Congregatio pro clericis " La domenica “in albis”


II DOMENICA DI PASQUA
Otto giorni dopo la Pasqua, la Chiesa ci invita a celebrare ancora il mistero dell’amore di Dio che, sulla Croce del Figlio, sconfigge la morte. Per i credenti è ancora il giorno di Pasqua, la domenica “in albis”: con la risurrezione di Cristo è finito il vecchio mondo ed è stata sconfitta per sempre la morte. E’ iniziata la Nuova Alleanza, è sbocciata una storia nuova, ha preso avvio un cammino di liberazione che, lentamente, conduce gli uomini e le cose. E’
difficile vivere questa realtà se ci fermiamo a osservare i pesi e le sconfitte che viviamo ancora oggi, nella nostra carne e nel mondo; eppure, il corso della storia è ormai segnato da Cristo e, anche quando non ne avvertiamo la bellezza, la nostra vita cammina verso di Lui. Fin d’ora, dimoriamo “nel giorno che ha fatto il Signore”.

Questo progetto, che il Padre ha realizzato per noi risuscitando il Cristo, è allora un evento che si colloca al centro della storia; la fede cristiana non predica una salvezza individuale e privata ma, anzi, quando Cristo viene a rovesciare anche la mia pietra dal sepolcro e mi fa entrare nella Sua vita, scopro che questo Suo progetto non è solo per me ma anche per tutti gli uomini. Per tutte le Sue creature e per l’universo intero Dio ha pensato questo giorno e lo ha realizzato in Cristo; Egli ha voluto così restaurare l’ordine della creazione, restituirle quella bellezza e quell’armonia che derivano dalla comunione con Lui e tra di noi.

Così, il mistero pasquale ci genera a una nuova creazione che, in fondo, è vita ecclesiale: noi siamo Chiesa non perché abbiamo una struttura come luogo di culto, ma perché intimamente siamo legati l’uno all’altro dalla comunione d’amore con Dio. Apparteniamo allo stesso progetto del Padre, siamo in intima comunione con la carne risorta di Cristo, possediamo tutti l’unico Spirito di Dio, condividiamo tutti il destino finale della nostra vita che è iniziato fin d’ora: la risurrezione. Ecco perché, come afferma la I Lettura di questa domenica, “La moltitudine di coloro che erano diventati credenti aveva un cuore solo e un’anima sola e nessuno considerava sua proprietà quello che gli apparteneva, ma fra loro tutto era comune”. Accomunati dall’amore di Dio e dalla risurrezione di Cristo, mentre insieme camminiamo tutti verso la nostra gioiosa mèta finale, siamo dunque chiamati a mettere in comune le cose e la vita, il pane e l’affetto, le fatiche e le gioie. La Pasqua mi fa rinascere anche in questo senso: mi libera dalla prigione di un io chiuso e mi apre all’incontro con l’altro.
         
La comunità dei discepoli non vive ancora il gusto di questa fraternità solidale in Cristo. Le porte sono chiuse, le finestre sbarrate, la paura ancora paralizza il loro cuore. Questo cenacolo può essere simbolo molto alla nostra vita personale o alle nostre comunità ecclesiali; quando siamo chiusi, ripiegati su noi stessi, concentrati sulle nostre paure, incapaci per debolezza o per pigrizia di aprire le porte alla vita, all’incontro con agli altri, al futuro. Quando ci rinchiudiamo nel buio del nostro egoismo o nella paralisi di una vita comoda e rassegnata. E quando crediamo che in fondo, nonostante le tante celebrazioni domenicali vissute, la risurrezione è una cosa lontana e indecifrabile e siamo qui da soli, in mezzo a tante tempeste della vita, a combattere da soli.


In questa situazione – e questo è l’annuncio evangelico dell’amore misericordioso di Dio – Gesù viene. Mentre le porte sono chiuse, Gesù viene e sta in mezzo a noi. Soffia, ripetendo il gesto dell’inizio della creazione, per donare lo Spirito, per comunicare la vita di Dio. Se sei generato a vita nuova da Dio – ripete Giovanni in questa domenica – hai vinto il mondo. Non puoi più aver paura né restare chiuso in te stesso. Le porte del cenacolo devono spalancarsi!

Proprio otto giorni dopo Gesù ritorna. E questa volta c’è anche l’apostolo Tommaso. La sua incredulità è, in fondo, quella del lettore per il quale l’evangelista scrive, e cioè quella del credente di ieri e di oggi. Noi siamo quelli degli “otto giorni dopo”, coloro che sono venuti dopo Cristo e lo accolgono soprattutto ogni otto giorni, nella celebrazione comunitaria in cui Egli ci offre la Parola e si spezza come pane per noi. Questa nostra fede in Lui, passa attraverso le fatiche della vita, le cose che ci sfuggono, gli ideali che si infrangono, le paure che tengono ancora rinchiusi nei nostri cenacoli; e sempre, toccati dal dubbio e insieme dal desiderio di Dio, anche noi chiediamo al Signore dei segni della Sua presenza. Abbiamo bisogno di sentire le sue ferite, cioè i segni che ci dicono quanto ci ama. E Gesù, dolcemente, rispetta i tempi di “ogni Tommaso” che siamo noi: ritorna, viene ogni otto giorni nella comunità, rende sempre vivo per noi il sacrificio della Sua morte, ci fa entrare nelle Sue ferite perché possiamo restarne guariti.

La Pasqua, allora, mi fa rinascere liberandomi dalla prigione di un io chiuso e aprendomi all’incontro con l’altro; mi invita a essere pietra viva della nuova famiglia dei risorti perché il Signore viene in mezzo a donarmi lo Spirito e restituirmi alla pace; mi chiama a costruire, con le parole e i gesti, percorsi di speranza e di bene, offrendo me stesso, spendendomi generosamente e lasciandomi ferire come Cristo per essere strumento di guarigione. Mi invita a credere che, in ogni situazione, l’amore vince ogni morte e se offro le ferite del mio amore a coloro che mi sono accanto, come Gesù fa con Tommaso, allora nel mio piccolo genero risurrezione e vita nuova.

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