Abbazia Santa Maria di Pulsano Letture patristiche DOMENICA «DI CRISTO RE»

Letture patristiche
DOMENICA «DI CRISTO RE»
XXXIV ed ultima del Tempo per l'Anno B
Giovanni 18,33-37; Daniele 7,13-14; Salmo 92; Apocalisse 1,5-8
1. Il mio regno non è di questo mondo.
Non è di questo mondo, perché in questo mondo è peregrinante. Sino alla fine del mondo sono mischiati insieme il grano e la zizzania. Alla fine del mondo, quando la messe sarà matura, i mietitori purificheranno il regno da tutti gli scandali, il che non avrebbe senso se il regno non fosse in questo mondo.



1. In questo discorso dobbiamo vedere e commentare ciò che Pilato disse a Cristo e ciò che Cristo rispose a Pilato. Dopo aver detto ai Giudei: Prendetelo voi e giudicatelo secondo la vostra legge, e dopo che essi ebbero risposto: A noi non è permesso mettere a morte nessuno, Pilato entrò di nuovo nel pretorio, chiamò Gesù e gli disse: Tu sei il re dei Giudei? Gesù rispose: Dici questo da te, oppure altri te l'hanno detto sul conto mio? Il Signore sapeva bene ciò che domandava a Pilato e sapeva ciò che gli avrebbe risposto Pilato; tuttavia volle che parlasse, non perché avesse bisogno di apprendere, ma perché fosse scritto quanto voleva che giungesse a nostra conoscenza. Pilato rispose: Sono io forse giudeo? La tua gente e i sommi sacerdoti ti hanno consegnato a me; che hai fatto? Rispose Gesù: Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servi combatterebbero per me, affinché non fossi consegnato ai Giudei; ora invece il mio regno non è di quaggiù (Gv 18, 31.33-36). E' questo che il buon Maestro ha voluto che noi sapessimo; ma prima bisognava dimostrare quanto fosse infondata l'opinione che del suo regno avevano sia i gentili che i Giudei, dai quali Pilato l'aveva appresa. Essi ritenevano che fosse reo di morte per aver preteso un regno che non gli apparteneva; oppure perché sia i Romani che i Giudei dovevano prendere misure contro il suo regno perché avverso a loro, in quanto i regnanti di solito sono gelosi di quanti potrebbero regnare al loro posto. Il Signore avrebbe potuto rispondere subito alla prima domanda del procuratore: Tu sei il re dei Giudei?, dicendo: il mio regno non è di questo mondo. Ma egli, chiedendo a sua volta se quanto Pilato domandava, lo diceva da sé oppure l'avesse sentito dire da altri, volle dimostrare, attraverso la risposta di Pilato, che erano i Giudei a formulare tale accusa contro di lui. Egli mostra così la vanità dei pensieri degli uomini (cf. Sal 93, 11), che ben conosceva, e rispondendo loro, Giudei e gentili insieme, in modo più esplicito e diretto, dopo la reazione di Pilato dice: Il mio regno non è di questo mondo. Se avesse risposto così alla prima domanda di Pilato, poteva sembrare che egli rispondesse non anche ai Giudei ma ai soli gentili, come se fossero solo questi ad avere di lui una tale opinione. Ma dal momento che risponde: Sono io forse giudeo? La tua gente e i sommi sacerdoti ti hanno consegnato a me, Pilato allontana da sé il sospetto che fosse stato proprio lui a dire che Gesù aveva affermato di essere il re dei Giudei, dimostrando che lo aveva sentito dire dai Giudei. Dicendo poi: Che hai fatto?, lascia intendere abbastanza chiaramente che quel fatto gli veniva imputato come un delitto; come a dire: Se non sei re, che hai fatto per essere consegnato a me? Quasi non fosse strano che venisse consegnato al giudice per essere punito, chi diceva di essere re; qualora poi non l'avesse detto, sarebbe dovuto sembrare strano che fosse compito del Giudice chiedergli cos'altro avesse fatto di male per meritare di essere consegnato a lui.

