mons. Francesco Lambiasi"Né fondamentalismo né relativismo"

Né fondamentalismo né relativismo
Il pane della domenica  
XXVI Domenica del Tempo Ordinario (Anno B) 
Vangelo: Mc 9,38-43.45.47-48 
Se la tua mano ti scandalizza, tagliala
Fondamentalismo è parola terrificante che fa piangere e tremare. E continua a far morire: vedi i kamikaze, con il loro folle disegno di uccidersi per uccidere. Fino a qualche anno fa la parola fondamentalismo, con tutta la nuvola nera del vocabolario del terrore, quasi non veniva usata o comunque lo era solo per
tristi esperienze passate, o anche attuali ma tutto sommato periferiche e marginali. Oggi ce la ritroviamo tutti i giorni in tutti i giornali e telegiornali, e basta cliccare un qualsiasi motore di ricerca a questa voce per vedersi rovesciare addosso una lista interminabile di ben 133mila riferimenti. Nessuna religione è esente dall’assalto di questo microbo mortifero, neanche il cristianesimo, la religione rivelata. Lo sapeva bene lo stesso Gesù se, più di una volta, ha dovuto mettere in guardia i suoi discepoli da quell’esclusivismo fanatico e intransigente che porta a dividere gli uomini in due categorie: i nostri, gli altri.
1. Anche oggi la sua parola ha il sibilo di una staffilata; abbiamo ascoltato: “chi non è contro di noi, è con noi”. Ricordiamo il contesto: Gesù è in cammino verso Gerusalemme, e non si stanca di chiarire ai discepoli il perché di questo insolito pellegrinaggio. Non sta andando nella città santa per sbaragliare i romani e riconquistare il regno di Davide; ha deciso di dirigersi lì per dare l’estrema testimonianza di fedeltà alla missione che il Padre gli ha affidato. Ma i discepoli non ci stanno a questo discorso duro e crudo, di fallimento e di croce, né riescono a capire cosa significhi risurrezione dai morti (Mc 9,10; cfr. Gv 2,19-22). Si sono messi in testa il cliché del Messia vincitore e proprio non ce la fanno ad accettare neanche la più lontana ipotesi di un Messia sconfitto. Ma Gesù tira dritto per la sua strada e continua, imperterrito e inflessibile, a fare ai Dodici “scuola di croce”.
Ora i suoi hanno appena hanno visto un tale che, non facendo parte del gruppo, va in giro usando il nome di Cristo per scacciare i demoni: ma come si permette? Non hanno fatto bene Simone e compagni a proibirglielo?, domanda Giovanni, intransigente e petulante. I discepoli hanno coscienza di appartenere al piccolo gregge di Cristo, e hanno buone ragioni per pensarlo. Ma la loro visuale è ristretta dai paraocchi del particolarismo più gretto, chiamiamolo pure con il suo giusto nome: settarismo. Gesù, certo, è e resta il Maestro degli apostoli, ma non è e non potrà mai essere il loro geloso monopolio. Lo Spirito di Cristo può operare e di fatto opera il bene anche oltre la cerchia di quanti appartengono visibilmente a lui, e quindi i discepoli del Signore non possono non rallegrarsi nel vedere anche i più piccoli germogli di bene, da qualsiasi parte provengano, perché in ultima analisi provengono da Dio stesso.
Tale questione non finiva di appassionare le prime generazioni cristiane: che cosa pensare degli “altri” che pur non essendo dei nostri, pur non credendo in Cristo, pur non aderendo alla Chiesa, conducono una vita moralmente onesta e presentano delle manifestazioni che non possono non provenire dallo Spirito Santo?
2. Come si vede, si tratta di una questione quanto mai attuale: perché si deve fare attività missionaria verso i non cristiani? Non possono salvarsi anch’essi seguendo la loro religione? Non bisogna rispettare la loro coscienza e la loro cultura?
