Padre Paolo Berti“La gente, chi dice che io sia?”
Omelia
XXIV Domenica del tempo ordinario
La viva memoria di Israele continuamente considerava l'agnello pasquale il cui sangue era stato posto sugli stipiti delle porte in Egitto a difesa dell'angelo sterminatore. Il sacrificio dell'agnello e la sua consumazione era il fatto centrale della Pasqua. La viva memoria dell'alleanza del Sinai
si rapportava al sangue asperso da Mosè sul popolo a segno dell'alleanza con Dio. Liberazione dalla schiavitù egiziana e alleanza erano due basi della vita religiosa di Israele, e in entrambi c'era il sangue. La Legge prescriveva sacrifici di animali nel tempio per implorare l'aiuto di Dio, la purificazione, il perdono, per esprimere ringraziamento, e si era consapevoli che non poteva essere il sangue di vitelli o di tori a muovere Dio ad esaudire il suo popolo (Ps 39,7; 68,32), ma che nel futuro ci doveva essere un vero e perfetto sacrificio gradito a Dio, come presentava il profeta Isaia (53,7-11). Il valore davanti a Dio dei sacrifici del tempio non stava in essi, ma nel futuro sacrificio del Messia (Cf. Eb 10,3s). Su questi dati doveva esercitarsi accuratamente la riflessione di Israele, ma prima si pensò che Dio aveva la necessità di cibarsi delle vittime immolate (Ps 49,12), poi si pensò che il Messia sarebbe stato un potente della terra (Cf. Gv 6,15), così si divagò dalla Parola di Dio fallendo l'attesa di un agnello che avrebbe tolto i peccati del mondo; un agnello il cui sangue avrebbe liberato gli uomini dalle catene non del faraone, ma da quelle del Demonio. Giovanni Battista ravvivò questa attesa dell'agnello, e fece ancora di più poiché anche indicò (Gv 1,29) “l'agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo”.
Fu la deportazione a Babilonia che portò lo smacco dell'immagine del Messia-Re vincitore dei nemici. I re di Gerusalemme vedevano l'annunciato futuro re come facente parte della loro discendenza regale, come un loro successore che doveva essere da loro designato, magari seguendo la regola del primogenito. Ma questa lettura fu disastrosa.
Venne così introdotta la figura del servo sofferente di Jahvéh (Is 50,5; 53,7s; Dn 9,26) determinando che accanto alle profezie sul Messia-Re, dominatore vittorioso sui nemici, il cui regno sarebbe stato da mare a mare (Zc 9,10) e che sarebbe durato quanto il sole (Ps 72,5); Dn 7,14) ci fosse quella del servo sofferente di Jahvéh.
La figura del servo di Jahvéh introdusse con forza l'accento sull'obbedire a Dio e divenne l'icona guida del popolo sottoposto alla schiavitù babilonese. Accettare gli insulti dei dominatori, le percosse non era un gesto vuoto, assurdo, se accompagnato all'obbedienza a Dio, alla sua Parola di speranza per un futuro nuovo e luminoso.
Il servo di Jahvéh mite - "non ho opposto resistenza", "non mi sono tirato indietro", "ho presentato il dorso ai flagellatori" -, non è in una posizione di passività negativa, ma, nella sua mitezza, è in una posizione attiva, positiva, nella certezza che non sarebbe stato deluso.
Non maledice il servo di Jahvéh, non minaccia la vendetta di Dio, ma rimette la sua causa a colui che giudica con giustizia (Cf. 1Pt 2,22). E' una novità questa. Il martire di Israele non dice come Stefano (Atti 8,59): "Padre non imputar loro questo peccato", ma invece rimarca il peccato e il castigo di Dio, come si vede nella descrizione del martirio dei sette fratelli durante l'oppressione che imponeva ad Israele i costumi dell'ellenismo Queste le espressioni dei sette fratelli uccisi; (2 Mac 7,14): "ma per te non ci sarà davvero la risurrezione per per la vita"; (7,17): "Quanto a te, aspetta e vedrai la grandezza della sua forza, come strazierà te e la tua discendenza"; ( 7,19): "Ma tu non credere di andare impunito". Giusto tutto ciò, ma al martire di Israele mancava il tassello principe ed essenziale, mancava l'esempio, come pure lo Spirito Santo.