[Nel regno del Figlio diletto.]
2. Ascoltate dunque, Giudei e gentili; ascoltate, circoncisi e incirconcisi; ascoltate, regni tutti della terra: Io non intralcio la vostra sovranità in questo mondo: Il mio regno non è di questo mondo. Non lasciatevi prendere dall'assurdo timore di Erode che, alla notizia della nascita di Cristo, si allarmò, e per poter colpire lui uccise tanti bambini (cf. Mt 2, 3 16), mostrandosi così crudele più nella paura che nella rabbia. Il mio regno - dice il Signore - non è di questo mondo. Che volete di più? Venite nel regno che non è di questo mondo; venite credendo, e non vogliate diventare crudeli per paura. E' vero che in una profezia, Cristo, riferendosi a Dio Padre, dice: Da lui io sono stato costituito re sopra Sion, il suo monte santo (Sal 2, 6), ma questo monte e quella Sion, di cui parla, non sono di questo mondo. Quale è infatti il suo regno se non i credenti in lui, a proposito dei quali dice: Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo? anche se egli voleva che essi rimanessero nel mondo, e per questo chiese al Padre: Non chiedo che tu li tolga dal mondo, ma che li custodisca dal male (Gv 17, 16 15). Ecco perché anche qui non dice: Il mio regno non è in questo mondo, ma dice: Il mio regno non è di questo mondo. E dopo aver provato la sua affermazione col dire: Se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servi combatterebbero per me, affinché non fossi consegnato ai Giudei, non dice: Ora il mio regno non si trova quaggiù, ma dice: il mio regno non è di quaggiù. Il suo regno infatti è quaggiù fino alla fine dei secoli, portando mescolata nel suo grembo la zizzania fino al momento della mietitura, che avverrà appunto alla fine dei tempi, quando verranno i mietitori, cioè gli angeli, a togliere via dal suo regno tutti gli scandali (cf. Mt 13, 38-41). E questo non potrebbe certo avvenire, se il suo regno non fosse qui in terra. Tuttavia, esso non è di quaggiù, perché è peregrinante nel mondo. E' precisamente agli appartenenti al suo regno che egli si riferisce quando dice: Voi non siete del mondo, ma io vi ho scelti dal mondo (Gv 15, 19). Erano dunque del mondo, quando ancora non facevano parte del suo regno, e appartenevano al principe del mondo. E' quindi del mondo tutto ciò che di umano è stato sì creato dal vero Dio, ma che è stato generato dalla stirpe corrotta e dannata di Adamo; è diventato però regno di Dio, e non è più di questo mondo, tutto ciò che in Cristo è stato rigenerato. E' in questo modo che Dio ci ha sottratti al potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del Figlio dell'amor suo (cf. Col 1, 13). Ed è appunto di questo regno che egli dice: Il mio regno non è di questo mondo, e anche: Il mio regno non è di quaggiù.

3. Gli disse allora Pilato: Dunque tu sei re? Rispose Gesù: Tu lo dici, io sono re (Gv, 18, 37). Il Signore non esita a dichiararsi re, ma la sua espressione: tu lo dici, è così misurata che non nega di essere re (re, si intende, di un regno che non è di questo mondo), ma neppure afferma di esserlo in quanto ciò potrebbe far pensare che il suo regno sia di questo mondo. Tale infatti lo considerava Pilato che gli aveva chiesto: Dunque tu sei re? Gesù risponde: Tu lo dici, io sono re. Usa l'espressione: Tu lo dici, come a dire: Tu hai una mentalità carnale e perciò non puoi esprimerti che così.

