don Alberto Brignoli " Un Dio scandaloso e stolto?"
III Domenica di Quaresima (Anno B) (08/03/2015)
Vangelo: Gv 2,13-25
I Dieci Comandamenti (o le "Dieci Parole", come ce li tramanda la tradizione biblica greca) rivestono sempre un grande fascino, e non solo tra i credenti o tra gli addetti ai lavori. Ne abbiamo avuto anche recentemente una prova - almeno qui in Italia - attraverso una loro rilettura in chiave culturale in un'interessante trasmissione televisiva poco prima di Natale. E in tempi più lontani, sono da ricordare tutti quegli eventi cinematografici che, ispirati da queste Parole di Dio al popolo d'Israele, hanno
spettacolarizzato e reso omaggio alla vicenda dell'Esodo in generale. Se anche cinema e teatro sono stati attirati, affascinati da queste Parole, significa che veramente esse hanno la capacità di suscitare nell'animo umano sensazioni e sentimenti quantomeno di ammirazione, se non di rispetto, nei confronti del Trascendente, aldilà del fatto di essere credenti o meno. Quando Dio parla, e usa parole sintetiche, chiare, comprensibili, l'uomo viene colto da un senso di venerazione e di stupore di fronte al quale a fatica riesce a rimanere indifferente.
Quando Dio si presenta all'umanità, dicendo "Io sono il Signore tuo Dio", oppure "Non avrai altri dei di fronte a me", o ancora "Non pronuncerai invano il nome del Signore, tuo Dio", è difficile non avvertire la solennità, l'assertività di certe affermazioni, che poi si declinano con altrettanta chiarezza e determinazione nella seconda parte del Decalogo, quella in cui le obbligazioni, le attenzioni, i gesti di rispetto sono dovuti - quasi come una conseguenza - non più solo a Dio, ma agli uomini. Dio va rispettato e onorato, e con lui l'umanità intera: e anche se, dall'età moderna in poi, l'uomo ha sempre più riaffermato la propria autonomia da Dio e la propria centralità nell'universo, ce ne guardiamo bene tutti - spesso anche a motivo dell'educazione che abbiamo ricevuto - di mancare di rispetto a Dio e a ciò che strettamente lo riguarda. È senza dubbio più facile trovare espressioni e manifestazioni irriguardose nei confronti delle religioni e dei gruppi religiosi di qualsiasi specie (cosa che a volte suscita reazioni spropositate, oltre il limite dell'uso di ragione, da parte di chi identifica in maniera radicale ed estremista il proprio Credo con il proprio Dio): ma il faccia a faccia dell'uomo, del singolo uomo, con il Trascendente, con ciò che a noi è stato rivelato con il nome di Dio (un termine il cui significato pare essere "ciò che brilla nel cielo") difficilmente è fatto di situazioni irrispettose e irriguardose. "Ciò che brilla nel cielo", nell'ateo come nel credente, nel religiosamente tiepido come nel bigotto, è comunque sempre motivo di domanda, di meraviglia, di smarrimento, di inadeguatezza o, nel migliore dei casi, di "timor di Dio".
Sarà stato questo, più che il desiderio di riportare ordine in un luogo sacro, il motivo che ha spinto Gesù a compiere quel gesto eclatante, quasi al limite dell'irascibile, di cacciare con violenza i mercanti dal tempio? Giovanni lo rilegge alla luce della tradizione sapienziale e dei Salmi: "Lo zelo per la tua casa mi divora" (Sl 69), e quindi nell'ottica di un rapporto vero dell'uomo con Dio, un Dio che merita rispetto e venerazione, e di fronte al quale non si fanno calcoli, neppure quando certi gesti possono portare alla morte (così avviene, infatti, nei Vangeli sinottici, dove la cacciata dei mercanti dal tempio è inserita nel contesto della Passione di Gesù). Dio è da venerare e rispettare più di ogni altra cosa. Punto. Anche più di tutti i nostri interessi, legittimi o meno che essi siano, come il commercio e le leggi di mercato, necessari per vivere allora come oggi. Questo è ciò che Gesù ha voluto farci capire con quel gesto.
Sì, ma allora perché il Dio di Gesù Cristo è "scandalo" e "follia", "stoltezza", se è vero - come lo è - che merita venerazione e rispetto? O Paolo nella lettera ai Corinzi ha usato toni forti per descrivere la vicenda di Gesù Cristo, salvo poi pentirsi e fare retromarcia, oppure - dal momento che Paolo non fa un passo indietro nelle sue irriguardose affermazioni su Gesù - le sue espressioni forti ci vogliono dire qualcosa. Come è possibile che veneriamo e rispettiamo un Dio che - per la sua morte in croce, e già il fatto che Dio muoia la dice lunga - i contemporanei di Paolo definiscono "scandaloso" e "stolto"?
