Ermes Ronchi"Il peccato più grande? Smarrire lo sguardo di Dio"

XXXIV Domenica
Tempo Ordinario - Cristo Re
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Quando il Figlio dell'uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, sederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri. (...) Allora i giusti gli risponderanno: "Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo
vestito? Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?”. E il re risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me”».
Avevo fame, avevo sete, ero straniero, nudo, malato, in carcere... Dal Vangelo emerge un fatto straordinario: lo sguardo di Gesù si posa sempre, in primo luogo, sul bisogno dell'uomo, sulla sua povertà e fragilità. E dopo la povertà, il suo sguardo va alla ricerca del bene che circola nelle vite: mi hai dato pane, acqua, un sorso di vita, e non già, come ci saremmo aspettati, alla ricerca dei peccati e degli errori dell'uomo. Ed elenca sei opere buone che rispondono alla domanda su cui si regge tutta la Bibbia: che cosa hai fatto di tuo fratello?
Quelli che Gesù evidenzia non sono grandi gesti, ma gesti potenti, perché fanno vivere, perché nascono da chi ha lo stesso sguardo di Dio.
Grandioso capovolgimento di prospettive: Dio non guarda il peccato commesso, ma il bene fatto. Sulle bilance di Dio il bene pesa di più. Bellezza della fede: la luce è più forte del buio; una spiga di grano vale più della zizzania del cuore.
Ed ecco il giudizio: che cosa rimane quando non rimane più niente? Rimane l'amore, dato e ricevuto. In questa scena potente e drammatica, che poi è lo svelamento della verità ultima del vivere, Gesù stabilisce un legame così stretto tra sé e gli uomini, da arrivare fino a identificarsi con loro: quello che avete fatto a uno dei miei fratelli, l'avete fatto a me!
Gesù sta pronunciando una grandiosa dichiarazione d'amore per l'uomo: io vi amo così tanto, che se siete malati è la mia carne che soffre, se avete fame sono io che ne patisco i morsi, e se vi offrono aiuto sento io tutte le mie fibre gioire e rivivere.
Gli uomini e le donne sono la carne di Cristo. Finché ce ne sarà uno solo ancora sofferente, lui sarà sofferente.
Nella seconda parte del racconto ci sono quelli mandati via, perché condannati. Che male hanno commesso? Il loro peccato è non aver fatto niente di bene. Non sono stati cattivi o violenti, non hanno aggiunto male su male, non hanno odiato: semplicemente non hanno fatto nulla per i piccoli della terra, indifferenti.
Non basta essere buoni solo interiormente e dire: io non faccio nulla di male. Perché si uccide anche con il silenzio, si uccide anche con lo stare alla finestra. Non impegnarsi per il bene comune, per chi ha fame o patisce ingiustizia, stare a guardare, è già farsi complici del male, della corruzione, del peccato sociale, delle mafie.
Il contrario esatto dell'amore non è allora l'odio, ma l'indifferenza, che riduce al nulla il fratello: non lo vedi, non esiste, per te è un morto che cammina.
Questo atteggiamento papa Francesco l'ha definito «globalizzazione dell'indifferenza». Il male più grande è aver smarrito lo sguardo, l'attenzione, il cuore di Dio fra noi.
(Letture: Ezechiele 34,11-12.15-17; Salmo 22; 1 Corinzi 15,20-26a.28; Matteo 25,31-46)

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