4. E prosegue: Io per questo son nato, e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità (Gv 18, 37). Non dobbiamo considerare lunga la sillaba del pronome, là dove dice: per questo son nato, come se avesse voluto dire: sono nato in questa condizione; ma dobbiamo considerarla breve, cioè come se avesse detto: per questo son nato, come appunto poi dice: per questo son venuto nel mondo. Nel testo greco, infatti, questa espressione non è affatto ambigua. Risulta quindi chiaramente che il Signore parla qui della sua nascita temporale mediante la quale, essendosi incarnato, è venuto nel mondo; non della sua nascita senza principio, per cui è Dio, per mezzo del quale il Padre ha creato il mondo. Egli afferma di essere nato per questo, e di essere venuto nel mondo, nascendo dalla Vergine, per questo, per rendere cioè testimonianza alla verità. Ma, siccome la fede non è di tutti (cf. 2 Thess 3, 2), soggiunge: Chiunque è dalla parte della verità, ascolta la mia voce (Gv 18, 37). La ascolta, s'intende, con l'udito interiore, cioè obbedisce alla mia voce: e questo è come dire che crede in me. Rendendo testimonianza alla verità, Cristo rende testimonianza a se stesso; è proprio lui che afferma: Io sono la verità (Gv 14, 6), e in un altro passo: Io rendo testimonianza a me stesso (Gv 8, 18). Dicendo ora: Chiunque è dalla parte della verità, ascolta la mia voce, vuole sottolineare la grazia con la quale egli, secondo il suo disegno, ci chiama. A proposito di questo disegno l'Apostolo dice: Noi sappiamo che a quelli che amano Dio, tutto coopera per il bene, a quelli cioè che sono stati chiamati secondo il disegno di Dio (Rm 8, 28); cioè secondo il disegno di colui che chiama, non di coloro che sono chiamati. L'Apostolo esprime questo concetto ancor più chiaramente quando dice: Collabora al Vangelo con la forza di Dio. E' lui infatti che ci ha salvati e ci ha chiamati con la sua santa vocazione, non in base alle nostre opere ma secondo il suo proposito e la sua grazia (2 Tim 1, 8-9). Se infatti consideriamo la natura nella quale siamo stati creati, chi non è dalla verità, dato che è la verità che ha creato tutti gli uomini? Ma non a tutti la verità concede di ascoltarla, nel senso di obbedire alla verità e di credere in essa: certo senza alcun merito precedente, altrimenti la grazia non sarebbe più grazia. Se il Signore avesse detto: Chiunque ascolta la mia voce, è dalla verità; si poteva pensare che uno è dalla verità per il fatto che obbedisce alla verità. Ma egli non dice così, bensì: Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce. Non è, costui, dalla verità perché ascolta la sua voce, ma ascolta la sua voce perché è dalla verità, avendogli la verità stessa concesso questa grazia. E che altro vuol dire questo, se non che è per grazia di Cristo che si crede in Cristo?

5. Gli dice Pilato: Che cosa è la verità? E non aspetta la risposta; ma detto questo, uscì di nuovo verso i Giudei e disse loro: Io non trovo in lui nessun motivo di condanna. Ma è per voi consuetudine che io vi rilasci qualcuno in occasione della Pasqua. Volete che vi rilasci il re dei Giudei? Credo che quando Pilato rivolse al Signore la domanda: Che cosa è la verità?, gli sia subito venuta in mente la consuetudine dei Giudei secondo la quale si era soliti rilasciare ad essi un condannato in occasione della Pasqua; e forse per questo motivo non aspettò che Gesù gli rispondesse che cosa fosse la verità, preoccupato com'era di non perder tempo, dato che si era ricordato di quell'usanza con cui avrebbe potuto rilasciarlo cogliendo l'occasione della Pasqua. Che seriamente volesse liberare Gesù, è evidente. Tuttavia non riuscì a levarsi dalla mente l'idea che Gesù era il re dei Giudei, come se la Verità stessa, sulla cui natura egli aveva interrogato il Signore, avesse fissato nel suo cuore, come poi nel titolo della croce, questo dato di fatto. Ma, udite queste parole, i Giudei si misero a gridare di nuovo: Non costui, ma Barabba! Barabba era un brigante (Gv 18, 38-40). Non vi rimproveriamo, o Giudei, per l'usanza che avete di liberare un malfattore in occasione della Pasqua, ma per il fatto che volete uccidere un innocente. E, tuttavia, se ciò non fosse avvenuto, non ci sarebbe stata la vera Pasqua. Nel loro errore i Giudei possedevano l'ombra della verità e, per mirabile disposizione della divina sapienza, servendosi di uomini caduti nell'errore, si compì la verità di quell'ombra, allorché Cristo come una pecora fu immolato affinché si realizzasse la vera Pasqua. Seguono gli oltraggi e i maltrattamenti inflitti a Cristo da parte di Pilato e della sua coorte, di cui ci occuperemo in un altro discorso.

