don Alberto Brignoli " Debole per i deboli"
V Domenica del Tempo Ordinario (Anno B) (08/02/2015)
Vangelo: Mc 1,29-39
La Liturgia della Parola di oggi e la settimana entrante, in cui si celebrerà la Giornata Mondiale del Malato in occasione della Festa della Vergine Maria di Lourdes, ci mettono di fronte al tema della sofferenza, quella fisica innanzitutto, così come tutti i vari tipi di sofferenza presenti nel mondo. Dovessimo elencare le situazioni di sofferenza di cui sentiamo parlare attraverso i mezzi di comunicazione sociale, ma anche
le sofferenze di cui siamo quotidianamente testimoni spesso anche sulla nostra pelle, non ci basterebbe una giornata intera: e sarebbe comunque parziale, perché le sofferenze paiono non esaurirsi mai, e anche quando ci sembra di aver contribuito ad alleviarne anche solo alcune, ecco che immediatamente ce se ne presentano altre, ancor più complesse. E sono spesso così difficili da interpretare o da superare che noi stessi ne veniamo sommersi e colpiti.
Allora, la sofferenza diviene un grido di ribellione, di angoscia, a volte pure di protesta nei confronti di un Dio che invece di apparirci come padre, ci si presenta come un castigatore, o comunque come un freddo calcolatore di opere e giorni, pronto a tendere la spola della nostra vita e a farla correre sul telaio del mondo, senza che ci sia (come drammaticamente ci ricorda Giobbe nella prima lettura) "un filo di speranza". Perché - sono sempre parole sue - "un soffio è la nostra vita".
È vero che spesso Dio non risponde ai nostri interrogativi, o che forse la sua risposta è talmente debole rispetto alle nostre capacità uditive che non riusciamo a coglierla. Ma occorre avere anche la capacità di guardare oltre il buio della nostra sofferenza, soprattutto quando non è facile, e cogliere il filo di speranza che anche Giobbe fatica a cogliere per aggrapparci ad esso come ad un'ancora di salvezza. Perché in realtà il Vangelo di oggi ci parla di un Dio che si fa prossimo alle nostre sofferenze, a partire da quelle vicine a noi, quelle quotidiane, casalinghe (come fu per Simon Pietro, la cui suocera viene guarita da Gesù mentre le fa visita in casa), per giungere poi a tutti i malati e i bisognosi, condotti a lui da tutta la città per essere guariti. Quest'avverbio "tutti", che ritorna varie volte nel Vangelo di oggi, è ripreso anche da Pietro, che forse sull'onda dell'entusiasmo di aver portato nella sua città un uomo così grande, chiede al Maestro di farsi carico di tutti coloro che lo cercano. Ed è proprio perché tutti lo cercano che il Maestro pensa non solo alla piccola città di Cafarnao, ma a tutta la Galilea, dove vuole arrivare ad annunciare il Vangelo, perché è per quello che egli è venuto nel mondo. È bella, e carica di passione, quest'ansia di Gesù di predicare la buona notizia: un'ansia appassionata che è stato capace di trasmettere pure a Paolo, stando alle parole dell'apostolo nella seconda lettura: "Guai a me se non annuncio il Vangelo!".
Sarà la deformazione professionale, oppure il contesto di Chiesa così povero ed essenziale come quello della Chiesa latinoamericana nel quale mi trovo immerso in questi giorni, eppure a me la Liturgia della Parola di oggi trasmette il sapore della missione. A partire da un contesto di sofferenza come quello attualissimamente descritto da Giobbe, il discepolo di Gesù si fa - come il Maestro - attento alle sofferenze dei fratelli, di tutti i fratelli, senza fermarsi mai, senza sedersi, senza adagiarsi a contemplare le molte sofferenze alleviate, senza gloriarsi di quanto fatto, ma guardando sempre "oltre", "andando altrove", restando sempre "alla porta della città", "uscendo di casa quando ancora è buio": sono tutte espressioni del Vangelo di oggi, ma sono pure l'espressione di quella missionarietà della Chiesa che è una cosa sola con il discepolato.