Paolo ci sta trasmettendo, in queste brevi ma suggestive righe, la profondità del mistero della nostra salvezza, intorno al quale ci stiamo preparando in questo tempo di Quaresima: il nostro Dio, il Dio rivelatosi ai Giudei nell'Esodo con le Dieci Parole, il Dio ricercato dalla sapienza greca altrettanto profondamente religiosa (Paolo se ne accorge, andando ad Atene), il Dio di fronte al quale uomini e donne di ogni tempo hanno provato sentimenti di ammirazione, meraviglia e rispetto, è un Dio che inchioda suo Figlio sul patibolo della croce, e che Gesù stesso porterà con sé sulla croce, perché sarà proprio lì, sul Calvario e nella tomba trovata vuota, che il nostro Dio rivelerà la sua potenza e la sua sapienza. Un Dio che muore e che risorge con l'uomo di ogni tempo e di ogni luogo, Giudeo o Greco che esso sia, vale molto di più di un Dio dal quale ci sia aspettano segni e prodigi (magari scendendo dalla croce) o che rifulga come la Sapienza assoluta e inconfutabile. Se volevano, tra l'altro, Giudei e Greci un Dio dei "segni" e della "sapienza" l'hanno avuto: cosa sono tutti i miracoli compiuti da Gesù, se non i segni della presenza di Dio nella sua vita, e che invece diventano capi di accusa per condannarlo a morte? Cos'è il "Dio sconosciuto e ignoto" che gli Ateniesi venerano e che Paolo rivela loro, ricevendone derisione e rifiuto, perché morto e risorto?
Se vogliamo, il Dio "scandaloso e stolto" è il Dio che ci salva; ma la nostra eccessiva familiarità con Dio o la nostra saccente e razionale indipendenza da lui (perché Giudei o Greci, in fondo, lo siamo un po' tutti) rischiano di farcelo perdere di vista. Finché possiamo, già che Gesù Cristo ce lo ha rivelato, teniamocelo ben stretto!
Vangelo: Gv 2,13-25
I Dieci Comandamenti (o le "Dieci Parole", come ce li tramanda la tradizione biblica greca) rivestono sempre un grande fascino, e non solo tra i credenti o tra gli addetti ai lavori. Ne abbiamo avuto anche recentemente una prova - almeno qui in Italia - attraverso una loro rilettura in chiave culturale in un'interessante trasmissione televisiva poco prima di Natale. E in tempi più lontani, sono da ricordare tutti quegli eventi cinematografici che, ispirati da queste Parole di Dio al popolo d'Israele, hanno
spettacolarizzato e reso omaggio alla vicenda dell'Esodo in generale. Se anche cinema e teatro sono stati attirati, affascinati da queste Parole, significa che veramente esse hanno la capacità di suscitare nell'animo umano sensazioni e sentimenti quantomeno di ammirazione, se non di rispetto, nei confronti del Trascendente, aldilà del fatto di essere credenti o meno. Quando Dio parla, e usa parole sintetiche, chiare, comprensibili, l'uomo viene colto da un senso di venerazione e di stupore di fronte al quale a fatica riesce a rimanere indifferente.
Quando Dio si presenta all'umanità, dicendo "Io sono il Signore tuo Dio", oppure "Non avrai altri dei di fronte a me", o ancora "Non pronuncerai invano il nome del Signore, tuo Dio", è difficile non avvertire la solennità, l'assertività di certe affermazioni, che poi si declinano con altrettanta chiarezza e determinazione nella seconda parte del Decalogo, quella in cui le obbligazioni, le attenzioni, i gesti di rispetto sono dovuti - quasi come una conseguenza - non più solo a Dio, ma agli uomini. Dio va rispettato e onorato, e con lui l'umanità intera: e anche se, dall'età moderna in poi, l'uomo ha sempre più riaffermato la propria autonomia da Dio e la propria centralità nell'universo, ce ne guardiamo bene tutti - spesso anche a motivo dell'educazione che abbiamo ricevuto - di mancare di rispetto a Dio e a ciò che strettamente lo riguarda. È senza dubbio più facile trovare espressioni e manifestazioni irriguardose nei confronti delle religioni e dei gruppi religiosi di qualsiasi specie (cosa che a volte suscita reazioni spropositate, oltre il limite dell'uso di ragione, da parte di chi identifica in maniera radicale ed estremista il proprio Credo con il proprio Dio): ma il faccia a faccia dell'uomo, del singolo uomo, con il Trascendente, con ciò che a noi è stato rivelato con il nome di Dio (un termine il cui significato pare essere "ciò che brilla nel cielo") difficilmente è fatto di situazioni irrispettose e irriguardose. "Ciò che brilla nel cielo", nell'ateo come nel credente, nel religiosamente tiepido come nel bigotto, è comunque sempre motivo di domanda, di meraviglia, di smarrimento, di inadeguatezza o, nel migliore dei casi, di "timor di Dio".
