Da CIPRIANI SETTIMO"Andarono i due discepoli e videro dove abitava e si fermarono presso di lui"
18 gennaio 2015 | 2a Domenica - T. Ordinario B | Appunti per la Lectio
L'idea di fondo del brano di Vangelo (Gv 1,35-42) di questa seconda Domenica del tempo ordinario, collegato con la prima lettura che ci descrive la vocazione di Samuele e la prontezza della sua risposta all'appello che gli veniva dall'alto (1 Sam 3,3b-10.19), mi sembra quella della "chiamata" e, più ancora, della "sequela".
Del resto, direi che le due cose sono il duplice aspetto di una
unica realtà: si segue qualcuno, o anche qualcosa, nella misura in cui ci sentiamo come interpellati dalla realtà che ci sta di fronte, dai valori che essa rappresenta, dalla suggestione misteriosa che sa comunicare ed esprimere.
E non è sempre vero che ci sia prima una chiamata e poi una risposta; talvolta, anzi, la risposta è già come sospesa in aria, a livello di desiderio inconscio, di generica disponibilità ad amare e a servire, in attesa che da qualche parte venga un appello, proprio quello che ci sembrava di attendere da sempre. In questo caso la "chiamata" ci afferra anche più profondamente, senza residui di opposizioni, proprio perché misteriosamente era già operante in noi in quella apertura e disponibilità del nostro spirito, di cui si è appena detto.
"Ecco l'Agnello di Dio!"
Proprio in questo sfondo di sentimenti e di attese mi sembra che si collochi la pagina del Vangelo di Giovanni, che ci descrive l'incontro di Gesù con tre dei suoi futuri apostoli. È una pagina di una freschezza incantevole, che sa comunicare anche a noi, che la rileggiamo a così grande distanza di tempo, quello stesso senso di stupore e di meraviglia che afferrò allora i primi tre discepoli del Signore: Andrea, Giovanni e Pietro.
L'evangelista raccoglie l'episodio nello spazio di una giornata ("il giorno dopo": 1,35), secondo un probabile schema "settimanale" delle cose qui raccontate, forse per mettere in parallelo l'opera creatrice di Genesi 1 (i "sette" giorni della creazione) e l'opera redentrice iniziata da Cristo.
L'episodio, poi, si divide in due parti: la prima ci descrive l'incontro, provocato da Giovanni Battista, di due dei suoi discepoli con Gesù (vv. 35-39); la seconda l'incontro di Pietro con Gesù, provocato da Andrea (vv. 40-42). Ciò che vi è di comune nei due quadretti narrativi è il fatto che Gesù viene incontrato dai suoi discepoli solo tramite altre persone, che, in qualche maniera, ne hanno intravisto il mistero o ne hanno fatto una, sia pure incipiente, esperienza. Senza escludere un intervento diretto di Cristo nell'intimo delle coscienze, come ci viene subito dopo detto di Filippo (v. 43), rimane la constatazione che più ordinariamente gli appelli di Dio passano attraverso la testimonianza dei nostri fratelli.
Pur a grande distanza di tempo, l'evangelista (perché è quasi certamente lui uno dei "due discepoli" che seguirono il Maestro: v. 40) ricorda con esattezza matematica l'ora precisa di quell'incontro: "Erano circa le quattro del pomeriggio" (v. 39). Segno evidente che esso fu determinante nella sua vita e rappresenta, anche adesso che scrive, qualcosa di indimenticabile.
Anche il giorno precedente Giovanni aveva reso la sua testimonianza al Cristo, in una forma addirittura più ricca, iniziandola con le stesse parole: "Ecco l'Agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo!" (v. 29). Queste parole allora forse non dissero gran che ai due discepoli: ripetute intenzionalmente dal loro maestro, adesso significano per loro qualcosa o, almeno, essi sono messi in un atteggiamento di curiosità e di ricerca: "I due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù" (v. 37).
Che cosa volesse precisamente dire san Giovanni con quella espressione, non è troppo chiaro. C'è chi ha pensato all'agnello pasquale di Esodo 12,1-28; chi al "servo sofferente di Jahvè", il quale "era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca" (Is 53,7); chi all'oblazione quotidiana di un agnello nel tempio (Es 29,38-46).
