Padre Paolo Berti, “Voce di uno che grida nel deserto”

II Domenica di Avvento        
Lc.3,1-6
“Voce di uno che grida nel deserto” 
Omelia 
Baruc, il segretario del profeta Geremia, disse al popolo deportato a Babilonia le parole di grande gioia che abbiamo ascoltato nella prima lettura. Gerusalemme,
letterariamente personificata, aspetta i suoi figli ed è invitata a togliersi la veste di lutto e di afflizione. I suoi figli ritorneranno. Israele procederà "sicuro sotto la gloria di Dio". Sarà un ritorno umanamente impossibile, ma possibile a Dio. Il profeta conforta il popolo rassicurandolo che la strada del ritorno a Gerusalemme sarà facile. Facile sarà il ritorno di Israele guidato dal Signore, come già nella liberazione dalla schiavitù d'Egitto, quando egli era in testa al suo popolo. Non ci saranno situazioni impossibili nel valicare monti, scendere nelle valli per poi risalire, superare lande deserte e assolate. Il ritorno sarà trionfale come se ogni alto monte si presenti spianato davanti a Israele e ogni valle colmata, e il cammino sarà al riparo del dardeggiare del sole perché anche le selve e gli alberi odorosi si porranno al servizio del cammino di Israele.
Israele era stato deportato nell'umiliazione perché aveva ascoltato se stesso, gli uomini, i potenti dell'Egitto, scartando come non utile la parola di Dio, ma nella schiavitù ha compreso che solo Dio è la roccia sicura su cui fondarsi.
L'uomo tende ad ascoltare l'uomo. I consigli pieni di accortezza terrena gli appaiono ragionevoli, dolci alla carne, utili al successo, e così, spesso e colpevolmente, si allontana dalla parola di Dio. Colpevolmente Gerusalemme dopo l'esilio scelse nuovamente di ascoltare l'uomo, di confidare nell'uomo. La parola di Dio ne risultò oscurata, oggetto di disquisizioni accademiche, teatro di rivalità dottrinali tra scuole rabbiniche, oggetto di esibizione di sapere, fonte di potere culturale, appoggio per le proprie decisioni in urto con la Parola. Questo il quadro di Gerusalemme quando la parola di Dio venne su Giovanni nel deserto. Nel deserto c'è silenzio; si ascolta nel deserto: si ascolta la parola di Dio fissata nelle Scritture ed illuminata dallo Spirito.
Nel deserto venne la parola e non in Gerusalemme, poiché nel deserto adiacente al fiume Giordano c'era un uomo che confidava in Dio. Quell'uomo aveva scelto il deserto a significare come la sua vita dipendeva solo da Dio, libero da compromessi, da adattamenti che avrebbero reso debole la sua parola. Per quell'uomo il deserto era il luogo di un esodo dalla corruzione. Nel deserto la gente trovava Giovanni, e udiva una voce resa sicura dall'austerità, una voce che trasmetteva la parola di Dio, nella sua forza, nella sua limpidezza, una voce che ripresentava l'esodo dall'Egitto e l'avvento di un nuovo agnello pasquale. "Voce di uno che grida nel deserto". Grida per forzare la sordità alla parola di Dio causata nei timpani della mente dal martellare del vociare umano. "Grida nel deserto", per affermare che egli parla perché libero da ricerca di denaro, di onori, pago solo di dire la parola di Dio. E il popolo andando da lui nel deserto rientrava in se stesso e intraprendeva il cammino della liberazione dai condizionamenti, della liberazione dai monti dell'orgoglio, dai burroni della viltà, dai passi tortuosi degli opportunismi, dai luoghi impervi della durezza. Il battesimo di penitenza di Giovanni non era però il punto di approdo, era l'invito a mantenersi in cammino per un ritorno segnato dal Cristo, da colui che, "Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo", avrebbe riportato il cuore dell'uomo ad essere tempio di Dio, dopo l'abbattimento nel cuore dell'uomo della fortezza cupa del peccato. Il messaggio di Giovanni portava al Cristo, salvezza di Dio per ogni uomo.
L'esodo dall'Egitto era guidato da una colonna di fuoco; questa era una figura di Cristo. La luce di gloria che segnò il ritorno da Babilonia era luce di Cristo.