Sarà stato questo, più che il desiderio di riportare ordine in un luogo sacro, il motivo che ha spinto Gesù a compiere quel gesto eclatante, quasi al limite dell'irascibile, di cacciare con violenza i mercanti dal tempio? Giovanni lo rilegge alla luce della tradizione sapienziale e dei Salmi: "Lo zelo per la tua casa mi divora" (Sl 69), e quindi nell'ottica di un rapporto vero dell'uomo con Dio, un Dio che merita rispetto e venerazione, e di fronte al quale non si fanno calcoli, neppure quando certi gesti possono portare alla morte (così avviene, infatti, nei Vangeli sinottici, dove la cacciata dei mercanti dal tempio è inserita nel contesto della Passione di Gesù). Dio è da venerare e rispettare più di ogni altra cosa. Punto. Anche più di tutti i nostri interessi, legittimi o meno che essi siano, come il commercio e le leggi di mercato, necessari per vivere allora come oggi. Questo è ciò che Gesù ha voluto farci capire con quel gesto.
Sì, ma allora perché il Dio di Gesù Cristo è "scandalo" e "follia", "stoltezza", se è vero - come lo è - che merita venerazione e rispetto? O Paolo nella lettera ai Corinzi ha usato toni forti per descrivere la vicenda di Gesù Cristo, salvo poi pentirsi e fare retromarcia, oppure - dal momento che Paolo non fa un passo indietro nelle sue irriguardose affermazioni su Gesù - le sue espressioni forti ci vogliono dire qualcosa. Come è possibile che veneriamo e rispettiamo un Dio che - per la sua morte in croce, e già il fatto che Dio muoia la dice lunga - i contemporanei di Paolo definiscono "scandaloso" e "stolto"?
Paolo ci sta trasmettendo, in queste brevi ma suggestive righe, la profondità del mistero della nostra salvezza, intorno al quale ci stiamo preparando in questo tempo di Quaresima: il nostro Dio, il Dio rivelatosi ai Giudei nell'Esodo con le Dieci Parole, il Dio ricercato dalla sapienza greca altrettanto profondamente religiosa (Paolo se ne accorge, andando ad Atene), il Dio di fronte al quale uomini e donne di ogni tempo hanno provato sentimenti di ammirazione, meraviglia e rispetto, è un Dio che inchioda suo Figlio sul patibolo della croce, e che Gesù stesso porterà con sé sulla croce, perché sarà proprio lì, sul Calvario e nella tomba trovata vuota, che il nostro Dio rivelerà la sua potenza e la sua sapienza. Un Dio che muore e che risorge con l'uomo di ogni tempo e di ogni luogo, Giudeo o Greco che esso sia, vale molto di più di un Dio dal quale ci sia aspettano segni e prodigi (magari scendendo dalla croce) o che rifulga come la Sapienza assoluta e inconfutabile. Se volevano, tra l'altro, Giudei e Greci un Dio dei "segni" e della "sapienza" l'hanno avuto: cosa sono tutti i miracoli compiuti da Gesù, se non i segni della presenza di Dio nella sua vita, e che invece diventano capi di accusa per condannarlo a morte? Cos'è il "Dio sconosciuto e ignoto" che gli Ateniesi venerano e che Paolo rivela loro, ricevendone derisione e rifiuto, perché morto e risorto?
Se vogliamo, il Dio "scandaloso e stolto" è il Dio che ci salva; ma la nostra eccessiva familiarità con Dio o la nostra saccente e razionale indipendenza da lui (perché Giudei o Greci, in fondo, lo siamo un po' tutti) rischiano di farcelo perdere di vista. Finché possiamo, già che Gesù Cristo ce lo ha rivelato, teniamocelo ben stretto!
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