Il popolo ritornò dall'esilio babilonese nella terra promessa, e il trono di Davide rimase però occupato da un potere straniero. La volontà di liberazione dal potere straniero portò di nuovo a guardare al Messia-Re, senza unirvi la figura del servo di Jahvéh. La profezia del Messia sofferente venne ben presto accantonata per un quadro di lotta militare per la libertà dai dominatori stranieri. Ancora, dunque, una lettura errata del Messia, che poi porterà alla ribellione a Roma e nel 70 d.C. alla distruzione di Gerusalemme.
Un pensare umano duro da rimuovere, che troviamo ancora sulle labbra di Pietro, proprio dopo la sua professione di fede (Mt 16,16): "Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente".
Gesù presentò l'annuncio della sua futura morte da parte del sinedrio, degli scribi, e dei sommi sacerdoti; era la presentazione delle sofferenze del servo di Jahvéh, ma Pietro non intese, o meglio non volle attendere di capire, poiché gli pareva che Gesù non potesse avere una tale fine, possedendo la possibilità di prevalere sui suoi nemici. Ma, ecco il punto grave, Pietro non presentò la sua difficoltà di fronte alle parole di Gesù, ma presentò a Gesù il suo consiglio, la sua soluzione. Il testo dice che Pietro prese in disparte Gesù, segno di un discorso a quattrocchi e molto appassionato. Pietro propose come soluzione di non andare a Gerusalemme, ma di rimanere nell'ambito protettivo dell'amore dei discepoli. Pietro così circoscriveva Gesù al gruppo degli apostoli e dei discepoli, il quale gruppo sarebbe stato il gruppo forte da far crescere fino ad un ingresso trionfale in Gerusalemme, per la vittoria contro i romani e quelli del tempio e l'avvento del regno messianico promesso nelle Scritture.
Chiaro! Pietro, con il suo disegno, non segue più Gesù, ma vuole che sia Gesù a seguire lui. E sbanda misconoscendo che Gesù che aveva un cammino segnato dalla volontà del Padre. Da qui la reazione fortissima del Maestro: "Va’ dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini". Dunque Pietro vuole seguire Gesù senza "seguire" Gesù. Il pericolo che il pensiero di Pietro prenda piede è tale che il Maestro, convocati discepoli e folla impartisce l'insegnamento su come veramente si segue lui.
E' la lezione su come ci si libera dal pensare secondo gli uomini e quindi come si segue veramente Gesù. L'uomo per il peccato originale è spinto - non ineluttabilmente, così che non vi sia possibilità di vittoria - verso la voglia di affermare se stesso, di ascoltare la voce della carne; di avere una vita che non conosca il dolore, ma il successo, il benessere, l'ammirazione degli altri. L'uomo desidera primeggiare, essere autosufficiente, senza bisogno di Dio. Tutto ciò costituisce l'orizzonte dove lampeggiano i bui pensieri dell'uomo, le sue dottrine di morte, le sue concezioni dissennate sulla vita, i suoi ciechi disegni per il presente e per il futuro.
Ecco il correttivo liberante, salvifico: "Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua...".
Non si può seguire Gesù, e nel contempo coltivare il pensare degli uomini. Tale situazione porta al dramma di una fede in Gesù senza senza seguirlo lungo la strada da lui tracciata, e perciò è fede non fede.
E' la fede morta in sé stessa come dice Giacomo, che ci presenta al proposito degli esempi facili, che toccano il concreto. Da una parte di fronte ad un bisognoso si è pronti a fare una esortazione e si detta anche un programma: “scaldatevi e saziatevi”, ma poi non si fa niente per il bisognoso pur potendolo fare. Volendo fare un riferimento semplice, è esattamente quanto dice un proverbio comunissimo, che passa per buono: "Dio per tutti e ognuno per sé!".
