mons. Francesco Lambiasi Quando “due” diventa uguale a “uno”

 Quando “due” diventa uguale a “uno”
Il pane della domenica  
XXVII Domenica del Tempo Ordinario (Anno B) 
Vangelo: Mc 10,2-16
L’uomo non separi ciò che Dio ha congiunto
Sappiamo che, se si vuole conoscere cosa fece e disse Gesù, non c’è da fare altro che aprire i libretti dei quattro vangeli. Ma forse abbiamo
anche letto o udito che qualche rarissimo detto di Cristo ci è stato conservato altrove, come per esempio quel versetto: “C’è più gioia nel dare che nel ricevere”, che si legge, citato da s. Paolo, negli Atti degli apostoli (20,35). Alcune di queste perle si trovano anche nei cosiddetti vangeli apocrifi e negli scritti dei Padri della Chiesa. Eccone due, che hanno particolare attinenza con il messaggio evangelico di oggi. “A un tale che gli chiedeva: Quando verrà il Regno di Dio? Gesù rispose: Quando due saranno uno”. E un altro giorno Gesù dichiarò: “L’amore non dice: Questo è mio, ma dice: Questo è tuo”.
1. La 1ª lettura ci ha raccontato il che abita ogni cuore umano, un sogno che diventa tormento lancinante quando non si riesce a realizzare, nel qual caso può addirittura trasformarsi in incubo spaventoso e frustrante. Un ragazzo e una ragazza che si incontrano sul sentiero dell’amore, si portano dentro un desiderio infinito di felicità, ma sanno anche di avere una capacità limitata e finita di donarsi reciprocamente gioia e pieno appagamento. La cosa potrebbe diventare davvero drammatica: due solitudini che si incrociano, di per sé, semplicemente assommate, non fanno una unità. Rischiano anzi di entrare in rotta di collisione e di produrre una solitudine ancora più triste e amara. Anziché donarsi amore e felicità, i due corrono seriamente il pericolo di infliggersi vicendevolmente infelicità e morte. Ma quale lieta sorpresa quando si scopre che il sogno di due cuori innamorati combacia con quello di Dio: risalendo il corso del fiume del loro amore, i due ritrovano la sorgente fresca e zampillante dell’amore perenne, incontaminato, indistruttibile, appunto divino: “Non è bene che l’uomo sia solo... e i due saranno una sola carne, un cuore solo e un’anima sola”.
Resta però il dramma: dove trovare l’energia per realizzare questo sogno che è infinito, mentre le forze disponibili sono finite, fragili e incerte, e il cuore, per quanto buono o almeno bonario, è bacato dal virus dell’egoismo e ferito dal peccato? A impedire irrimediabilmente il volo verso i cieli alti dell’amore, ci si mette poi la paura angosciante della morte. Ne parla in termini drammatici la lettera agli Ebrei, proprio nelle righe seguenti al brano che abbiamo appena ascoltato (Ebr 2,14s). In sintesi quella parola di Dio ci dice che il demonio ha il potere della morte, e la paura della morte tiene gli uomini - fatti di carne e di sangue - sotto scacco matto, in terribile, permanente stato di schiavitù.
Chi spezzerà questo cerchio infernale? L’uomo non può, il demonio non vuole! Ma Gesù, l’amore di Dio fatto carne, ha preso parte alla nostra vicenda, è entrato nella nostra natura e con la sua morte ha distrutto definitivamente il potere del demonio. Inoltre con la sua risurrezione ci ha fatti passare dalla paura della morte alla morte della paura: l’amore è fin
Non è più un miraggio disperante, né un incubo cupo e affliggente: è grazia, che non solo ci dona di fare quello che possiamo, ma anche di ottenere quello che non possiamo.
Un uomo e una donna che uniscono le loro vite nel nome benedetto del Signore, vengono abilitati a realizzare l’amore più forte e intenso che ci possa essere: un amore unico, indissolubile, fecondo; che è come dire: un amore totale, inesauribile, traboccante.
