padre Gian Franco Scarpitta " Provare per credere o credere per provare?"

II Domenica di Pasqua (Anno B) (12/04/2015)
Vangelo: Gv 20,19-31
Provare per credere, diceva un vecchio slogan. Quando si è scettici su una testimonianza o su un fatto raccontato, quando non si reputano sufficienti alcuni elementi di prova o non soddisfano certi argomenti atti a convincerci di una verità che ci viene propinata, si vuole
immediatamente andare a controllare e possibilmente indagare sui fatti. E occorre ammettere che in parecchie circostanze il "provare per credere" è anche necessario e indispensabile. Come posso infatti credere ciecamente a chi, apostrofandomi per la strada, mi chiede del denaro sbandierandomi la storia di essere rimasto in panne con l'auto, privo di benzina? Come posso dar credito alle ciarle di un venditore che a tutti i costi vuole propinarmi un prodotto dandomelo per buono, se non constato io stesso che esso è realmente attendibile e di qualità? Per evitare inganni e raggiri al giorno d'oggi è indispensabile provare per credere, soprattutto perché chi tende a turlupinarci è sempre abbastanza abile e scaltro. Occorre sempre diffidare da determinate fandonie per non lasciarci abbindolare e quando è il caso anche verificare attentamente i dati di fatto.
Popper affermava che il criterio di attendibilità delle cose e dei fenomeni non consiste nella loro verificabilità, ma al contrario nella falsificabilità: è scientifico solo ciò che possiamo smentire. Quando però il "credere" riguarda qualcosa di più elevato e metastorico fino ad interessare oggettivamente Dio e le realtà da lui rivelate, esso diventa un "atto di fede". Esso riguarda non più ciò che è possibile verificare e/o falsificare; non qualcosa su cui possiamo indagare scientificamente per giungere a delle conclusioni certe e definitive e neppure una persona o una realtà con cui è possibile interagire direttamente. Esso concerne infatti qualcosa che sfugge alle nostre comprensioni e che non si sottopone ad indagini né di verifica né di smentita. Dio infatti non è una verità che non possiamo né verificare né smentire. Se così fosse non sarebbe più Dio, ma una delle tante realtà empiriche di questo mondo. Parimenti, il fatto che Dio si sia incarnato in Cristo che è morto e risorto non è una verità scientificamente possibile a provarsi, anche se di fatto vi sono alcuni elementi che ci aiutano a comprenderla quali la sindone o il fatto della tomba vuota. Si tratta di argomenti di fede, che riguardano cioè un mistero che ci dischiude solamente nella rivelazione e che da parte nostra possiamo solo accogliere con un assenso e con un adesione. "Credo" è l'unico atteggiamento adatto di fronte a determinate verità che altrimenti risulterebbero assurde e irrazionali quando viste dalla sola angolatura umana. Se la fede soddisfacesse la nostra curiosità tattica e sensoriale non sarebbe più fede. Ciò che è provato e che consta ai sensi infatti non è più oggetto di un credere e di un aderire da parte nostra. La fede è infatti "fondamento delle cose che si sperano, prova di quelle che non si vedono"(Eb 11, 1) e ciò che si spera, quando è visto non è più speranza (Rm 8, 24). Di conseguenza solamente il "credere" determina l'atteggiamento più consono davanti a Dio, poiché a darci la prova di quanto ci viene proposto non è la molteplicità dei sensi ma semplicemente l'adesione e l'apertura del cuore. Con il "credere" è possibile vedere ben oltre che con la percezione e di conseguenza ci si può disporre anche più adeguatamente. Scrive "La Fede vede ciò che è., nel tempo e nell'eternità. La Speranza vede ciò che sarà."La fede è conseguenza della rivelazione di Dio, ma come afferma Paolo essa scaturisce soprattutto dall'annuncio: "Come potranno credere in lui se non ne avranno sentito parlare? E come ne sentiranno parlare se nessuno annunzia?"