"Discepoli missionari": è una delle espressioni più belle utilizzate da Papa Francesco nella Evangelii Gaudium, riprendendo il Documento Conclusivo di Aparecida dell'Episcopato Latinoamericano nel 2007. Non può rimanere una pura e suggestiva espressione, deve diventare un programma di vita, un'esigenza, o (per dirla con Paolo) "una necessità", "un incarico che ci è stato affidato", e di fronte al quale non possiamo vantare alcuna pretesa di ricompensa o di gratificazione. L'unica ricompensa che possiamo vantare è quella di poter continuare ad "annunciare gratuitamente il Vangelo, senza usare il diritto conferitoci dal Vangelo".
Permettetemi di concludere questa riflessione domenicale con una sorta di omaggio, anzi da adesso possiamo dire "di venerazione", dedicando le ultime parole della seconda lettura a quattro testimoni dei quali in questa settimana Papa Francesco ha autorizzato a promulgare il decreto di martirio. Oltre al più famoso e giustamente più venerato, l'Arcivescovo Oscar Romero (figura di riferimento ineludibile per chi vive e ama la Chiesa latinoamericana), sono stati riconosciuti martiri e presto saranno beati due Francescani Conventuali polacchi e un sacerdote Fidei Donum della mia Diocesi di Bergamo (il primo Fidei Donum beato, almeno in Italia... chissà se lo avremo come patrono??), don Alessandro Dordi, al cui ricordo sono particolarmente legato perché è originario del piccolo paesino nel quale da qualche anno svolgo parte del mio ministero sacerdotale, e nel cui cimitero attualmente riposa, in attesa - ora certa - della sua elevazione alla gloria degli altari. Chiedo scusa per questa digressione personalistica, ma credo che la testimonianza di fede debba essere anche testimonianza della nostra vita di ogni giorno, come siamo certi che don Sandro, padre Michele e padre Zbigniew, e Monsignor Romero, hanno eroicamente dimostrato di saper fare:
"Mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero. Mi sono fatto debole per i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto per tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno. Ma tutto io faccio per il Vangelo, per diventarne partecipe anch'io".
Vangelo: Mc 1,29-39
La Liturgia della Parola di oggi e la settimana entrante, in cui si celebrerà la Giornata Mondiale del Malato in occasione della Festa della Vergine Maria di Lourdes, ci mettono di fronte al tema della sofferenza, quella fisica innanzitutto, così come tutti i vari tipi di sofferenza presenti nel mondo. Dovessimo elencare le situazioni di sofferenza di cui sentiamo parlare attraverso i mezzi di comunicazione sociale, ma anche
le sofferenze di cui siamo quotidianamente testimoni spesso anche sulla nostra pelle, non ci basterebbe una giornata intera: e sarebbe comunque parziale, perché le sofferenze paiono non esaurirsi mai, e anche quando ci sembra di aver contribuito ad alleviarne anche solo alcune, ecco che immediatamente ce se ne presentano altre, ancor più complesse. E sono spesso così difficili da interpretare o da superare che noi stessi ne veniamo sommersi e colpiti.
Allora, la sofferenza diviene un grido di ribellione, di angoscia, a volte pure di protesta nei confronti di un Dio che invece di apparirci come padre, ci si presenta come un castigatore, o comunque come un freddo calcolatore di opere e giorni, pronto a tendere la spola della nostra vita e a farla correre sul telaio del mondo, senza che ci sia (come drammaticamente ci ricorda Giobbe nella prima lettura) "un filo di speranza". Perché - sono sempre parole sue - "un soffio è la nostra vita".
