Settimio CIPRIANI Lectio " IN PRINCIPIO ERA IL VERBO..."

3 gennaio 2016 | 2a Domenica di Natale - Anno C | Appunti per la Lectio
IN PRINCIPIO ERA IL VERBO...
"E il Verbo si fece carne"
In fin dei conti, è proprio questo messaggio del meraviglioso "prologo" del Vangelo di Giovanni, sul quale avremmo infinite cose da dire e che ora vogliamo leggere soprattutto in chiave natalizia, senza perderci in sottili dettagli esegetici.
E in chiave natalizia mi sembra che il punto culminante di tutto il brano sia rappresentato dal v. 14: "E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità".
"Farsi carne" non è semplicemente "farsi uomo", diventare uno di noi. Infatti il termine sarx (= carne), corrispondente
all'ebraico basàr, non designa tanto l'uomo in genere, quanto l'uomo nella sua condizione di debolezza, di friabilità, di morte, di limite, perfino di peccabilità. Non si poteva perciò esprimere in maniera più forte il realismo dell'Incarnazione e il volontario
abbassamento di Cristo: Paolo parlerà addirittura di "svuotamento" o di "spogliamento", che il Figlio di Dio ha fatto di se stesso quando è diventato nostro fratello.
L'Incarnazione, inoltre, non è stata un gesto momentaneo, ma ha realizzato una permanenza di "abitazione" in mezzo a noi. Invece di "venne ad abitare" meglio sarebbe, secondo il testo greco, tradurre "pose la sua tenda (eskénosen) in mezzo a noi", per esprimere sia l'esperienza "peregrinante" di Gesù come gli Ebrei nel deserto, sia la presenza di Jahvè che, nella "tenda" dell'alleanza, convive con il suo popolo. Ormai, in Gesù, Dio si è talmente "avvicinato" all'uomo da diventare uno di noi.

"In principio era il Verbo"

Tutto questo tanto più ci sorprende, se adesso rileggiamo la prima parte del prologo, dove si parla della preesistenza del Verbo presso il Padre e della sua potenza creatrice: "In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste" (Gv 1,1-3).
In formule, via via ampliantisi circolarmente, san Giovanni ci dice che Gesù di Nazaret, che gli uomini hanno incrociato nelle loro strade, portava con sé un enorme mistero: era il Figlio stesso di Dio, di cui come "Parola" fedele (= Verbo) esprimeva e portava tutta la realtà, che da sempre esiste presso il Padre e con lui è l'autore stesso della creazione. Così che nel prodigio dell'Incarnazione egli diventa parte della sua stessa opera: egli, in un certo senso, diventa "fattura" di se stesso! Colui che trascende il tempo e lo spazio, si imprigiona nel tempo e nello spazio.

"E noi vedemmo la sua gloria"

Incarnandosi, perciò, Gesù non è stato promosso ma si è umiliato. Eppure abbiamo sentito che l'evangelista considera tutto questo come un'espressione di "gloria": "E noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità" (v. 14).
In genere gli esegeti vedono in questo verso un riferimento a certi momenti di manifestazione gloriosa di Gesù, come la sua trasfigurazione, o i suoi "miracoli", che Giovanni chiama anche "segni" (2,11; 4,54; 6,30; ecc.). In realtà, abbiamo l'impressione che Giovanni veda la "gloria" di Dio in Cristo proprio in questo suo farsi uomo, in questo suo discendere nell'abisso della nostra miseria: è qui che si rivela la grandiosità dell'amore di Dio, che si esalta proprio nell'umiliazione che egli fa di se stesso.
Qualcosa di simile a quello che il quarto evangelo insegna della crocifissione che, prima e più della stessa risurrezione, è espressione della "glorificazione" del Figlio: "È giunta l'ora che sia glorificato il Figlio dell'uomo. In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto" (Gv 12,23-24). La "gloria" di Cristo consiste in questo suo farsi "chicco di grano" che "muore", proprio perché solo così apporterà il "frutto" della salvezza a tutti gli uomini.

"Egli era nel mondo, eppure il mondo non lo riconobbe"

Ma proprio perché la "gloria" di Cristo si manifesta in una forma così paradossale e, in fin dei conti, anche ambigua, c'è la possibilità di rimanere scandalizzati davanti a lui e di respingere il "dono" di Dio. È quello che tragicamente si è verificato e che Giovanni mette in evidenza non solo nel prologo ma lungo tutto il suo Vangelo, che è la narrazione di un autentico scontro "drammatico" fra luce e tenebre, vita e morte, amore e odio.
"In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l'hanno accolta... Egli era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di lui, eppure il mondo non lo riconobbe. Venne fra la sua gente, ma i suoi non l'hanno accolto" (vv. 4-5.10-11). Il paradosso è che "il mondo" non respinge un estraneo, ma colui che "l'ha fatto"! Peggio ancora: sono quelli della sua stessa famiglia, la "sua gente", che non lo ricevono. Il riferimento, in queste ultime parole ("i suoi", in greco oi ìdioi), è evidentemente ai Giudei del tempo di Gesù, che non lo accolsero né quando venne alla luce a Betlemme di Giudea, né durante la sua vita pubblica, che anzi lo fecero appendere al legno della croce.
In realtà, non è facile "accogliere" Gesù nella pienezza di significato di questo termine: si tratta, infatti, di farne esperienza fino al punto di lasciarsi da lui trasfigurare in quello che è lui, cioè in "figli di Dio". E questo è un processo che può avvenire solo in forza della "fede", per cui mentre vediamo davanti a noi un semplice fanciullo, o un puro essere umano, in realtà lo accettiamo come il Figlio di Dio che si è abbassato fino a noi per salvarci e farci partecipi della sua "pienezza".

"A quanti l'hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio"

È quanto ci dice con espressioni altissime Giovanni verso la fine del prologo: "A quanti però l'hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati" (vv. 12-13). Il processo generativo, per cui diventiamo figli di Dio, non avviene per la via naturale, a cui alludono i vari elementi qui ricordati ("sangue", "volere di carne", ecc.), ma solo per la potenza dello Spirito, che è stato all'origine della nascita stessa di Cristo.
La "fede", intesa come radicale disponibilità a Dio e al suo disegno di amore, ci permette di entrare in comunione con lui, di accettare la salvezza che egli ci offre in Cristo, "rinascendo" anche noi con lui a vita nuova. È il dono che Cristo ci fa nel suo Natale: qualcosa della sua "pienezza" si travasa anche in noi che così gli diventiamo veramente "fratelli": "Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto e grazia su grazia. Perché la legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo" (vv. 16-17).
Nella festa del Natale perciò noi celebriamo non soltanto la nascita di Gesù, ma anche la rinascita di ciascuno di noi nello spirito dell'adozione "filiale", come insegnerà anche più insistentemente san Paolo.
È questa la grande "rivelazione" che ci ha fatto Gesù venendo in mezzo a noi: "Dio nessuno l'ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato" (v. 18). In lui non abbiamo conosciuto soltanto il volto del Padre, ma abbiamo riconosciuto anche il "nostro" volto, perché ci ha assimilati in tutto a se stesso, fino a farci vivere la sua stessa vita.

Settimio CIPRIANI

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