testamento di Gesù, potremmo dire, nel quale egli ovviamente si preoccupa, alla fine di tutto (come fa un padre con i figli in punto di morte) di dire le cose che contano di più nella vita. Dal momento che la comunità dell'evangelista Matteo era convinta che il ritorno del Signore nella gloria fosse ormai alle porte (stimolata anche da una situazione storica drammatica, come quella immediatamente successiva alla distruzione di Gerusalemme e del suo tempio nel 70 dopo Cristo), l'evangelista o chi per lui è preoccupato di esortare la sua comunità a non farsi prendere dal panico e a non vivere "allo sbaraglio" o nell'agitazione, attendendo qualcosa che tra l'altro nessuno sa quando sarebbe avvenuto (è una costante di queste parabole, l'incertezza dei tempi). Per cui, Matteo invita i suoi fratelli ad andare all'essenziale della vita di fede, a puntare alle cose che contano, senza perdersi in vani discorsi, in chiacchere, in fuorvianti tentativi di depistaggio verso mode o atteggiamenti che lasciano il tempo che trovano, o ancor peggio in un ozio passivo che sa di depressione e di nichilismo qualunquista (della serie: "Chi me lo fa fare di impegnarmi per qualcosa, se poi arriva la fine del mondo?"). E per l'evangelista, le tre cose che contano sono l'amore verso Dio, cioè la preghiera (simboleggiata dall'olio che alimenta la lampada delle vergini sagge), l'amore verso i fratelli (ciò su cui saremo giudicati alla fine) e, nel bel mezzo, il tema della nostra parabola: la fedeltà al proprio lavoro.
Inutile perdersi in chiacchere, sembra dire Matteo: tiriamoci indietro le maniche e dimostriamo il nostro amore a Dio e ai fratelli prima di tutto facendo il nostro dovere quotidiano, senza pigrizia né oziosa rassegnazione. Perché la terra che ci è stata affidata, insieme anche a tanti strumenti costruiti da noi stessi e a capacità innate (chiamiamoli talenti, già che ci siamo), non ha bisogno di essere riempita di buche dove conficcare dentro le nostre possibilità e opportunità, in attesa di tempi migliori o di una fine ormai inesorabile: è una terra che va lavorata, è un mondo che va sfruttato, è un insieme di opportunità che vanno investite, tante o poche che siano, perché fino all'ultimo possano fruttare e offrire risultati che vadano a giovamento di tutti. Filosofeggiare tutto il giorno oziosamente, senza darsi da fare per costruire il Regno di Dio che ci è stato affidato, per di più giustificandoci dietro laconiche affermazioni del tipo "Io so già come va a finire", oppure "Ho già capito tutto della vita", o peggio ancora "So com'è Dio, non c'è tanto da scherzare con lui", non solo non porta a nulla, ma non corrisponde a ciò che Dio da sempre vuole da noi, ossia che ci diamo da fare perché il Regno di Dio venga e cresca in mezzo a noi.
Sì, perché il Regno di Dio non appare qua o là come un fantasma (sono sempre espressioni di Matteo), per cui in base alle sue presunte apparizioni dobbiamo corrergli dietro ed entusiasmarci al momento crollando poi nell'accidia e nella pigrizia: il Regno di Dio si costruisce con costanza, giorno per giorno, anche quando costa, anche quando il talento che ci è affidato è più un peso enorme che una moneta preziosa, anche quando il Signore non risponde, anche quando sembra che tutto vada male, anche quando c'è la crisi, o peggio ancora quando pretendiamo di sapere già tutto di Dio, per cui non ci preoccupiamo più di tanto di andargli incontro.
Il Regno di Dio, e il suo Re in modo particolare, ha bisogno di lavoratori, non di ciarlatani: non sa proprio che farsene, di gente che si sente "di casa" con Dio e lo sgrida imponendogli di aprire la porta; né di gente che disprezza i poveri e poi si giustifica dicendo "Quando mai, Signore, eri povero e non ti ho aiutato?"; tantomeno, di gente che pretende di conoscerlo al punto di sapere che "è un duro che miete dove non ha seminato", per cui ne prende le misure giocando con lui a nascondino.
Con Dio i giochetti non valgono proprio: o lo segui e lo ami con sincerità, e glielo dimostri dandoti da fare per il suo Regno, o da quel Regno sarai sbattuto fuori in maniera inesorabile e inappellabile.
E speriamo non tocchi a noi...
Vangelo: Mt 25,14-30
È troppo scontato interpretare la parabola dei talenti in chiave "vocazionale", ovvero come una bella esortazione da parte di Gesù a seguirlo, mettendo a frutto i doni che ha messo a nostra diposizione per il bene di tutti, in primis della nostra stessa vita. Questa interpretazione è
talmente assodata da averci condotti a pensare che "i talenti" che il padrone affida ai suoi servi siano le loro capacità, le loro abilità e le loro doti naturali, simboleggiate da una o più monete alle quali è dato appunto il nome di "talenti"; mentre invece è l'esatto contrario. Si tratta, cioè, di un'unità di misura (il talento) riguardante il peso dei metalli preziosi: un talento di metallo prezioso era talmente pesante (siamo nell'ordine dei 25 - 30 chilogrammi) che averne il possesso significava veramente avere una ricchezza tra le mani (pensate a un talento, ovvero 25 chilogrammi, di oro puro!). Da quando il Vangelo di Matteo si è diffuso in tutto l'Occidente fino ai nostri giorni, per antonomasia "avere un talento" significa avere con sé una dote preziosa, una capacità innata di fare qualcosa che si rivela un tesoro prezioso nelle mani di chi lo sa fare fruttare; per cui, mettere a frutto i doni naturali che il Signore ci ha dato significa rispondere alla sua chiamata ed essere suoi buoni seguitori. Appunto, come dicevo, un'interpretazione puramente vocazionale.