Come si vede, è un'espressione dalle molteplici risonanze, di cui non conviene eliminarne alcuna. Al centro, però, sta l'idea del Cristo come "servo sofferente" che, in virtù del suo "sacrificio" e della sua innocenza, riscatterà il "mondo" intero "vincendo" e "consumando", con la sua immensa capacità di amare, il "peccato" di tutti gli uomini e di tutti i tempi.
Il "sacrificio" del Cristo, in realtà, inizia proprio con questo suo spontaneo assoggettarsi al rito battesimale di Giovanni, mediante il quale lui, il "solo Santo", si professa solidale con il popolo peccatore. In questa prospettiva è evidente che, nel momento stesso in cui Gesù si abbassava davanti a Giovanni per ricevere il battesimo, il "più grande" era proprio lui, gli passava veramente "avanti", come dichiara il Battista (cf 1,30-31): però bisognava andare oltre le apparenze, tentare di penetrare il "mistero", per poter riconoscere in quell'uomo, in tutto uguale agli altri, il Figlio stesso di Dio, il "Salvatore del mondo" (cf 4,42). È quanto Giovanni tenta di fare con i migliori dei suoi discepoli, senza nessun sentimento di rivalità qualora anche lo volessero abbandonare, convinto com'è che Gesù "deve crescere, e lui invece diminuire" (3,30).
"Gesù, vedendo che lo seguivano, disse: "Che cercate?""
I due si mettono dunque a "seguire" Gesù, senza nessun progetto concreto, spinti solo dal desiderio e dalla curiosità. È interessante il dialogo, che segue, fra Gesù e i due discepoli: esso non è fatto tanto di grandi elucubrazioni teologiche, quanto di cose semplici e concrete. Tutto si svolge sul piano del confronto personale e dell'esperienza: "Che cercate?... Rabbi, dove abiti?... Venite e vedrete..." (vv. 38-39). È l'esperienza di Gesù che fa nascere la fede in lui, che poi diventa contagiosa, come vedremo subito nel caso di Andrea.
R. Bultmann fa notare che le prime parole di Gesù, riportate nel Vangelo di Giovanni, sono rappresentate proprio da questa emblematica domanda: "Che cercate?". Essa è rivolta non soltanto ai primi discepoli, ma ai discepoli di tutti i tempi; ed è un invito sia a considerare la "sequela" di Cristo come una costante "ricerca", sia a verificare continuamente i motivi e i contenuti di questa ricerca.
Il porci davanti a Cristo in atteggiamento di costante "ricerca" significa che siamo coscienti che il suo "mistero" ci trascende all'infinito, che la conoscenza o l'esperienza che potremmo avere di lui saranno sempre limitate, che solo la luce dello Spirito, che è "lo Spirito di verità", "ci guiderà alla verità tutta intera" (Gv 16,13), come Gesù stesso ci ha promesso prima di ascendere al Padre. Questo ci consentirà di essere più umili davanti al mistero, e perciò anche più disponibili a tutte le luci nuove e alle esperienze nuove che ci dilatano gli spazi della fede.
D'altra parte, questo sforzo di continua "ricerca" ci permetterà di vagliare e di verificare sempre da capo i "motivi" per cui seguiamo Gesù. Anche la folla, che aveva visto la moltiplicazione dei pani, si dà alla ricerca di Gesù dopo che egli si era ritirato sul monte e li aveva preceduti sull'altra riva del lago. Però egli li rimprovera, dicendo che lo seguivano per motivi non sinceri: "In verità, in verità vi dico, voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati. Procuratevi non il cibo che perisce, ma quello che dura per la vita eterna, e che il Figlio dell'uomo vi darà" (Gv 6,26-27). In realtà quella gente, più che cercare Gesù attraverso i "segni" del divino che si manifestavano in lui, "cercava se stessa" per un certo vantaggio che aveva esperimentato nel mangiare del pane del miracolo.
È quello che può capitare a tutti noi quando, invece di adeguarci alla misura di Cristo, lo costringiamo ad abbassarsi alla nostra statura, oppure riduciamo il Vangelo a giustificazione delle nostre scelte, o delle nostre ideologie, o dei nostri comportamenti. Perciò abbiamo bisogno che Gesù ci interpelli sempre da capo: "Che cercate?".
"Maestro, dove abiti?"