(Rm 10, 14 - 15); un messaggio che Dio stesso affida agli apostoli e di cui questi si rendono depositari e diffusori, perché la verità divine possano raggiungere tutti gli uomini e recar loro salvezza. Veniamo a Tommaso. Egli si trova di fronte a un evento di cui, alla pari di tutti gli altri apostoli, avrebbe dovuto essere certissimo: le Scritture avevano preannunciato che il Messia avrebbe dovuto patire per poi risuscitare e la testimonianza dei suoi compagni che lo informano ora che "Abbiamo visto il Signore" dovrebbe renderlo sensibile, umile e sottomesso. Egli dovrebbe insomma credere e aderire alle parole dei suoi condiscepoli e atteggiarsi in un atto di pura fede e accettazione. Dovrebbe solamente dire: "Io credo." E invece obietta sfoderando tutte quelle pretese inverosimili per un uomo di fede, al punto che Gesù deve soddisfare la sua richiesta, quasi come se si trattasse di un bambino capriccioso. Gesù gli fa toccare le sue mani e il suo costato, chiedendogli espressamente di essere "non più incredulo, ma credente" e lui finalmente si convince e professa la sua fede: "Signor mio, Dio mio". La reazione immediata di Tommaso era stata quella della verificabilità a tutti i costi, del "provare per credere" adoperato in luoghi inopportuni e non già del "credere per provare", cioè l'acconsentire immediato e l'aderire disinvolto senza necessità di prove, avendo come unico riscontro probante la gioia e la letizia. Di fronte alla realtà della rivelazione e alla testimonianza reale dei suoi fratelli avrebbe dovuto semplicemente credere e aderire, per sperimentare il gusto della novità del Risorto nel quale dover vivere e perseverare.
Ciononostante non possiamo attribuire al solo Tommaso la colpa grave dell'incredulità, visto che non è l'unico fra tutti i discepoli a mancare di fede immediata e spontanea nel Cristo Risorto.. Anche in altri apostoli si riscontra lo stesso atteggiamento di reticenza alla notizia della Resurrezione del Signore. Maria di Magdala, non appena giunta al sepolcro, vedendo la tomba vuota e la pietra ribaltata, pensa ad un trasferimento del cadavere e non già alla risurrezione di Gesù. Pietro e l'apostolo che Gesù amava, correndo al sepolcro, vi entrano, vedono le bende per terra, il sudario avvolto in un angolo a parte e poi... Il discepolo prediletto dopo aver visto crede.
Così avviene durante le apparizioni di Gesù ai suoi: essi tardano a concepire che egli possa essere risorto e in un caso lo credono addirittura un fantasma. Lui deve mostrare le mani, i piedi, segni tangibili della sua presenza reale e in un'altra circostanza deve anche consumare una porzione di pesce arrostito davanti a loro, sempre ai fini di farsi riconoscere come il Risorto.
Non possiamo accanirci pertanto con Tommaso quanto alla lacuna della fede, ma riscontrare obiettivamente la realtà di fatto che essa comunque e in ogni caso non è una facile impresa. La fede infatti comporta non poche difficoltà e non di rado anche mortificazioni soprattutto perché ci invita in un certo qual modo a rinnegare noi stessi e ad accogliere la mortificazione eroica di doverci sottomettere a determinate verità che, ad onor de vero, costituiscono pur sempre un dogmatismo assoluto e in se stessi astruse alla purezza dell'intelletto umano. Credere in un Dio che muore sulla croce anziché debellare i nemici per fare giustizia agli oppressi non è una soluzione facile ad accettarsi, come di fatto non lo fu per i discepoli che, subito dopo la sepoltura di Gesù, si mostrarono delusi ed esterrefatti. Si sarebbero aspettati un Messia vindice dei suoi nemici e ricostruttore della "vera" patria d'Israele. Un re egemonico e impositivo insomma, non un re dei Giudei morto in croce. Come pure non è oggigiorno semplice accettare che Cristo, vero Dio e vero Uomo Signore dell'Universo si faccia "mangiare " nel pane eucaristico, dove sacramentalmente presenzia nel mistero eucaristico. In certe situazioni la fede comporta anche che si accolga ciò che comunemente è detto inverosimile.
Non lamentarsi insomma di Tommaso ma della caducità obiettiva della nostra fede. Peggio ancora poi se questa è accompagnata da una moda razionalizzante del momento, che esclude qualsasi riferimento divino e trascendentale.
Quella del "credo" comunque resta sempre la nostra risorsa più adeguata e promettente. In essa vale comunque la pena di risiedere e di perseverare, chiedendo anche a Dio che ci venga in soccorso nelle affermate difficoltà di credere: "Credo Signore, ma aiutami nella mia incredulità"(Mc 9, 24).

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