mons. Francesco Lambiasi"Eucaristia, pane per il cuore nuovo"

Eucaristia, pane per il cuore nuovo
Il pane della domenica
XVIII Domenica del Tempo Ordinario (Anno B)
Vangelo: Gv 6,24-35
Chi viene a me non avrà più fame, e chi crede in me non avrà più sete
Parole, parole: parole dette e parole scritte; parole per gli affari e parole per gli affetti; parole d’amore e parole di morte; parole frivole e parole nobili; parole gridate e parole sussurrate... Le
parole si moltiplicano, si accumulano, si sprecano; bombardano messaggi, disegnano sogni, proiettano miraggi, e promettono, promettono: il pane, il benessere, il divertimento, la felicità per tutti e a prezzi stracciati. Parole, parole, parole... Il giudizio dell’antico saggio appare inappellabile: “Tutte le parole sono logore, e l’uomo non può più usarle” (Qo 1,8). È vero: le nostre parole spesso sono “vuoto spinto”, flusso futile, specchio di uno sterminato deserto interiore; si spengono appena pronunciate, non hanno un’anima dentro di sé.
1. In linea con una concezione diffusa nell’antichità, il mondo biblico non vede nella parola umana soltanto del “fiato al vento”, un suono vuoto, un puro mezzo di comunicazione tra gli umani: poiché la parola esprime la persona, partecipa al suo dinamismo, trasmette in qualche modo l’efficacia della sua presenza. Se poi si tratta della parola di Dio, allora la parola raggiunge il massimo della sua luce e della sua forza, della capacità di dire e della potenza di fare.
Ma può il pane della terra colmare la fame del cuore umano? E, d’altra parte, può la parola del cielo saziare il nostro umanissimo bisogno di vita? La risposta alle due domande ci viene da Gesù in persona, lui, la Parola diversa, l’unica, che è “spirito e vita” e diventa presenza e dono, per sempre.
Ecco la parola: “Non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”. Questo fu l’oracolo del Signore YHWH a Mosè e fu pure la risposta del Messia, appena battezzato da Giovanni, al Tentatore nel deserto (Dt 8,3; Mt 4,4). Ora, dopo il segno dei pani, benedetti e spezzati da Gesù sulle verdi alture della Galilea, il Maestro si rivela come il “pane della vita”. Immaginiamo di sentire queste parole per la prima volta; inevitabilmente ci verrebbe da chiederci, come fecero gli ebrei davanti alla manna:“Man hu: che cos’è?” (1ª lettura). L’auto-rivelazione di Gesù comincia nel vangelo di oggi con tre passaggi indispensabili e progressivi.
Il primo riguarda il salto dal pane materiale al pane di vita eterna: “Voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati” (Gv 6,26). Perché la gente cerca Gesù? Perché si è dimostrato capace di risolvere il problema numero uno della vita: il problema del pane quotidiano. Lo vorrebbero addirittura proclamare re, perché ai loro occhi si è accreditato come il messia politico, che Dio doveva mandare nel mondo per assicurare la liberazione nazionale in Israele. Insomma amano più i pani di Gesù che il Gesù dei pani. Ma ecco il primo salto: procurarsi “non il cibo che perisce, ma quello che dura per la vita eterna”. Per “vita eterna” non si deve intendere l’aldilà, ma l’esistenza condotta in comunione con Dio; non un’altra vita, ma una vita altra. Insomma il Cristo invita i suoi uditori a non vederlo come un semplice operatore di prodigi, ma a entrare nella sua realtà d’amore, a vedere in lui la manifestazione più alta della bontà di Dio.
Scatta allora la domanda: “Che cosa dobbiamo fare per compiere le opere di Dio?”. Ecco il secondo passaggio, proposto dal Maestro: dalle opere da compiere all’opera di Dio. La questione, sostiene Gesù, non è tanto di fare delle cose per Dio - osservare norme e precetti, rispettare tradizioni e consuetudini, praticare riti e frequentare funzioni religiose - ma di “credere nell’Inviato di Dio”. Anche qui, più che di un passo, si tratta di un salto: passare dal “fare” al “credere”; da una mentalità legalista, che punta a collezionare meriti davanti a Dio e ad acquistare “carte di credito” per ottenere il suo favore, passare ad accogliere il dono di Dio, che è Gesù in persona. Questa è l’opera-base: la fede, cioè aprirsi senza riserve e senza pregiudizi alla rivelazione di Gesù, accogliere la sua missione come l’opera di salvezza compiuta da Dio stesso.
A questo punto la gente non ci sta. La posta in gioco è troppo alta. Ci vuole ben altro per credere, e glielo rinfacciano: “Quale segno ci fai vedere? Quale opera compi?”. Come a dire: “Non vorrai mica farci credere che sei capace di mostrarci un segno prodigioso come la manna nel deserto?”.
Ed ecco il terzo scatto che Gesù esige dai suoi uditori: passare dalla memoria della manna nel deserto all’attesa del “pane del cielo” - a lui in persona - come dono del Padre. E qui Gesù propone la prima di sette definizioni che nel vangelo di Giovanni egli dà di sé: “Io sono il pane della vita”. Cristo è il nutrimento vero e definitivo per la fame dell’uomo: solo aderendo a lui si può saziare il nostro desiderio di vita infinita. Possiamo quindi ricostruire l’itinerario del credente, prospettato da Gesù: non pensare solo ai bisogni materiali, liberarsi di una mentalità legalista e formalista, aprirsi al dono di Dio, qual è Gesù Cristo in persona. In altre parole: cercare il pane del cielo, il pane della piena comunione con Dio, quello che può veramente saziare ogni desiderio umano.
2. Lasciamo ora che Gesù parli a noi oggi Non si tratta di fantasticare o di autosuggestionarci, perché “è Lui che ci parla quando nella Chiesa si leggono le divine Scritture” (SC 7).
Il Signore ci pone innanzitutto la stessa domanda che pose alla gente: perché mi cercate? Tante volte ci rivolgiamo a lui con la lista dei tanti bisogni materiali: che ci preservi dal tumore il più a lungo possibile; che faccia trovare un posto di lavoro a quel figlio o a quel nipote; che ci risolva i problemi di relazione con i capi o i colleghi in ufficio... Gesù invece si accredita come l’unico capace di saziare quel desiderio insoddisfatto e sempre pungente di felicità piena e duratura che ci portiamo dentro, come un marchio di fabbrica, e che viene dallo stesso Dio che ci ha creato. L’uomo infatti è “un crepaccio assetato di infinito” (Kierkegaard). Se noi ci illudiamo che la fame e la sete di felicità ci si plachi dentro ingozzandoci di cose e di beni; se ci mettiamo in testa che basti il body-building per assicurarci la pace del cuore; se ci inventiamo un Cristo con la bacchetta magica per realizzare i nostri sogni; se lo riduciamo a un “tappabuchi” per i nostri cento bisogni; se lo scambiamo per un distributore automatico di grazie per noi e di disgrazie per i nostri nemici... allora Gesù non può darci l’unica “manna” che ci fa approdare alla vera terra promessa del più profondo desiderio umano, il pane della sua parola e del suo corpo.
Gesù non può essere il nostro pane, fino a quando noi cerchiamo altri “pani”.
Gesù non ci inganna, ma ad una condizione: che noi non ci inganniamo su di lui.
Gesù non può essere il Signore della nostra vita, finché il nostro Dio è il nostro io.
Commento di mons. Francesco Lambiasi

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