La sincerità della ricerca dei due discepoli è messa in evidenza dalla loro risposta: "Maestro, dove abiti?" (v. 38). Tanto poco essi sono disposti a ridurre Gesù alla loro misura, che vogliono passare del tempo con lui per conoscerlo meglio, per diventare amici, per farne esperienza, come dice meglio anche il seguito del racconto: "Andarono dunque e videro dove abitava, e quel giorno si fermarono presso di lui" (v. 39).
L'espressione che abbiamo tradotto: "Dove abiti?", nel vocabolario di Giovanni ha un significato più profondo: il verbo mènein, infatti, ordinariamente dice un reciproco "rimanere", come di un amico presso un amico, una reciproca "immanenza" con partecipazione di vita, di gioia, di conoscenza. Si pensi semplicemente all'invito di Gesù nel contesto dell'allegoria della vite e dei tralci: "Rimanete in me ed io in voi. Come il tralcio non può far frutto da se stesso, se non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in me... Chi rimane in me ed io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla..." (Gv 15,4-5).
Si tratta dunque di un "abitare", che permette a degli ospiti-amici di fare un'esperienza che arrivi non solo ad afferrare totalmente l'altro, a conoscerlo, ma addirittura a sentirlo come elemento "vitale" del proprio esistere: il tralcio, che "non rimane nella vite", è destinato a "disseccarsi" e ad essere tagliato e gettato nel fuoco (Gv 15,6). Perciò l'espressione: "Dove abiti?", potrebbe essere parafrasata così: "Maestro, mostraci chi sei, facci conoscere il mistero della tua persona, perché possiamo anche noi diventare tuoi amici". La risposta di Gesù è precisamente in questo senso: "Venite e vedrete" (v. 39), cioè fate l'esperienza di quello che sono e che posso "significare" per voi, per dare un senso nuovo alla vostra vita, che sarà ormai da vivere insieme a me.
Andrea "incontrò per primo suo fratello Simone"
La seconda parte del brano ci descrive l'incontro di Pietro con Gesù ad opera di Andrea (vv. 41-42).
In questo momento non ci interessa tanto di approfondire quella che sarà la futura missione di Pietro nella Chiesa e che viene espressa dal cambiamento di nome ("Ti chiamerai Cefa": cf Mt 16,18), quanto di cogliere altri elementi costitutivi della "chiamata", che è il tema di fondo di tutto il brano.
E mi sembra che un elemento di primaria importanza, come abbiamo già accennato, sia rappresentato dalla carica "contagiosa" di colui che è stato chiamato: chi ha scoperto Cristo come colui che dà senso alla vita e apre il cuore degli uomini all'amore e alla donazione, non può non comunicare la sua scoperta agli altri! È quanto fa Andrea nei riguardi del fratello Simone (v. 41); è quanto farà poco dopo anche Filippo nei riguardi di Natanaele (vv. 45-46). La "chiamata" di Dio passa più comunemente attraverso la "mediazione" di fratelli che, per primi, hanno fatto un'intensa esperienza dei valori della fede e dell'amore: perciò non potrà mai essere un fatto né "isolato", né "isolante"!
E questo ci richiama ad un altro elemento costitutivo della "chiamata", cioè la sua dimensione "comunitaria". È quanto vediamo nel caso di Simone, a cui Gesù cambia il nome in quello di Cefa, cioè "pietra", "roccia", per designare la sua futura funzione nella Chiesa; su Pietro, come "roccia" di fondamento e di unificazione di tutto l'edificio, Cristo "costruirà" appunto la sua Chiesa (Mt 16,18). Se questo è evidente nel caso di Pietro, è altrettanto vero per qualsiasi altra chiamata, anche la più umile, nella Chiesa. Lo ricordava san Paolo ai cristiani di Corinto, quando scriveva loro che ogni dono e "manifestazione dello Spirito è per il bene comune" (1 Cor 12,7).
"Tu, seguimi"
Si sarà notato come nella nostra pericope si ripete con insistenza il verbo "seguire" (vv. 37.38.40.43). Collocato nello sfondo della "chiamata", esso sta a significare il distacco del credente dai suoi punti di sicurezza, dai suoi progetti, dall'immobilismo dei suoi schemi e delle sue abitudini, per intraprendere un lungo ed avventuroso cammino, che Cristo solo sa dove potrà terminare e per dove potrà passare. E non è detto che sia sempre un cammino bello, o facile, o umanamente desiderabile!