(Agostino, Comment. in Ioan., 115, 1-5)


2. La città terrena è fondata sull`amore di sé, la città di Dio sull`amore di Dio

Due amori fondarono due città: l`amore di sé fino al disprezzo di Dio fondò la città terrena; l`amore di Dio fino al disprezzo di sé, invece, la città celeste. Perciò quella si gloria in se stessa, questa nel Signore. Quella ricerca la gloria dagli uomini; la gloria piú grande di questa, invece, è Dio, testimone della sua coscienza. Quella innalza il capo nella sua gloria; questa dice al suo Dio: "Gloria mia, che innalza il mio capo" (Sal 3,4). Quella è dominata dalla brama di dominio sui principi o sulle nazioni soggiogate; in questa si servono a vicenda, nella carità, i capi governando, i sudditi obbedendo. Quella ama, nei suoi potenti, la propria forza; questa dice al suo Dio: "Amo te, o Signore, o forza mia" (Sal 17,2)...
Ma la città celeste, o meglio quella sua parte che è pellegrina in questo corpo mortale e vive di fede, è necessario che fruisca di questa pace fino a quando questo suo stato mortale cui tale pace è necessaria non se ne passi. Pertanto, mentre trascorre la sua vita in schiavitú e pellegrinaggio nella città terrena, pur avendo già accolto la promessa della redenzione e il dono spirituale che ne è il pegno, non dubita di obbedire alle leggi della città terrena; quelle, cioè, con cui questa si amministra, leggi atte a sorreggere la vita mortale. Le è comune con essa il suo stato mortale: si mantiene di tal modo la concordia tra le due città in tutto ciò che a questo stato mortale si riferisce...
Questa città celeste, dunque, mentre è pellegrina sulla terra, raccoglie i propri cittadini da tutte le genti, e raduna una società pellegrinante, dai popoli di tutte le lingue: non bada a ciò che nei costumi, nelle leggi e nelle tradizioni è diverso, se pur crea o mantiene la pace terrena; nulla disprezza di quei popoli, nulla distrugge, ma anzi tutto conserva e osserva. Infatti, benché diverso in diverse nazioni, tutto serve allo stesso fine di ottenere la pace terrena, se non impedisce la religione che ci insegna di dover adorare un unico sommo e vero Dio. La città celeste, dunque, gode, in questo suo pellegrinaggio, della pace terrena e di tutto ciò che giova alla natura umana; difende e desidera, quanto lo ammette l`integrità della devozione e della religione, la concordia delle volontà e mette in rapporto la pace terrena alla pace terrestre. Ma è quest`ultima la vera pace, tanto che si può dir l`unica pace della creatura razionale, cioè l`unione ordinatissima e piena di armonia nel godimento di Dio e nel godimento reciproco in Dio; al quale quando si giungerà, la vita non sarà piú mortale, ma certamente e pienamente vitale; e il corpo non sarà piú animale, che si corrompe e aggrava l`anima, ma spirituale, senza bisogno alcuno, soggetto in ogni sua parte alla volontà. Anche in questo pellegrinaggio possiede tale pace nella fede; e per questa fede vive nella giustizia perché al raggiungimento di tale pace ordina tutte le sue buone azioni compiute verso Dio e verso il prossimo; la vita infatti di tale città è evidentemente sociale.

(Agostino, De civit. Dei, 14, 28; 19, 17)


