Clarisse di Via Vitellia"Non è bene che l'uomo sia solo"

Commento su Marco 10,2-16
XXVII Domenica del Tempo Ordinario (Anno B) (04/10/2015)
Vangelo: Mc 10,2-16 
COMMENTO ALLE LETTURE
Commento a cura delle Clarisse di Via Vitellia
"Non è bene che l'uomo sia solo": il grido che sale dal nostro cuore assetato di compagnia è accolto e
condiviso da Dio... di più: è ontologico, è voluto da Dio stesso nell'atto creatore, è Lui ad averlo scritto dentro di noi. "Non è bene": neppure a Dio piace la solitudine del cuore! E allora circonda l'uomo di creature: animali selvatici e uccelli del cielo, bestiame... Le conduce all'uomo e chiede all'uomo di dare loro un nome, di addomesticarli, ma "per l'uomo non trovò un aiuto che gli corrispondesse". Non stupisce, sono esseri inferiori, non è possibile un dialogo, una condivisione di intenti e di progetti: ogni creatura è bella è buona in sé e dà lode a Dio con la sua vita, ma ciò non toglie che non riesce a saziare la sete di compagnia che abita il cuore dell'uomo.
"Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull'uomo": l'unica via per trovare "un aiuto che gli corrispondesse" non è senza sofferenza, senza un prezzo che tocca l'uomo stesso, nella sua carne. L'uomo si addormenta, poi si sveglia con qualcosa di meno ma, da quel qualcosa di cui è stato privato, nasce finalmente una creatura che può stargli di fronte, e questo lo rende gioioso al punto che gli strappa dalle labbra un canto di lode, un breve ma intenso anticipo del Cantico dei cantici: "Questa volta è osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne... questa volta è come me, è me!".
Primo insegnamento che possiamo trarre dalle letture di oggi: ogni vero rapporto di comunione non si ha senza pagare qualcosa, senza che qualcosa di tuo sia messo da parte per aprire uno spazio di disponibilità e di vita all'altro. Come ci ricorda la Lettera agli Ebrei, la sofferenza è la via che conduce alla perfezione, via talmente sicura che Gesù stesso l'ha percorsa per noi e con noi, diventando così a pieno titolo nostro fratello. La comunione che non teme la sofferenza, anzi, nella sofferenza si consolida ancora di più, è la comunione perfetta.
Forti di questo insegnamento affrontiamo allora la lettura della parola del Vangelo. La domanda dei farisei a Gesù è una domanda tendenziosa, l'evangelista Marco lo rileva: volevano metterlo alla prova. Gesù, come sempre, sta fermo nella verità, quella verità che è Lui stesso e che non può dunque rinnegare. Certo, la legge dice che ad un uomo è lecito ripudiare la propria moglie, ma è tempo di dare compimento alla legge di Mosè, perché per questo è venuto Gesù: non per abolire, ma per dare compimento (cf. Mt 15,17). E "pieno compimento della legge è l'amore" (Rm 13,10): dunque "l'uomo non divida ciò che Dio ha congiunto", cioè ciò che l'amore ha congiunto. E l'amore non è un vago ed astratto sentimento, ma una legge di vita che, come ogni legge, ha una concretezza di conseguenze che lo rendono vero, vero perché verificabile. Tra queste, sicuramente fondamentale è quella che Gesù ci ha insegnato con la sua stessa vita: "Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici" (Gv 15,13).
Si diceva prima della sofferenza che rende perfetti nell'amore: se amare è dare la vita, la vita non si dona senza perderla, e perdere la vita causa dolore. Per usare le parole di un santo vescovo dei nostri tempi, Mons. Tonino Bello: "Amare, voce del verbo soffrire". Solo quell'unione resa solida e stabile nel crogiolo di una sofferenza, pazientemente accolta e portata, insieme, lasciando che ogni giorno qualcosa mi venga tolto perché l'altro abbia la vita, è garanzia di una continuità nel tempo di un rapporto. Certo, insieme: se la sofferenza è solo inferta da una parte e subita dall'altra, tutto diventa difficile... magari non impossibile, ma tremendamente difficile.
Per fare un salto temporale ed arrivare ai giorni nostri, giorni di grave disagio per la sorte della durata nel tempo delle unioni matrimoniali: in quanti casi lo sgretolarsi della comunione nasce dall'incapacità di portare il limite dell'altro, di accogliere le sorprese che l'altro riserva in una vita condivisa anche nei dettagli? Di non accettare da una parte che l'altro viva a spese della mia costola, dall'altra parte di dipendere per vivere da una costola donata? Fuori di metafora, di non riuscire a fare spazio dentro la mia vita alla vita dell'altro, perché davvero di due carni ne nasca una sola, nuova, inedita, originale, sorprendente nella sua bellezza?
Certo, a volte questo è proprio impossibile, e allora la cura materna della Chiesa interviene e scioglie un vincolo che di per sé non poteva esistere. Spesso è solo difficile, ma è ancora la cura della Chiesa a intervenire con la preghiera, la grazia dei sacramenti, il consiglio, l'attenzione della comunità...
Non a caso il vangelo termina focalizzando la nostra attenzione sui bambini: frutto di carne nato dall'amore, unica carne generata dalla fusione di due carni. Quando tutto in un matrimonio sembra crollare, restano i bambini, segno incontrovertibile di un amore. E Gesù li addita come porta sicura del Regno, della pace del Paradiso già su questa terra. Forse dovremmo fermarci ad ascoltarli, contemplando il loro gioco, accogliendo il loro pianto, riflettendo sui loro dubbi. Potrebbe essere un'ottima scuola di semplicità per affrontare le fatiche della vita, comprese le fatiche di coppia, e non scappare... sapendo che, quando l'uomo divide ciò che Dio ha unito, anche un bimbo, frutto di due carni che ormai sono una carne sola, inevitabilmente si vede lacerato nella sua stessa carne.

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