Proprio come quello che, al termine del Vangelo di Giovanni, Gesù fa intravedere a Pietro, a cui precedentemente aveva dato il compito di "pascere" il suo gregge: ""In verità, in verità ti dico, quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo, e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi". Questo gli disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E detto questo aggiunse: "Seguimi"" (Gv 21,18-19).
"Chiamata" e "sequela": due termini che si integrano nel brano di Vangelo odierno, e in tutta la trama del racconto biblico: da Abramo, a Mosè, a Samuele, agli Apostoli, a Maria. È una storia che incomincia sempre da capo per ognuno di noi, dalla più grande chiamata, che è quella alla fede, a tutte le ulteriori chiamate che possono risuonare nella nostra vita come ulteriore specificazione del primo appello a credere e ad amare.
Quello che importa è saper "rispondere" con un desiderio tormentoso di "ricerca", che ci porti sempre avanti nel cammino e nella "sequela" di Cristo, dovunque a lui piaccia di "andare". Superando, ovviamente, tutti gli "ostacoli" che si frappongono ad una generosa "sequela".
"Glorificate Dio nel vostro corpo"
Fra questi possibili ostacoli è da collocare la tentazione costante, che ogni uomo sente acutamente in se stesso, di disperdersi nella sua capacità di amore e di donazione. La "impudicizia", o "fornicazione", a cui richiama san Paolo nella seconda lettura, e che esprime qualsiasi forma di ricerca egoistica di se stesso nell'uso della propria o altrui sessualità, al di fuori del matrimonio, è autentica chiusura a Dio e alle sue esigenze di "liberazione" integrale del cuore dell'uomo per aderire a lui solamente.
Di qui l'accorato richiamo di san Paolo ai cristiani di Corinto, che per la loro precedente pratica di vita pagana erano particolarmente inclini a simili degenerazioni: "Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo?... Fuggite la fornicazione!... Glorificate dunque Dio nel vostro corpo" (1 Cor 6,15.18.20).
La "sequela" di Cristo, "umile e casto", per ognuno di noi, qualunque sia lo stato della nostra vita, esige che anche il nostro "corpo" sia espressione della sua "signoria" sopra di noi. San Paolo altrove ci insegna che è precisamente nel nostro "corpo" che celebriamo la prima e più vera "liturgia" al Signore.
Da CIPRIANI S
L'idea di fondo del brano di Vangelo (Gv 1,35-42) di questa seconda Domenica del tempo ordinario, collegato con la prima lettura che ci descrive la vocazione di Samuele e la prontezza della sua risposta all'appello che gli veniva dall'alto (1 Sam 3,3b-10.19), mi sembra quella della "chiamata" e, più ancora, della "sequela".
Del resto, direi che le due cose sono il duplice aspetto di una
unica realtà: si segue qualcuno, o anche qualcosa, nella misura in cui ci sentiamo come interpellati dalla realtà che ci sta di fronte, dai valori che essa rappresenta, dalla suggestione misteriosa che sa comunicare ed esprimere.
E non è sempre vero che ci sia prima una chiamata e poi una risposta; talvolta, anzi, la risposta è già come sospesa in aria, a livello di desiderio inconscio, di generica disponibilità ad amare e a servire, in attesa che da qualche parte venga un appello, proprio quello che ci sembrava di attendere da sempre. In questo caso la "chiamata" ci afferra anche più profondamente, senza residui di opposizioni, proprio perché misteriosamente era già operante in noi in quella apertura e disponibilità del nostro spirito, di cui si è appena detto.
"Ecco l'Agnello di Dio!"
Proprio in questo sfondo di sentimenti e di attese mi sembra che si collochi la pagina del Vangelo di Giovanni, che ci descrive l'incontro di Gesù con tre dei suoi futuri apostoli. È una pagina di una freschezza incantevole, che sa comunicare anche a noi, che la rileggiamo a così grande distanza di tempo, quello stesso senso di stupore e di meraviglia che afferrò allora i primi tre discepoli del Signore: Andrea, Giovanni e Pietro.
L'evangelista raccoglie l'episodio nello spazio di una giornata ("il giorno dopo": 1,35), secondo un probabile schema "settimanale" delle cose qui raccontate, forse per mettere in parallelo l'opera creatrice di Genesi 1 (i "sette" giorni della creazione) e l'opera redentrice iniziata da Cristo.