Dopo il Concilio la Chiesa ha riscoperto la consapevolezza di essere tutta missionaria, ma paradossalmente proprio in quegli anni si è andato attenuando lo slancio e l’ardore che fino allora aveva spinto tanti, in grandissima parte sacerdoti e religiose, a lasciare anche la patria per andare in paesi lontani ad annunciare il vangelo, come risulta da un dato allarmante: da allora hanno cominciato a calare in caduta verticale le vocazioni missionarie specifiche, quelle a cuore pieno e senza limiti di tempo: le vocazioni a vita.
Perché dunque la missione? Perché Cristo è l’unico Salvatore di tutti, anche di quelli che non lo conoscono: “è la sorgente originaria dei valori che già possiedono e la meta nascosta a cui tendono, perché tutti sono creati in lui e orientati alla comunione con lui” (CdA 574). Se è vero che ogni scintilla di verità, ogni frammento di bellezza, ogni germe di bontà “da qualsiasi parte provenga, viene ultimamente dallo Spirito Santo” (s. Tommaso), questo è un motivo in più perché i non cristiani di buona volontà che beneficiano di queste luci e di questi doni siano aiutati a scoprirne la fonte, e quindi a conoscere il nome di Cristo, a riconoscere il suo volto per entrare in un rapporto consapevole e pieno con lui e con la sua Chiesa. In effetti come possiamo non sentire un desiderio ardente di condividere con tanti fratelli che ne sono all’oscuro gli immensi tesori di luce e di grazia - si pensi anche solo alla parola di Dio e ai sacramenti - che noi, senza alcun nostro merito ma per puro dono, sperimentiamo nella Chiesa?
Occorre anche ricordare che il vangelo è per la piena liberazione dell’uomo, per la sua autentica promozione, e quindi si deve sempre tener presente che l’incontro esplicito con il Signore Gesù nella comunità cristiana libera tutti gli elementi positivi - presenti nelle altre religioni e nelle varie forme di umanesimo non credente - dalle incrostazioni dell’errore e del peccato e li porta a piena maturazione. Il Vaticano II insegna: “Ogni germe di bene che si trova nella mente e nel cuore degli uomini o nei riti e nelle culture proprie dei popoli” viene “purificato, elevato e portato a compimento” dal cristianesimo (NA 2).
3. Oggi però bisogna francamente riconoscere che per noi, cristiani-cattolici dell’Occidente, il pericolo numero uno, più che il fondamentalismo o il settarismo, sembra piuttosto il relativismo: per noi è vera la nostra fede, per gli altri la loro.
Certo, noi cristiani dobbiamo dialogare con i seguaci di altre religioni per conoscerli obiettivamente ed essere da loro correttamente conosciuti, in modo da stabilire relazioni reciproche di rispetto, di stima, di amicizia. Ma il dialogo interreligioso non è una trattativa diplomatica, come se la questione fosse semplicemente di stabilire rapporti di buon vicinato o di evitare reciproche interferenze o, peggio, odiose invasioni di campo. Oggi occorre piuttosto liberarsi da quella che papa Benedetto chiama “la dittatura del relativismo”: non è vero che una religione vale l’altra. La Chiesa nasce a Pentecoste con questa certezza irrinunciabile per ognuno che ne voglia far parte: “In nessun altro (all’infuori di Gesù Cristo) c’è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati” (At 4,12). Pertanto “il dialogo deve essere sempre condotto e attuato con la convinzione che la Chiesa è la via ordinaria di salvezza e che solo essa possiede la pienezza dei mezzi di salvezza”, ha scritto Giovanni Paolo II (Rm 55).
La domanda che ci pone oggi la parola di Dio la possiamo formulare con le parole che, in un dramma di P. Claudel, la protagonista ormai cieca, Violaine, pone perentoriamente a quanti godono del dono della vista: “Ma voi che ci vedete, cosa ne avete fatto della luce?”. Noi che crediamo, cosa ne stiamo facendo della fede: un possesso esclusivo, a nostro uso e consumo, o un messaggio di salvezza da comunicare a tutti?
Commento di mons. Francesco Lambiasi

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