Credere è amare. Chi crede, ma non ama, è nella morte.
Dunque, Gesù dice di rinnegare se stessi; infatti l'uomo sperimenta continuamente in sé una certa inclinazione a seguire il dettato dell'egoismo, dell'amor proprio, della carne; cosicché egli deve continuamente porre sulla cattedra del proprio cuore la parola di Dio badando a far sì che su quella cattedra non ritorni l'egoismo, che continuamente tenta di ritornarvi per dettare i suoi stolti insegnamenti. Rinnegare sé stessi non vuol dire essere degli autolesionisti, che atrofizzano le loro risorse umane, ma è far sì che le risorse umane non diventino possesso dell'egoismo e vengano invece purificate e lievitate dalla parola di Dio e dalla sua grazia. Non si tratta di non amare se stessi, ma di amare veramente se stessi rifiutando quanto ci aliena dal vero bene. Il rinnegare sé stessi non va letto sul piano della psicologia, nella quale si ha cura di rifiutare l' autolesionismo dando l'indicazione di un sano pensare di sé, ma si pone sul piano di un pensare sé secondo il messaggio di Cristo. Il rinnegare sé stessi, tuttavia, implica un'azione forte con sé stessi: vuole che ci sia una volontà decisa e recisa (Mt 5,30): "Se la tua mano destra ti è motivo di scandalo, tagliala...".
Condizione per seguire Gesù è accettare la strada che lui ha percorso e tracciato per noi, sapendo che se ci fosse stata strada migliore ce l'avrebbe indicata. E' accettare di prendere la propria croce, quella che si ha, quella che nasce dalle circostanze della vita, dagli incontri, dalle malattie. Prendere la propria croce è eliminare da sé l'insofferenza, è accettare le difficoltà senza perdersi nel lamento che non fa che aumentare le difficoltà.
Tornando a Pietro, egli aveva a cuore il successo, ed era pronto a fatiche, a combattimenti, per perseguirlo. Un successo qui in terra, e perciò andare a Gerusalemme con la conseguenza di essere messo a morte per lui era uno sbaglio, una svista della generosità. Nessuna svista di generosità; seguire Gesù richiede questa generosità: la conversione, cioè accogliere l'itinerario di Gesù. Pietro era disposto ad essere generoso, pronto a morire, ma con la spada in mano, non generoso a morire amando, perdonando, senza la spada in mano.
La conversione è un'inversione del cammino, appunto andare a Gerusalemme, e quindi accettare patimenti, oltraggi, morte. Dopo aver accettato le croci quotidiane, ecco le grandi croci, le croci magnifiche, quelle che sono presentate nel discorso della montagna (Mt 5,11): "Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia...". Le croci quotidiane sono le croci inevitabili del nostro vivere; non accettarle è essere degli insofferenti. Chi le sa sostenere diventa idoneo alle grandi croci, quelle della testimonianza aperta e coraggiosa di Gesù.
Per andare a Gerusalemme, e quindi essere testimoni dell'amore che non indietreggia di fronte all'odio del mondo, poiché ha la volontà di vincerlo con l'amore, bisogna rintuzzare il pensare secondo gli uomini. Allora si segue Gesù, nell'abbraccio delle grandi e magnifiche croci, quelle che il mondo e il Demonio pongono sulle spalle di coloro che vivono il Vangelo. Molti seguono Gesù nel deserto attratti dai miracoli, mossi dalla fiducia che avranno il pane; molti lo seguono per ascoltare la parola sul regno dei cieli, sulla misericordia del Padre, sulla vita eterna, ma pochi lo seguono oltre l'orto degli ulivi, che è il confine che i generosi varcano, mentre gli altri tornano indietro. Ma quei pochi grandi generosi - che dovrebbero essere tanti e tanti - conoscono la gioia che Gesù ha proclamato sul monte delle beatitudini: “Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli". Amen. Ave Maria. Vieni, Signore Gesù.