L'episodio, poi, si divide in due parti: la prima ci descrive l'incontro, provocato da Giovanni Battista, di due dei suoi discepoli con Gesù (vv. 35-39); la seconda l'incontro di Pietro con Gesù, provocato da Andrea (vv. 40-42). Ciò che vi è di comune nei due quadretti narrativi è il fatto che Gesù viene incontrato dai suoi discepoli solo tramite altre persone, che, in qualche maniera, ne hanno intravisto il mistero o ne hanno fatto una, sia pure incipiente, esperienza. Senza escludere un intervento diretto di Cristo nell'intimo delle coscienze, come ci viene subito dopo detto di Filippo (v. 43), rimane la constatazione che più ordinariamente gli appelli di Dio passano attraverso la testimonianza dei nostri fratelli.
Pur a grande distanza di tempo, l'evangelista (perché è quasi certamente lui uno dei "due discepoli" che seguirono il Maestro: v. 40) ricorda con esattezza matematica l'ora precisa di quell'incontro: "Erano circa le quattro del pomeriggio" (v. 39). Segno evidente che esso fu determinante nella sua vita e rappresenta, anche adesso che scrive, qualcosa di indimenticabile.
Anche il giorno precedente Giovanni aveva reso la sua testimonianza al Cristo, in una forma addirittura più ricca, iniziandola con le stesse parole: "Ecco l'Agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo!" (v. 29). Queste parole allora forse non dissero gran che ai due discepoli: ripetute intenzionalmente dal loro maestro, adesso significano per loro qualcosa o, almeno, essi sono messi in un atteggiamento di curiosità e di ricerca: "I due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù" (v. 37).
Che cosa volesse precisamente dire san Giovanni con quella espressione, non è troppo chiaro. C'è chi ha pensato all'agnello pasquale di Esodo 12,1-28; chi al "servo sofferente di Jahvè", il quale "era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca" (Is 53,7); chi all'oblazione quotidiana di un agnello nel tempio (Es 29,38-46).
Come si vede, è un'espressione dalle molteplici risonanze, di cui non conviene eliminarne alcuna. Al centro, però, sta l'idea del Cristo come "servo sofferente" che, in virtù del suo "sacrificio" e della sua innocenza, riscatterà il "mondo" intero "vincendo" e "consumando", con la sua immensa capacità di amare, il "peccato" di tutti gli uomini e di tutti i tempi.
Il "sacrificio" del Cristo, in realtà, inizia proprio con questo suo spontaneo assoggettarsi al rito battesimale di Giovanni, mediante il quale lui, il "solo Santo", si professa solidale con il popolo peccatore. In questa prospettiva è evidente che, nel momento stesso in cui Gesù si abbassava davanti a Giovanni per ricevere il battesimo, il "più grande" era proprio lui, gli passava veramente "avanti", come dichiara il Battista (cf 1,30-31): però bisognava andare oltre le apparenze, tentare di penetrare il "mistero", per poter riconoscere in quell'uomo, in tutto uguale agli altri, il Figlio stesso di Dio, il "Salvatore del mondo" (cf 4,42). È quanto Giovanni tenta di fare con i migliori dei suoi discepoli, senza nessun sentimento di rivalità qualora anche lo volessero abbandonare, convinto com'è che Gesù "deve crescere, e lui invece diminuire" (3,30).
"Gesù, vedendo che lo seguivano, disse: "Che cercate?""
I due si mettono dunque a "seguire" Gesù, senza nessun progetto concreto, spinti solo dal desiderio e dalla curiosità. È interessante il dialogo, che segue, fra Gesù e i due discepoli: esso non è fatto tanto di grandi elucubrazioni teologiche, quanto di cose semplici e concrete. Tutto si svolge sul piano del confronto personale e dell'esperienza: "Che cercate?... Rabbi, dove abiti?... Venite e vedrete..." (vv. 38-39). È l'esperienza di Gesù che fa nascere la fede in lui, che poi diventa contagiosa, come vedremo subito nel caso di Andrea.
R. Bultmann fa notare che le prime parole di Gesù, riportate nel Vangelo di Giovanni, sono rappresentate proprio da questa emblematica domanda: "Che cercate?". Essa è rivolta non soltanto ai primi discepoli, ma ai discepoli di tutti i tempi; ed è un invito sia a considerare la "sequela" di Cristo come una costante "ricerca", sia a verificare continuamente i motivi e i contenuti di questa ricerca.