3. I Giudei e il mistero della salvezza

Sappiamo, infatti, che il Cristo verrà e che i Giudei non lo rifiuteranno, giacché daranno la loro speranza alla sua venuta.
Né su questo argomento la maggior parte dovrebbe cercare di sapere di piú, dal momento che nell`antichità tutti i profeti avevano predicato su di lui, come Isaia: "Cosí dice il Signore Dio al mio Cristo: lo ascoltino tutte le genti, di lui ho la destra! frantumerò il regno della potenza, aprirò davanti a Lui le porte, e le città non gli saranno chiuse" (Is 45,1). E questo noi lo vediamo adempiuto in Lui. A chi, infatti, tiene la destra Dio Padre, se non al Cristo, suo Figlio, che tutti i popoli hanno ascoltato, del quale nei salmi di David sono mostrati e i predicatori e gli apostoli: "In tutta la terra risuonò la loro voce e fino ai confini della terra le loro parole?" (Sal 18,5).
In quale altro, infatti, tutti i popoli credettero, se non nel Cristo che già è venuto? [A chi in effetti, credettero le genti] "Parti e Medi ed Elamiti e quelli che abitano la Mesopotamia, Armenia (Frigia), la Cappadocia, e gli abitanti del Ponto e dell`Asia, la Frigia e la Panfilia, i dimoranti in Egitto, e le regioni dell`Africa, che è al di là di Cirene, e quelli che risiedono - Romani e stranieri" - allora e i "Giudei in Gerusalemme" e tutti gli altri popoli, come le differenti razze di Getuli e i molti confini dei Mauri, e tutti i limiti degli Ispani e le diverse nazioni delle Gallie, e le regioni dei Britanni inaccessibili ai Romani, assoggettati, invero, al Cristo, e dei Sarmati, e delle molte popolazioni lontane e delle province e delle isole a noi ignote, che non possiamo in nessun modo enumerare? In tutte queste regioni, il nome di Cristo, alle quali già giunse, e regna (cf. Is 45,1), poiché prima di lui le porte di tutte le città sono state aperte (cf. Is 45,2), e a lui nessuna è stata chiusa, prima del quale quelle di ferro.
Quantunque queste cose anche spiritualmente sono intellegibili, poiché l`intimità dei singoli in vari modi posseduta dal demonio, della fede del Cristo è stata liberata, tuttavia anche per la propria natura sono state adempiute, affinché il popolo nel nome di Cristo abitasse in tutti quei luoghi.
Chi, infatti, avrebbe potuto regnare in tutti i popoli, se non il Cristo, figlio di Dio, che veniva annunziato a tutti che avrebbe regnato per sempre? (cf. Sal 10,16).
Ma il nome di Cristo è predicato ovunque, dovunque è creduto, è onorato da tutti i popoli sopra enumerati, regna ovunque, ed è adorato dappertutto.
A tutti, in ogni luogo, è presentato in maniera eguale; presso di lui non c`è maggior grazia di re, non minor gioia di alcun barbaro; i suoi meriti distinti non dipendono o dalla dignità o dai natali; per tutti è uguale, per tutti è re; per tutti è giudeo; di tutti è il Signore e il Dio.

(Tertulliano, Adv. Judaeos, 7, 2-6.9)


4. Il regno di Cristo sino alla fine del mondo

«Il mio regno non è di questo mondo»(Gv 18,36).
Il regno di Cristo è già cominciato su questa terra e durerà sino alla fine del mondo; la mietitura infatti coinciderà con la fine del mondo, quando verranno i mietitori, cioè gli angeli, e toglieranno dal suo regno tutti gli scandali, il che non avverrebbe se il suo regno non fosse già qui. Però non è di quaggiù, perché nel mondo è come pellegrino; è a questo suo regno, infatti, che dice: «Voi non siete del mondo, ma io vi ho scelti dal mondo» (Gv 15,19).
Erano dunque del mondo quando non appartenevano al suo regno, ma al principe del mondo. Appartengono infatti al mondo tutti gli uomini, creati sì dal vero Dio, ma generati da una stirpe viziata e condannata in Adamo; ma ciò che è stato rigenerato da Cristo forma un regno che non è di questo mondo. Così Dio «ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del suo Figlio diletto» (Col 1,13). Di questo regno dice: «Il mio regno non è di questo mondo», oppure: «Il mio regno non è di quaggiù» (Gv 18,36). «Allora Pilato gli disse: Dunque tu sei re? Rispose Gesù: Tu lo dici; io sono re». Poi soggiunge: «Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità» (Gv 18,37).
È chiaro dunque che qui egli ha voluto riferirsi alla sua nascita nel tempo, quando venne al mondo assumendo un corpo umano, e non a quella sua nascita senza principio per cui era Dio, per mezzo del quale il Padre creò il mondo. Disse dunque di essere nato a questo scopo e per questo motivo di essere venuto al mondo, affinché nascendo da una Vergine potesse rendere testimonianza alla verità. Ma poiché la fede non è di tutti, per questo aggiunse: «Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce» (Gv 18,37). Ascolta con le orecchie interiori, cioè dà ascolto alla mia voce, il che in una parola vuol dire: crede in me. Quando Cristo rende testimonianza alla verità, rende testimonianza a se stesso: è sua infatti l'affermazione: «lo sono la verità» (Gv 14,6). E in un altro punto disse pure: «Io rendo testimonianza di me» (Gv 5,31). Quando poi egli disse: «Chiunque è dalla verità ascolta la mia voce» (Gv 18,37), alludeva alla grazia con cui chiama i predestinati. «Gli dice Pilato: Che cos'è la verità?». Ma non si fermò ad ascoltare la risposta. «E detto questo uscì di nuovo verso i Giudei e disse loro: lo non trovo in lui nessuna colpa» (Gv 18,38).
Credo che quando Pilato disse: «Che cos'è la verità?» gli sia venuta subito in mente la consuetudine dei Giudei di liberare uno durante la Pasqua;perciò non aspettò che Gesù gli rispondesse che cos'è la verità, per non frapporre indugio, avendo ben ricordato quell'uso per cui Gesù poteva essere messo in libertà durante la Pasqua;e che lo desiderasse molto è evidente.
Tuttavia non si potè togliere dalla mente che Gesù era il re dei giudei, quasi questa verità di cui aveva chiesto spiegazione, gli si fosse impressa dentro come l'avrebbe scritta sulla croce.