Questo tipo di matrimonio non è il carcere orrendo dell’amore, ma il suo habitat vitale; non è la tetra tomba della felicità, ma la strada sicura per trovarla; non spegne l’affettività o la sessualità, ma la tiene in vita. Provare per credere; del resto basta vedere il costo morale e sociale della strada opposta, quella dell’amore “a tempo”, fin che ci fa piacere, o fin che ci conviene stare insieme: “finché la barca va...”. Come non aprire gli occhi sul mare di sofferenze che derivano dai sentimenti calpestati, dai coniugi abbandonati, dai figli contesi, dalla vergogna della pedofilia, da una società “senza cuore” (Rm 1,31) per l’esaltazione del libero godimento, insensibile alle sofferenze degli altri!
2. Quando la proposta cristiana cominciò a farsi luce nel mondo romano, apparve come un ideale incredibile, troppo al di sopra delle nostre spalle, praticamente impossibile.
Che cosa fecero allora i giovani cristiani? Non rinunciarono a sposarsi, ma neanche si adeguarono al modello pagano di matrimonio e neppure si misero a sbraitare o a recriminare contro la legge giudaica o il diritto romano, che consentiva l’iniziativa di divorzio anche alla donna. Scelsero di sposarsi “in Cristo” ed ecco cosa ne venne fuori: un capolavoro! Ascoltiamo la testimonianza di un avvocato pagano di Cartagine, Tertulliano, già sposato, quando attorno al 193 d.C. si convertì al cristianesimo: “Quale coppia è mai quella di due cristiani, uniti da una sola speranza, un solo desiderio, una sola disciplina, un solo servizio di Dio! Ambedue sono fratelli, uguali tutti e due in quel loro servizio. Niente li separa né nello spirito, né nella carne; al contrario, sono veramente due in una sola carne. E dove vi è una sola carne, lì vi è pure un solo spirito. Infatti insieme pregano, insieme si istruiscono, a vicenda si esortano, a vicenda si confortano. Tutti e due si riconoscono in perfetta uguaglianza nella Chiesa di Dio, nel banchetto di Dio; in perfetta uguaglianza nelle prove, nelle persecuzioni, nelle consolazioni. Nessuno dei due si nasconde all’altro, nessuno si sottrae all’altro, nessuno è di peso all’altro. Là dove i due sono riuniti, Cristo è presente in mezzo a loro, e dove Cristo è presente, là è assente il Maligno”.
Ed ecco come più o meno nello stesso periodo la celebre Lettera a Diogneto parla dei cristiani quando si sposano: “I cristiani non si distinguono dagli altri uomini né per territorio, né per lingua, né per vestito. (...) Si sposano come gli altri e hanno figli, ma non abbandonano i neonati. Vivono nella carne, ma non secondo la carne. Passano la loro vita sulla terra, ma sono cittadini del cielo. Obbediscono alle leggi stabilite, ma con il loro tenore di vita superano le leggi”.
Fu così che i coniugi cristiani seppero andare in controtendenza e fecero diventare questo tipo di matrimonio un ideale appetibile e un modello concretamente praticamente.
È la strada che i discepoli di Gesù sono chiamati a percorre di nuovo oggi: annunciare la bellezza del matrimonio cristiano attraverso esperienze autentiche, credibili, attraenti. Per questo occorrono sposi e genitori maturi nell’amore, capaci di quella fedeltà per cui si sta insieme non perché non ci si può separare, ma perché ci si vuole veramente bene.
Quando si conclude un rito di matrimonio, al momento del congedo, verrebbe da dire agli sposi: Andate in pace, ma non mettetevi l’anima in pace. Andate a portare a tutti la bella notizia dell’amore “in Cristo”: quello umile, che non si stanca di ricominciare ogni mattina, capace di fiducia, di sacrificio; l’amore di un uomo e di una donna che sanno ridirsi ogni giorno, fino all’ultimo giorno: “Ti amo non perché ho bisogno di te”, ma: “Ho bisogno di te perché ti amo”.
Questo è il nuovo “cantico dei cantici” che compete specificamente ai laici cristiani coniugati: non soltanto sono loro che lo devono cantare, ma lo possono cantare soltanto loro.
Commento di mons. Francesco Lambiasi

Commenti

Post più popolari