XXIV Domenica del tempo ordinario
La viva memoria di Israele continuamente considerava l'agnello pasquale il cui sangue era stato posto sugli stipiti delle porte in Egitto a difesa dell'angelo sterminatore. Il sacrificio dell'agnello e la sua consumazione era il fatto centrale della Pasqua. La viva memoria dell'alleanza del Sinai
si rapportava al sangue asperso da Mosè sul popolo a segno dell'alleanza con Dio. Liberazione dalla schiavitù egiziana e alleanza erano due basi della vita religiosa di Israele, e in entrambi c'era il sangue. La Legge prescriveva sacrifici di animali nel tempio per implorare l'aiuto di Dio, la purificazione, il perdono, per esprimere ringraziamento, e si era consapevoli che non poteva essere il sangue di vitelli o di tori a muovere Dio ad esaudire il suo popolo (Ps 39,7; 68,32), ma che nel futuro ci doveva essere un vero e perfetto sacrificio gradito a Dio, come presentava il profeta Isaia (53,7-11). Il valore davanti a Dio dei sacrifici del tempio non stava in essi, ma nel futuro sacrificio del Messia (Cf. Eb 10,3s). Su questi dati doveva esercitarsi accuratamente la riflessione di Israele, ma prima si pensò che Dio aveva la necessità di cibarsi delle vittime immolate (Ps 49,12), poi si pensò che il Messia sarebbe stato un potente della terra (Cf. Gv 6,15), così si divagò dalla Parola di Dio fallendo l'attesa di un agnello che avrebbe tolto i peccati del mondo; un agnello il cui sangue avrebbe liberato gli uomini dalle catene non del faraone, ma da quelle del Demonio. Giovanni Battista ravvivò questa attesa dell'agnello, e fece ancora di più poiché anche indicò (Gv 1,29) “l'agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo”.
Fu la deportazione a Babilonia che portò lo smacco dell'immagine del Messia-Re vincitore dei nemici. I re di Gerusalemme vedevano l'annunciato futuro re come facente parte della loro discendenza regale, come un loro successore che doveva essere da loro designato, magari seguendo la regola del primogenito. Ma questa lettura fu disastrosa.
Venne così introdotta la figura del servo sofferente di Jahvéh (Is 50,5; 53,7s; Dn 9,26) determinando che accanto alle profezie sul Messia-Re, dominatore vittorioso sui nemici, il cui regno sarebbe stato da mare a mare (Zc 9,10) e che sarebbe durato quanto il sole (Ps 72,5); Dn 7,14) ci fosse quella del servo sofferente di Jahvéh.
La figura del servo di Jahvéh introdusse con forza l'accento sull'obbedire a Dio e divenne l'icona guida del popolo sottoposto alla schiavitù babilonese. Accettare gli insulti dei dominatori, le percosse non era un gesto vuoto, assurdo, se accompagnato all'obbedienza a Dio, alla sua Parola di speranza per un futuro nuovo e luminoso.
Il servo di Jahvéh mite - "non ho opposto resistenza", "non mi sono tirato indietro", "ho presentato il dorso ai flagellatori" -, non è in una posizione di passività negativa, ma, nella sua mitezza, è in una posizione attiva, positiva, nella certezza che non sarebbe stato deluso.
Non maledice il servo di Jahvéh, non minaccia la vendetta di Dio, ma rimette la sua causa a colui che giudica con giustizia (Cf. 1Pt 2,22). E' una novità questa. Il martire di Israele non dice come Stefano (Atti 8,59): "Padre non imputar loro questo peccato", ma invece rimarca il peccato e il castigo di Dio, come si vede nella descrizione del martirio dei sette fratelli durante l'oppressione che imponeva ad Israele i costumi dell'ellenismo Queste le espressioni dei sette fratelli uccisi; (2 Mac 7,14): "ma per te non ci sarà davvero la risurrezione per per la vita"; (7,17): "Quanto a te, aspetta e vedrai la grandezza della sua forza, come strazierà te e la tua discendenza"; ( 7,19): "Ma tu non credere di andare impunito". Giusto tutto ciò, ma al martire di Israele mancava il tassello principe ed essenziale, mancava l'esempio, come pure lo Spirito Santo.
