Sr Marzia Ceschia "Dalla liturgia al vissuto/ 1: Angela da Foligno e l’esperienza del Giovedì Santo"
Proponiamo per la meditazione in questi giorni l’esperienza – sorprendente per il suo crudo realismo – della mistica francescana Angela da Foligno.
Il Giovedì Santo – in un contesto liturgico del tutto peculiare, dunque – Angela sperimenta quanto la liturgia propone in uno spazio di per sé paradossale, dove non è l’ordine e la bellezza del rito, ma un lebbrosario memoriale della lavanda dei piedi e della mensa eucaristica. Come per
Francesco d’Assisi, la carne dei lebbrosi dischiude il mistero dell’umiltà del corpo di Cristo, mutando l’amaro in dolce. Quanto il rito descrive e propone s’invera in una relazione convertita.
Il Giovedì Santo, cena del Signore, la suddetta fedele di Cristo, insieme alla sua compagna, sperimentò la dolcezza divina, lavando piedi e mani ai lebbrosi e bevendone l’acqua. E così, quando mi riferì la suddetta predica, che Dio le aveva rivolta a riguardo dei figli di Dio, aggiungendo che i figli spirituali mangiano in un’unica scodella e bevono in un unico calice con Cristo, e sebbene lo sentano amaro, tuttavia a loro diventa dolce, perché lo trovano molto piacevole, io frate scriba cominciai a fare obiezioni, dicendo che era cosa molto dura. Ma lei, la fedele di Cristo, mi narrò un episodio, attraverso il quale intendeva indicarmi che non era dura, ma dolce. E diceva così: «Il giovedì santo dissi alla mia compagna che avremmo dovuto cercare e trovare Cristo. Allora le dissi: “Andiamo all’ospedale, perché forse troveremo Cristo tra quei poveri sofferenti afflitti”. Quindi dei nostri veli da testa prendemmo tutti quelli che potemmo prendere. Il resto serviva per poterne trattenere qualcuno. Poi dicemmo a Giliola, inserviente dell’ospedale, che li vendesse per comprare del cibo per quelli dello spedale. Lei allora, sebbene si rifiutasse di farlo col dire che stavamo prendendola in giro, tuttavia, per la nostra forte insistenza, lo fece: vendette quei veli e ne comperò dei pesci. Noi poi donammo tutti i pani che ci erano stati dati per nostro cibo. E dopo aver offerto queste cose, lavammo i piedi delle donne e lavammo le mani degli uomini, specialmente di un lebbroso, che aveva le mani ormai putrefatte marce perse. E ne bevemmo l’acqua. Allora sentivamo tanta dolcezza, che facemmo tutta la strada del ritorno con grande soavità, come se ci fossimo comunicate. E mi sembrava davvero che mi fossi comunicata, perché la grandissima soavità che sentivo era quella della comunione. E poiché una crosta di quelle piaghe mi si era conficcata nella gola, cercavo di inghiottirla, perché la coscienza mi rimordeva di espellerla, come se si trattasse della comunione, anche se l’avrei espulsa non per gettarla via, ma per toglierla dalla gola».
(da «Angela da Foligno. La croce e l’amore», testi scelti e presentati da M. Ceschia, Edizioni Messaggero, Padova 2014, pp. 38-39)
ARTICOLO DI: Marzia Ceschia
Il Giovedì Santo – in un contesto liturgico del tutto peculiare, dunque – Angela sperimenta quanto la liturgia propone in uno spazio di per sé paradossale, dove non è l’ordine e la bellezza del rito, ma un lebbrosario memoriale della lavanda dei piedi e della mensa eucaristica. Come per
Francesco d’Assisi, la carne dei lebbrosi dischiude il mistero dell’umiltà del corpo di Cristo, mutando l’amaro in dolce. Quanto il rito descrive e propone s’invera in una relazione convertita.
Il Giovedì Santo, cena del Signore, la suddetta fedele di Cristo, insieme alla sua compagna, sperimentò la dolcezza divina, lavando piedi e mani ai lebbrosi e bevendone l’acqua. E così, quando mi riferì la suddetta predica, che Dio le aveva rivolta a riguardo dei figli di Dio, aggiungendo che i figli spirituali mangiano in un’unica scodella e bevono in un unico calice con Cristo, e sebbene lo sentano amaro, tuttavia a loro diventa dolce, perché lo trovano molto piacevole, io frate scriba cominciai a fare obiezioni, dicendo che era cosa molto dura. Ma lei, la fedele di Cristo, mi narrò un episodio, attraverso il quale intendeva indicarmi che non era dura, ma dolce. E diceva così: «Il giovedì santo dissi alla mia compagna che avremmo dovuto cercare e trovare Cristo. Allora le dissi: “Andiamo all’ospedale, perché forse troveremo Cristo tra quei poveri sofferenti afflitti”. Quindi dei nostri veli da testa prendemmo tutti quelli che potemmo prendere. Il resto serviva per poterne trattenere qualcuno. Poi dicemmo a Giliola, inserviente dell’ospedale, che li vendesse per comprare del cibo per quelli dello spedale. Lei allora, sebbene si rifiutasse di farlo col dire che stavamo prendendola in giro, tuttavia, per la nostra forte insistenza, lo fece: vendette quei veli e ne comperò dei pesci. Noi poi donammo tutti i pani che ci erano stati dati per nostro cibo. E dopo aver offerto queste cose, lavammo i piedi delle donne e lavammo le mani degli uomini, specialmente di un lebbroso, che aveva le mani ormai putrefatte marce perse. E ne bevemmo l’acqua. Allora sentivamo tanta dolcezza, che facemmo tutta la strada del ritorno con grande soavità, come se ci fossimo comunicate. E mi sembrava davvero che mi fossi comunicata, perché la grandissima soavità che sentivo era quella della comunione. E poiché una crosta di quelle piaghe mi si era conficcata nella gola, cercavo di inghiottirla, perché la coscienza mi rimordeva di espellerla, come se si trattasse della comunione, anche se l’avrei espulsa non per gettarla via, ma per toglierla dalla gola».
(da «Angela da Foligno. La croce e l’amore», testi scelti e presentati da M. Ceschia, Edizioni Messaggero, Padova 2014, pp. 38-39)
ARTICOLO DI: Marzia Ceschia
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