La Gerusalemme (Il nome abbreviato di Gerusalemme è Salem, da shalom: città di pace; Cf. Gn 14,18; Gdt 4,4; Ps 76,3) in lutto e in afflizione del testo di Baruc viene chiamata all'allegrezza, ad un ritorno a Dio. Le parole del profeta, così luminose, rimandano a qualcosa di ben più alto del ritorno da Babilonia, rimandano ad un re liberatore che verrà; rimandano a Cristo. Essa, infatti, è invitata a guardare ad oriente, dove sorgerà il sole che viene dall'alto: Gesù Cristo
 Ma Gerusalemme, chiusa nei suoi pensieri secondo gli uomini, rifiuterà il suo liberatore. Ma il suo liberatore non fermerà il suo disegno, e anzi quel rifiuto lo renderà ancora più grande e più glorioso per mezzo della morte di croce. Cristo fonderà in Gerusalemme la sua Chiesa chiamata ad attirare gli uomini a lui, che ha ricevuto dal Padre il dominio in cielo e sulla Gerusalemme senza le mura (Cf. Zc 2,8), cioè tutta la terra, che dovrà essere liberata dalla compagine creata dal disamore a Dio; e si avrà il tempo della civiltà dell'amore, tempo nel quale Israele si aprirà a Cristo. Ma questa Gerusalemme senza le mura non sarà l'evento definitivo poiché vi è un’altra Gerusalemme in cielo, la Gerusalemme celeste che ci aspetta. La città celeste, la Gerusalemme imperitura.
All'inizio, la strada che sulla terra gli uomini avrebbero dovuto percorrere era dentro un giardino bello, piano, irrigato, a oriente di Eden (Gn 2,8). Ora la città eterna del cielo, la celeste città di Salem (pace), che già aveva le porte chiuse all'ingresso degli uomini, ha le porte aperte ad accoglierli e vi si giunge seguendo Cristo in una strada piana, bella ombreggiata; quasi un nuovo giardino pieno di alberi. Non più l'antico giardino di Eden, ma il giardino della Redenzione, che conosce, certo, spine e tribolazioni, ma che è pur un bel giardino.
Le letture di questa seconda domenica di Avvento, come abbiamo potuto vedere, sono veramente entusiasmanti, dense di prospettive, di immagini vivissime ed eloquenti. Le letture della domenica scorsa ci hanno resi riflessivi, vigilanti, prudenti, quelle di questa domenica ci danno slancio, vigore a seguire Gesù Cristo, senza tentennamenti.
Ognuno che è in Cristo è veramente chiamato a divenire, nella situazione di vita che gli è propria, un Giovanni che nel deserto, nella preghiera, nella sobrietà della vita, nella penitenza, grida con la forza del suo esempio il Vangelo. Dona un annuncio della Parola non infiacchito, snervato dal cosiddetto quieto vivere.
Non infiacchita da compromessi con il mondo era la comunità dei Filippesi cooperante con Paolo, suo fondatore in Cristo, nel diffondere il Vangelo. Per loro Paolo aveva un profondo affetto, ma non di livello semplicemente umano, ma "nell'amore di Cristo Gesù". Questo affetto, "nell'amore di Cristo Gesù", è quello che lega i pastori ai fedeli e i fedeli ai pastori e tutti insieme. E' la caritas dei figli di Dio, che cresce con la conoscenza di Cristo e dona il discernimento di cogliere la sua presenza o assenza in un cuore, e spinge a far vivere i cuori morti e a far crescere quello già vivi.
Si vede benissimo se un cuore ha la carità di Cristo. Lo si vede dallo sguardo, dal tono della voce, dalla prontezza nello stare accanto al bisognoso, nella pazienza; una pazienza che non conosce limite, poiché se la carità è paziente, ciò vuol dire che assente la pazienza è pur assente la carità. La pazienza, che è unita alla carità, perché esiste anche una pazienza unita all'odio. Quella pazienza che aspetta il momento propizio della vendetta; quella pazienza che si compiace dell'indurimento del cuore; quella pazienza che - è spaventoso - sopporta le grida della coscienza che non vuole essere soffocata. L'uomo che ha tale orrida pazienza è un deserto buio senza segno di vita.
Ma noi che amiamo, noi che abbiamo affetto nell'amore di Gesù e siamo in cammino verso il cielo, siamo come in un giardino, quello della Redenzione, dove spine e triboli sono grazie, per chi ama Gesù povero, umile e crocifisso. Amen. Ave Maria. Vieni, Signore Gesù.

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