Il popolo ritornò dall'esilio babilonese nella terra promessa, e il trono di Davide rimase però occupato da un potere straniero. La volontà di liberazione dal potere straniero portò di nuovo a guardare al Messia-Re, senza unirvi la figura del servo di Jahvéh. La profezia del Messia sofferente venne ben presto accantonata per un quadro di lotta militare per la libertà dai dominatori stranieri. Ancora, dunque, una lettura errata del Messia, che poi porterà alla ribellione a Roma e nel 70 d.C. alla distruzione di Gerusalemme.
Un pensare umano duro da rimuovere, che troviamo ancora sulle labbra di Pietro, proprio dopo la sua professione di fede (Mt 16,16): "Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente".
Gesù presentò l'annuncio della sua futura morte da parte del sinedrio, degli scribi, e dei sommi sacerdoti; era la presentazione delle sofferenze del servo di Jahvéh, ma Pietro non intese, o meglio non volle attendere di capire, poiché gli pareva che Gesù non potesse avere una tale fine, possedendo la possibilità di prevalere sui suoi nemici. Ma, ecco il punto grave, Pietro non presentò la sua difficoltà di fronte alle parole di Gesù, ma presentò a Gesù il suo consiglio, la sua soluzione. Il testo dice che Pietro prese in disparte Gesù, segno di un discorso a quattrocchi e molto appassionato. Pietro propose come soluzione di non andare a Gerusalemme, ma di rimanere nell'ambito protettivo dell'amore dei discepoli. Pietro così circoscriveva Gesù al gruppo degli apostoli e dei discepoli, il quale gruppo sarebbe stato il gruppo forte da far crescere fino ad un ingresso trionfale in Gerusalemme, per la vittoria contro i romani e quelli del tempio e l'avvento del regno messianico promesso nelle Scritture.
Chiaro! Pietro, con il suo disegno, non segue più Gesù, ma vuole che sia Gesù a seguire lui. E sbanda misconoscendo che Gesù che aveva un cammino segnato dalla volontà del Padre. Da qui la reazione fortissima del Maestro: "Va’ dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini". Dunque Pietro vuole seguire Gesù senza "seguire" Gesù. Il pericolo che il pensiero di Pietro prenda piede è tale che il Maestro, convocati discepoli e folla impartisce l'insegnamento su come veramente si segue lui.
E' la lezione su come ci si libera dal pensare secondo gli uomini e quindi come si segue veramente Gesù. L'uomo per il peccato originale è spinto - non ineluttabilmente, così che non vi sia possibilità di vittoria - verso la voglia di affermare se stesso, di ascoltare la voce della carne; di avere una vita che non conosca il dolore, ma il successo, il benessere, l'ammirazione degli altri. L'uomo desidera primeggiare, essere autosufficiente, senza bisogno di Dio. Tutto ciò costituisce l'orizzonte dove lampeggiano i bui pensieri dell'uomo, le sue dottrine di morte, le sue concezioni dissennate sulla vita, i suoi ciechi disegni per il presente e per il futuro.
Ecco il correttivo liberante, salvifico: "Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua...".
Non si può seguire Gesù, e nel contempo coltivare il pensare degli uomini. Tale situazione porta al dramma di una fede in Gesù senza senza seguirlo lungo la strada da lui tracciata, e perciò è fede non fede.
E' la fede morta in sé stessa come dice Giacomo, che ci presenta al proposito degli esempi facili, che toccano il concreto. Da una parte di fronte ad un bisognoso si è pronti a fare una esortazione e si detta anche un programma: “scaldatevi e saziatevi”, ma poi non si fa niente per il bisognoso pur potendolo fare. Volendo fare un riferimento semplice, è esattamente quanto dice un proverbio comunissimo, che passa per buono: "Dio per tutti e ognuno per sé!".