Dai «Trattati sul vangelo di Giovanni» di sant'Agostino, vescovo.

5. Venga il tuo regno

Il regno di Dio, secondo la parola del nostro Signore e Salvatore, non viene in modo da attirare l'attenzione e nessuno dirà: Eccolo qui o eccolo là; il regno di Dio è in mezzo a noi (cfr. Lc 16, 21), poiché assai vicina è la sua parola sulla nostra bocca e nel nostro cuore (cfr. Rm 10, 8). Perciò, senza dubbio, colui che prega che venga il regno di Dio, prega in realtà che si sviluppi, produca i suoi frutti e giunga al suo compimento quel regno di Dio che egli ha in sé. Dio regna nell'anima dei santi ed essi obbediscono alle leggi spirituali di Dio che in lui abita. Così l'anima del santo diventa proprio come una città ben governata.
Nell'anima dei giusti è presente il Padre e col Padre anche Cristo, secondo quell'affermazione: «Verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (Gv 14, 23). Ma questo regno di Dio, che è in noi, col nostro instancabile procedere giungerà al suo compimento, quando si avvererà ciò che afferma l'Apostolo del Cristo. Quando cioè egli, dopo aver sottomesso tutti i suoi nemici, consegnerà il regno a Dio Padre, perché Dio sia tutto in tutti (cfr. 1 Cor 15, 24. 28). Perciò preghiamo senza stancarci. Facciamolo con una disposizione interiore sublimata e come divinizzata dalla presenza del Verbo. Diciamo al nostro Padre che è in cielo: «Sia santificato il tuo nome; venga il tuo regno» (Mt 6, 9-10). Ricordiamo che il regno di Dio non può accordarsi con il regno del peccato, come non vi è rapporto tra la giustizia e l'iniquità né unione tra la luce e le tenebre né intesa tra Cristo e Beliar (cfr. 2 Cor 6, 14-15).
Se vogliamo quindi che Dio regni in noi, in nessun modo «regni il peccato nel nostro corpo mortale» (Rm 6, 12). Mortifichiamo le nostre «membra che appartengono alla terra» (Col 3, 5). Facciamo frutti nello Spirito, perché Dio possa dimorare in noi come in un paradiso spirituale. Regni in noi solo Dio Padre col suo Cristo. Sia in noi Cristo assiso alla destra di quella potenza spirituale che pure noi desideriamo ricevere. Rimanga finché tutti i suoi nemici, che si trovano in noi, diventino «sgabello dei suoi piedi» (Sal 98, 5), e così sia allontanato da noi ogni loro dominio, potere ed influsso. Tutto ciò può avvenire in ognuno di noi. Allora, alla fine, «ultima nemica sarà distrutta la morte» (1 Cor 25, 26). Allora Cristo potrà dire dentro di noi: «Dov'è , o morte, il tuo pungiglione? Dov'è , o morte, la tua vittoria?» (Os 13,14; 1 Cor 15,55). Fin d'ora perciò il nostro «corpo corruttibile» si rivesta di santità e di «incorruttibilità; e ciò che è mortale cacci via la morte, si ricopra dell'immortalità» del Padre (1 Cor 15,54). Così regnando Dio in noi, possiamo già godere dei beni della rigenerazione e della risurrezione.

Dall'opuscolo «La preghiera» di Origène, sacerdote

Abbazia Santa Maria di Pulsano

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