Ma non è questo il senso della parabola, perché altrimenti non ci si spiega come mai si trovi alla fine del Vangelo di Matteo e perché mai la si legga a conclusione dell'anno liturgico: se deve esortare ad essere discepoli seguaci di Cristo, va messa all'inizio del Vangelo e di un anno con il Signore, non alla fine! La chiave di interpretazione di questa parabola sta proprio qui: nella "fine". Questa parabola, insieme a quella che la precede (le dieci vergini) e a quella che la segue (il giudizio finale) forma il trittico "apocalittico" del capitolo 25 di Matteo, collocato alla conclusione dei discorsi di Gesù sulle realtà ultime del mondo; di fatto, esse chiudono i discorsi della vita pubblica di Gesù, dal momento che il capitolo 26 è il primo dei capitoli della vicenda di passione, morte e risurrezione di Gesù. Una sorta di testamento di Gesù, potremmo dire, nel quale egli ovviamente si preoccupa, alla fine di tutto (come fa un padre con i figli in punto di morte) di dire le cose che contano di più nella vita. Dal momento che la comunità dell'evangelista Matteo era convinta che il ritorno del Signore nella gloria fosse ormai alle porte (stimolata anche da una situazione storica drammatica, come quella immediatamente successiva alla distruzione di Gerusalemme e del suo tempio nel 70 dopo Cristo), l'evangelista o chi per lui è preoccupato di esortare la sua comunità a non farsi prendere dal panico e a non vivere "allo sbaraglio" o nell'agitazione, attendendo qualcosa che tra l'altro nessuno sa quando sarebbe avvenuto (è una costante di queste parabole, l'incertezza dei tempi). Per cui, Matteo invita i suoi fratelli ad andare all'essenziale della vita di fede, a puntare alle cose che contano, senza perdersi in vani discorsi, in chiacchere, in fuorvianti tentativi di depistaggio verso mode o atteggiamenti che lasciano il tempo che trovano, o ancor peggio in un ozio passivo che sa di depressione e di nichilismo qualunquista (della serie: "Chi me lo fa fare di impegnarmi per qualcosa, se poi arriva la fine del mondo?"). E per l'evangelista, le tre cose che contano sono l'amore verso Dio, cioè la preghiera (simboleggiata dall'olio che alimenta la lampada delle vergini sagge), l'amore verso i fratelli (ciò su cui saremo giudicati alla fine) e, nel bel mezzo, il tema della nostra parabola: la fedeltà al proprio lavoro.
Inutile perdersi in chiacchere, sembra dire Matteo: tiriamoci indietro le maniche e dimostriamo il nostro amore a Dio e ai fratelli prima di tutto facendo il nostro dovere quotidiano, senza pigrizia né oziosa rassegnazione. Perché la terra che ci è stata affidata, insieme anche a tanti strumenti costruiti da noi stessi e a capacità innate (chiamiamoli talenti, già che ci siamo), non ha bisogno di essere riempita di buche dove conficcare dentro le nostre possibilità e opportunità, in attesa di tempi migliori o di una fine ormai inesorabile: è una terra che va lavorata, è un mondo che va sfruttato, è un insieme di opportunità che vanno investite, tante o poche che siano, perché fino all'ultimo possano fruttare e offrire risultati che vadano a giovamento di tutti. Filosofeggiare tutto il giorno oziosamente, senza darsi da fare per costruire il Regno di Dio che ci è stato affidato, per di più giustificandoci dietro laconiche affermazioni del tipo "Io so già come va a finire", oppure "Ho già capito tutto della vita", o peggio ancora "So com'è Dio, non c'è tanto da scherzare con lui", non solo non porta a nulla, ma non corrisponde a ciò che Dio da sempre vuole da noi, ossia che ci diamo da fare perché il Regno di Dio venga e cresca in mezzo a noi.
Sì, perché il Regno di Dio non appare qua o là come un fantasma (sono sempre espressioni di Matteo), per cui in base alle sue presunte apparizioni dobbiamo corrergli dietro ed entusiasmarci al momento crollando poi nell'accidia e nella pigrizia: il Regno di Dio si costruisce con costanza, giorno per giorno, anche quando costa, anche quando il talento che ci è affidato è più un peso enorme che una moneta preziosa, anche quando il Signore non risponde, anche quando sembra che tutto vada male, anche quando c'è la crisi, o peggio ancora quando pretendiamo di sapere già tutto di Dio, per cui non ci preoccupiamo più di tanto di andargli incontro.
Il Regno di Dio, e il suo Re in modo particolare, ha bisogno di lavoratori, non di ciarlatani: non sa proprio che farsene, di gente che si sente "di casa" con Dio e lo sgrida imponendogli di aprire la porta; né di gente che disprezza i poveri e poi si giustifica dicendo "Quando mai, Signore, eri povero e non ti ho aiutato?"; tantomeno, di gente che pretende di conoscerlo al punto di sapere che "è un duro che miete dove non ha seminato", per cui ne prende le misure giocando con lui a nascondino.
Con Dio i giochetti non valgono proprio: o lo segui e lo ami con sincerità, e glielo dimostri dandoti da fare per il suo Regno, o da quel Regno sarai sbattuto fuori in maniera inesorabile e inappellabile.
E speriamo non tocchi a noi...
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