Il porci davanti a Cristo in atteggiamento di costante "ricerca" significa che siamo coscienti che il suo "mistero" ci trascende all'infinito, che la conoscenza o l'esperienza che potremmo avere di lui saranno sempre limitate, che solo la luce dello Spirito, che è "lo Spirito di verità", "ci guiderà alla verità tutta intera" (Gv 16,13), come Gesù stesso ci ha promesso prima di ascendere al Padre. Questo ci consentirà di essere più umili davanti al mistero, e perciò anche più disponibili a tutte le luci nuove e alle esperienze nuove che ci dilatano gli spazi della fede.
D'altra parte, questo sforzo di continua "ricerca" ci permetterà di vagliare e di verificare sempre da capo i "motivi" per cui seguiamo Gesù. Anche la folla, che aveva visto la moltiplicazione dei pani, si dà alla ricerca di Gesù dopo che egli si era ritirato sul monte e li aveva preceduti sull'altra riva del lago. Però egli li rimprovera, dicendo che lo seguivano per motivi non sinceri: "In verità, in verità vi dico, voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati. Procuratevi non il cibo che perisce, ma quello che dura per la vita eterna, e che il Figlio dell'uomo vi darà" (Gv 6,26-27). In realtà quella gente, più che cercare Gesù attraverso i "segni" del divino che si manifestavano in lui, "cercava se stessa" per un certo vantaggio che aveva esperimentato nel mangiare del pane del miracolo.
È quello che può capitare a tutti noi quando, invece di adeguarci alla misura di Cristo, lo costringiamo ad abbassarsi alla nostra statura, oppure riduciamo il Vangelo a giustificazione delle nostre scelte, o delle nostre ideologie, o dei nostri comportamenti. Perciò abbiamo bisogno che Gesù ci interpelli sempre da capo: "Che cercate?".
"Maestro, dove abiti?"
La sincerità della ricerca dei due discepoli è messa in evidenza dalla loro risposta: "Maestro, dove abiti?" (v. 38). Tanto poco essi sono disposti a ridurre Gesù alla loro misura, che vogliono passare del tempo con lui per conoscerlo meglio, per diventare amici, per farne esperienza, come dice meglio anche il seguito del racconto: "Andarono dunque e videro dove abitava, e quel giorno si fermarono presso di lui" (v. 39).
L'espressione che abbiamo tradotto: "Dove abiti?", nel vocabolario di Giovanni ha un significato più profondo: il verbo mènein, infatti, ordinariamente dice un reciproco "rimanere", come di un amico presso un amico, una reciproca "immanenza" con partecipazione di vita, di gioia, di conoscenza. Si pensi semplicemente all'invito di Gesù nel contesto dell'allegoria della vite e dei tralci: "Rimanete in me ed io in voi. Come il tralcio non può far frutto da se stesso, se non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in me... Chi rimane in me ed io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla..." (Gv 15,4-5).
Si tratta dunque di un "abitare", che permette a degli ospiti-amici di fare un'esperienza che arrivi non solo ad afferrare totalmente l'altro, a conoscerlo, ma addirittura a sentirlo come elemento "vitale" del proprio esistere: il tralcio, che "non rimane nella vite", è destinato a "disseccarsi" e ad essere tagliato e gettato nel fuoco (Gv 15,6). Perciò l'espressione: "Dove abiti?", potrebbe essere parafrasata così: "Maestro, mostraci chi sei, facci conoscere il mistero della tua persona, perché possiamo anche noi diventare tuoi amici". La risposta di Gesù è precisamente in questo senso: "Venite e vedrete" (v. 39), cioè fate l'esperienza di quello che sono e che posso "significare" per voi, per dare un senso nuovo alla vostra vita, che sarà ormai da vivere insieme a me.
Andrea "incontrò per primo suo fratello Simone"
La seconda parte del brano ci descrive l'incontro di Pietro con Gesù ad opera di Andrea (vv. 41-42).
In questo momento non ci interessa tanto di approfondire quella che sarà la futura missione di Pietro nella Chiesa e che viene espressa dal cambiamento di nome ("Ti chiamerai Cefa": cf Mt 16,18), quanto di cogliere altri elementi costitutivi della "chiamata", che è il tema di fondo di tutto il brano.
