Card.ANGELO SCOLA"La vita di ogni uomo è relazione con un Padre che ci tiene per mano»"
Questa la certezza che scaturisce dall’episodio evangelico della resurrezione di Lazzaro, al centro della riflessione del cardinale Angelo Scola per la V Domenica di Quaresima (22 marzo)
«Fratelli, fate molta attenzione al vostro modo di vivere, comportandovi non da stolti ma da saggi, facendo buon uso del tempo, perché i giorni sono cattivi». L’esortazione della Lettera agli Efesini può suscitare in noi un certo disagio: “I soliti profeti di sventura ..!” “Siamo adulti: non abbiamo bisogno che qualcuno ci faccia la morale”, “E poi, che ne sanno loro di come vivo io…”.
Siamo sicuri che stiamo ascoltando veramente ciò che l’Apostolo ci sta dicendo?
Anzitutto non possiamo negare un dato: l’Apostolo è uno che prende la nostra vita sul serio. Egli è ben consapevole – ma lo siamo anche noi – che fare una cosa o il suo contrario non è lo stesso. Sa che la vita è un tesoro prezioso consegnato alla nostra libertà. Per questo ne siamo responsabili. Quel “modo di vivere” di cui parla l’Apostolo non è altro che la maniera con cui ciascuno di noi gioca la sua responsabilità lungo il corso della propria esistenza. Così, ad esempio, l’esortazione a fare “buon uso del tempo” non è l’invito ad essere “laboriosi” secondo la misura dell’efficienza, selettiva e produttrice di “scarto”. è piuttosto un invito ad affrontare tutta la realtà con appassionata dedizione, «così da essere sempre felici» come ci ricorda il Libro del Deuteronomio.
è possibile vivere così? E come? L’episodio della risurrezione di Lazzaro, che la liturgia ambrosiana propone ogni anno in questa Quinta Domenica di Quaresima, ci può aiutare a rispondere. Gesù fa una cosa umanamente impossibile: ridona la vita ad un morto. E non si trattava certo di morte apparente: «manda già cattivo odore: è lì da quattro giorni»! Anche se poco prima Marta aveva professato piena fede in Gesù, di fronte alla sua richiesta di rimuovere la pietra dal sepolcro, torna inesorabile la grande obiezione: ciò che è morto, è morto. Punto e basta. Proprio a partire da questa obiezione Gesù vuol mostrare Chi è suo Padre: il Signore della vita, colui che fa esistere ogni cosa e tutta la famiglia umana. «Lazzaro, vieni fuori!». Il morto uscì, i piedi e le mani legati con bende, e il viso avvolto da un sudario».
Dio è il Padre della vita, Colui che ci immette e ci mantiene nell’essere. Ci apre la strada della felicità non solo nell’al di là, ma, in modo iniziale, fin da quaggiù. Per questo alla domanda che ci siamo posti prima – Cosa rende la vita degna di essere vissuta? – possiamo rispondere: la gratitudine. Un cuore lieto e grato perché riconosce di essere generato in questo istante, tratto fuori dal nulla perché voluto bene e rilanciato nell’esistenza che non è più il luogo della solitudine, ma lo spazio di un rapporto di amore che non verrà mai meno.
Infatti la vita di ogni uomo è relazione con un Padre che ci tiene per mano e ci accompagna lungo tutti i nostri giorni affinché, «giunti al termine della corsa», possiamo tornare a Lui, alla dimora della Trinità, «casa piena di porte aperte, attraverso le quali noi siamo invitati a entrare» (Hans Urs von Balthasar)
«Fratelli, fate molta attenzione al vostro modo di vivere, comportandovi non da stolti ma da saggi, facendo buon uso del tempo, perché i giorni sono cattivi». L’esortazione della Lettera agli Efesini può suscitare in noi un certo disagio: “I soliti profeti di sventura ..!” “Siamo adulti: non abbiamo bisogno che qualcuno ci faccia la morale”, “E poi, che ne sanno loro di come vivo io…”.
Siamo sicuri che stiamo ascoltando veramente ciò che l’Apostolo ci sta dicendo?
Anzitutto non possiamo negare un dato: l’Apostolo è uno che prende la nostra vita sul serio. Egli è ben consapevole – ma lo siamo anche noi – che fare una cosa o il suo contrario non è lo stesso. Sa che la vita è un tesoro prezioso consegnato alla nostra libertà. Per questo ne siamo responsabili. Quel “modo di vivere” di cui parla l’Apostolo non è altro che la maniera con cui ciascuno di noi gioca la sua responsabilità lungo il corso della propria esistenza. Così, ad esempio, l’esortazione a fare “buon uso del tempo” non è l’invito ad essere “laboriosi” secondo la misura dell’efficienza, selettiva e produttrice di “scarto”. è piuttosto un invito ad affrontare tutta la realtà con appassionata dedizione, «così da essere sempre felici» come ci ricorda il Libro del Deuteronomio.
è possibile vivere così? E come? L’episodio della risurrezione di Lazzaro, che la liturgia ambrosiana propone ogni anno in questa Quinta Domenica di Quaresima, ci può aiutare a rispondere. Gesù fa una cosa umanamente impossibile: ridona la vita ad un morto. E non si trattava certo di morte apparente: «manda già cattivo odore: è lì da quattro giorni»! Anche se poco prima Marta aveva professato piena fede in Gesù, di fronte alla sua richiesta di rimuovere la pietra dal sepolcro, torna inesorabile la grande obiezione: ciò che è morto, è morto. Punto e basta. Proprio a partire da questa obiezione Gesù vuol mostrare Chi è suo Padre: il Signore della vita, colui che fa esistere ogni cosa e tutta la famiglia umana. «Lazzaro, vieni fuori!». Il morto uscì, i piedi e le mani legati con bende, e il viso avvolto da un sudario».
Dio è il Padre della vita, Colui che ci immette e ci mantiene nell’essere. Ci apre la strada della felicità non solo nell’al di là, ma, in modo iniziale, fin da quaggiù. Per questo alla domanda che ci siamo posti prima – Cosa rende la vita degna di essere vissuta? – possiamo rispondere: la gratitudine. Un cuore lieto e grato perché riconosce di essere generato in questo istante, tratto fuori dal nulla perché voluto bene e rilanciato nell’esistenza che non è più il luogo della solitudine, ma lo spazio di un rapporto di amore che non verrà mai meno.
Infatti la vita di ogni uomo è relazione con un Padre che ci tiene per mano e ci accompagna lungo tutti i nostri giorni affinché, «giunti al termine della corsa», possiamo tornare a Lui, alla dimora della Trinità, «casa piena di porte aperte, attraverso le quali noi siamo invitati a entrare» (Hans Urs von Balthasar)
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