È vero che spesso Dio non risponde ai nostri interrogativi, o che forse la sua risposta è talmente debole rispetto alle nostre capacità uditive che non riusciamo a coglierla. Ma occorre avere anche la capacità di guardare oltre il buio della nostra sofferenza, soprattutto quando non è facile, e cogliere il filo di speranza che anche Giobbe fatica a cogliere per aggrapparci ad esso come ad un'ancora di salvezza. Perché in realtà il Vangelo di oggi ci parla di un Dio che si fa prossimo alle nostre sofferenze, a partire da quelle vicine a noi, quelle quotidiane, casalinghe (come fu per Simon Pietro, la cui suocera viene guarita da Gesù mentre le fa visita in casa), per giungere poi a tutti i malati e i bisognosi, condotti a lui da tutta la città per essere guariti. Quest'avverbio "tutti", che ritorna varie volte nel Vangelo di oggi, è ripreso anche da Pietro, che forse sull'onda dell'entusiasmo di aver portato nella sua città un uomo così grande, chiede al Maestro di farsi carico di tutti coloro che lo cercano. Ed è proprio perché tutti lo cercano che il Maestro pensa non solo alla piccola città di Cafarnao, ma a tutta la Galilea, dove vuole arrivare ad annunciare il Vangelo, perché è per quello che egli è venuto nel mondo. È bella, e carica di passione, quest'ansia di Gesù di predicare la buona notizia: un'ansia appassionata che è stato capace di trasmettere pure a Paolo, stando alle parole dell'apostolo nella seconda lettura: "Guai a me se non annuncio il Vangelo!".
Sarà la deformazione professionale, oppure il contesto di Chiesa così povero ed essenziale come quello della Chiesa latinoamericana nel quale mi trovo immerso in questi giorni, eppure a me la Liturgia della Parola di oggi trasmette il sapore della missione. A partire da un contesto di sofferenza come quello attualissimamente descritto da Giobbe, il discepolo di Gesù si fa - come il Maestro - attento alle sofferenze dei fratelli, di tutti i fratelli, senza fermarsi mai, senza sedersi, senza adagiarsi a contemplare le molte sofferenze alleviate, senza gloriarsi di quanto fatto, ma guardando sempre "oltre", "andando altrove", restando sempre "alla porta della città", "uscendo di casa quando ancora è buio": sono tutte espressioni del Vangelo di oggi, ma sono pure l'espressione di quella missionarietà della Chiesa che è una cosa sola con il discepolato.
"Discepoli missionari": è una delle espressioni più belle utilizzate da Papa Francesco nella Evangelii Gaudium, riprendendo il Documento Conclusivo di Aparecida dell'Episcopato Latinoamericano nel 2007. Non può rimanere una pura e suggestiva espressione, deve diventare un programma di vita, un'esigenza, o (per dirla con Paolo) "una necessità", "un incarico che ci è stato affidato", e di fronte al quale non possiamo vantare alcuna pretesa di ricompensa o di gratificazione. L'unica ricompensa che possiamo vantare è quella di poter continuare ad "annunciare gratuitamente il Vangelo, senza usare il diritto conferitoci dal Vangelo".
Permettetemi di concludere questa riflessione domenicale con una sorta di omaggio, anzi da adesso possiamo dire "di venerazione", dedicando le ultime parole della seconda lettura a quattro testimoni dei quali in questa settimana Papa Francesco ha autorizzato a promulgare il decreto di martirio. Oltre al più famoso e giustamente più venerato, l'Arcivescovo Oscar Romero (figura di riferimento ineludibile per chi vive e ama la Chiesa latinoamericana), sono stati riconosciuti martiri e presto saranno beati due Francescani Conventuali polacchi e un sacerdote Fidei Donum della mia Diocesi di Bergamo (il primo Fidei Donum beato, almeno in Italia... chissà se lo avremo come patrono??), don Alessandro Dordi, al cui ricordo sono particolarmente legato perché è originario del piccolo paesino nel quale da qualche anno svolgo parte del mio ministero sacerdotale, e nel cui cimitero attualmente riposa, in attesa - ora certa - della sua elevazione alla gloria degli altari. Chiedo scusa per questa digressione personalistica, ma credo che la testimonianza di fede debba essere anche testimonianza della nostra vita di ogni giorno, come siamo certi che don Sandro, padre Michele e padre Zbigniew, e Monsignor Romero, hanno eroicamente dimostrato di saper fare:
"Mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero. Mi sono fatto debole per i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto per tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno. Ma tutto io faccio per il Vangelo, per diventarne partecipe anch'io".
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