E mi sembra che un elemento di primaria importanza, come abbiamo già accennato, sia rappresentato dalla carica "contagiosa" di colui che è stato chiamato: chi ha scoperto Cristo come colui che dà senso alla vita e apre il cuore degli uomini all'amore e alla donazione, non può non comunicare la sua scoperta agli altri! È quanto fa Andrea nei riguardi del fratello Simone (v. 41); è quanto farà poco dopo anche Filippo nei riguardi di Natanaele (vv. 45-46). La "chiamata" di Dio passa più comunemente attraverso la "mediazione" di fratelli che, per primi, hanno fatto un'intensa esperienza dei valori della fede e dell'amore: perciò non potrà mai essere un fatto né "isolato", né "isolante"!
E questo ci richiama ad un altro elemento costitutivo della "chiamata", cioè la sua dimensione "comunitaria". È quanto vediamo nel caso di Simone, a cui Gesù cambia il nome in quello di Cefa, cioè "pietra", "roccia", per designare la sua futura funzione nella Chiesa; su Pietro, come "roccia" di fondamento e di unificazione di tutto l'edificio, Cristo "costruirà" appunto la sua Chiesa (Mt 16,18). Se questo è evidente nel caso di Pietro, è altrettanto vero per qualsiasi altra chiamata, anche la più umile, nella Chiesa. Lo ricordava san Paolo ai cristiani di Corinto, quando scriveva loro che ogni dono e "manifestazione dello Spirito è per il bene comune" (1 Cor 12,7).
"Tu, seguimi"
Si sarà notato come nella nostra pericope si ripete con insistenza il verbo "seguire" (vv. 37.38.40.43). Collocato nello sfondo della "chiamata", esso sta a significare il distacco del credente dai suoi punti di sicurezza, dai suoi progetti, dall'immobilismo dei suoi schemi e delle sue abitudini, per intraprendere un lungo ed avventuroso cammino, che Cristo solo sa dove potrà terminare e per dove potrà passare. E non è detto che sia sempre un cammino bello, o facile, o umanamente desiderabile!
Proprio come quello che, al termine del Vangelo di Giovanni, Gesù fa intravedere a Pietro, a cui precedentemente aveva dato il compito di "pascere" il suo gregge: ""In verità, in verità ti dico, quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo, e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi". Questo gli disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E detto questo aggiunse: "Seguimi"" (Gv 21,18-19).
"Chiamata" e "sequela": due termini che si integrano nel brano di Vangelo odierno, e in tutta la trama del racconto biblico: da Abramo, a Mosè, a Samuele, agli Apostoli, a Maria. È una storia che incomincia sempre da capo per ognuno di noi, dalla più grande chiamata, che è quella alla fede, a tutte le ulteriori chiamate che possono risuonare nella nostra vita come ulteriore specificazione del primo appello a credere e ad amare.
Quello che importa è saper "rispondere" con un desiderio tormentoso di "ricerca", che ci porti sempre avanti nel cammino e nella "sequela" di Cristo, dovunque a lui piaccia di "andare". Superando, ovviamente, tutti gli "ostacoli" che si frappongono ad una generosa "sequela".
"Glorificate Dio nel vostro corpo"
Fra questi possibili ostacoli è da collocare la tentazione costante, che ogni uomo sente acutamente in se stesso, di disperdersi nella sua capacità di amore e di donazione. La "impudicizia", o "fornicazione", a cui richiama san Paolo nella seconda lettura, e che esprime qualsiasi forma di ricerca egoistica di se stesso nell'uso della propria o altrui sessualità, al di fuori del matrimonio, è autentica chiusura a Dio e alle sue esigenze di "liberazione" integrale del cuore dell'uomo per aderire a lui solamente.
Di qui l'accorato richiamo di san Paolo ai cristiani di Corinto, che per la loro precedente pratica di vita pagana erano particolarmente inclini a simili degenerazioni: "Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo?... Fuggite la fornicazione!... Glorificate dunque Dio nel vostro corpo" (1 Cor 6,15.18.20).
La "sequela" di Cristo, "umile e casto", per ognuno di noi, qualunque sia lo stato della nostra vita, esige che anche il nostro "corpo" sia espressione della sua "signoria" sopra di noi. San Paolo altrove ci insegna che è precisamente nel nostro "corpo" che celebriamo la prima e più vera "liturgia" al Signore.
Da CIPRIANI S
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