Credere è amare. Chi crede, ma non ama, è nella morte.
Dunque, Gesù dice di rinnegare se stessi; infatti l'uomo sperimenta continuamente in sé una certa inclinazione a seguire il dettato dell'egoismo, dell'amor proprio, della carne; cosicché egli deve continuamente porre sulla cattedra del proprio cuore la parola di Dio badando a far sì che su quella cattedra non ritorni l'egoismo, che continuamente tenta di ritornarvi per dettare i suoi stolti insegnamenti. Rinnegare sé stessi non vuol dire essere degli autolesionisti, che atrofizzano le loro risorse umane, ma è far sì che le risorse umane non diventino possesso dell'egoismo e vengano invece purificate e lievitate dalla parola di Dio e dalla sua grazia. Non si tratta di non amare se stessi, ma di amare veramente se stessi rifiutando quanto ci aliena dal vero bene. Il rinnegare sé stessi non va letto sul piano della psicologia, nella quale si ha cura di rifiutare l' autolesionismo dando l'indicazione di un sano pensare di sé, ma si pone sul piano di un pensare sé secondo il messaggio di Cristo. Il rinnegare sé stessi, tuttavia, implica un'azione forte con sé stessi: vuole che ci sia una volontà decisa e recisa (Mt 5,30): "Se la tua mano destra ti è motivo di scandalo, tagliala...".
Condizione per seguire Gesù è accettare la strada che lui ha percorso e tracciato per noi, sapendo che se ci fosse stata strada migliore ce l'avrebbe indicata. E' accettare di prendere la propria croce, quella che si ha, quella che nasce dalle circostanze della vita, dagli incontri, dalle malattie. Prendere la propria croce è eliminare da sé l'insofferenza, è accettare le difficoltà senza perdersi nel lamento che non fa che aumentare le difficoltà.
Tornando a Pietro, egli aveva a cuore il successo, ed era pronto a fatiche, a combattimenti, per perseguirlo. Un successo qui in terra, e perciò andare a Gerusalemme con la conseguenza di essere messo a morte per lui era uno sbaglio, una svista della generosità. Nessuna svista di generosità; seguire Gesù richiede questa generosità: la conversione, cioè accogliere l'itinerario di Gesù. Pietro era disposto ad essere generoso, pronto a morire, ma con la spada in mano, non generoso a morire amando, perdonando, senza la spada in mano.
La conversione è un'inversione del cammino, appunto andare a Gerusalemme, e quindi accettare patimenti, oltraggi, morte. Dopo aver accettato le croci quotidiane, ecco le grandi croci, le croci magnifiche, quelle che sono presentate nel discorso della montagna (Mt 5,11): "Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia...". Le croci quotidiane sono le croci inevitabili del nostro vivere; non accettarle è essere degli insofferenti. Chi le sa sostenere diventa idoneo alle grandi croci, quelle della testimonianza aperta e coraggiosa di Gesù.
Per andare a Gerusalemme, e quindi essere testimoni dell'amore che non indietreggia di fronte all'odio del mondo, poiché ha la volontà di vincerlo con l'amore, bisogna rintuzzare il pensare secondo gli uomini. Allora si segue Gesù, nell'abbraccio delle grandi e magnifiche croci, quelle che il mondo e il Demonio pongono sulle spalle di coloro che vivono il Vangelo. Molti seguono Gesù nel deserto attratti dai miracoli, mossi dalla fiducia che avranno il pane; molti lo seguono per ascoltare la parola sul regno dei cieli, sulla misericordia del Padre, sulla vita eterna, ma pochi lo seguono oltre l'orto degli ulivi, che è il confine che i generosi varcano, mentre gli altri tornano indietro. Ma quei pochi grandi generosi - che dovrebbero essere tanti e tanti - conoscono la gioia che Gesù ha proclamato sul monte delle beatitudini: “Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli". Amen. Ave Maria. Vieni, Signore Gesù.
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