padre Raniero Cantalamessa"Tutti, con i nostri peccati, portiamo Cristo alla Croce"
Tutti, con i nostri peccati, portiamo Cristo alla Croce
padre Raniero Cantalamessa
Domenica delle Palme (Anno C)
Vangelo: Lc 22,14-23,56 (forma breve: Lc 23,1-49)
Nel vangelo della domenica delle Palme ascoltiamo per intero il racconto della passione secondo S.
Luca. Ci poniamo la questione cruciale, quella per rispondere alla quale furono scritti i vangeli: perché un uomo così è finito sulla croce? Quale il motivo e chi i responsabili della morte di Gesù?
Secondo una teoria che ha cominciato a circolare in seguito alla tragedia della Shoa degli ebrei la responsabilità della morte di Cristo ricade principalmente, anzi forse esclusivamente, su Pilato e l'autorità romana, il che indica che la sua motivazione è più di ordine politico che religioso. I vangeli hanno scagionato Pilato e accusato di essa i capi dell'ebraismo per tranquillizzare le autorità romane sul loro conto e farsele amiche.
Questa tesi è nata da una preoccupazione giusta che tutti oggi condividiamo: togliere alla radice ogni pretesto all'antisemitismo che tanto male ha procurato al popolo ebraico da parte dei cristiani. Ma il torto più grave che si può fare a una causa giusta è quello di difenderla con argomenti sbagliati. La lotta all'antisemitismo va posta su un fondamento più solido che una discutibile (e discussa) interpretazione dei racconti della Passione.
L'estraneità del popolo ebraico, in quanto tale, alla responsabilità della morte di Cristo riposa su una certezza biblica che i cristiani hanno in comune con gli ebrei, ma che purtroppo per tanti secoli è stata stranamente dimenticata: "Colui che ha peccato deve morire. Il figlio non sconta l'iniquità del padre, né il padre l'iniquità del figlio" (Ez 18,20). La dottrina della Chiesa conosce un solo peccato che si trasmette per eredità di padre in figlio, il peccato originale, nessun altro.
Messo messo al sicuro il rifiuto dell'antisemitismo, vorrei spiegare perché non si può accettare la tesi della totale estraneità delle autorità ebraiche alla morte di Cristo e quindi della natura essenzialmente politica di essa. Paolo, nella più antica delle sue lettere, scritta intorno all'anno 50, dà, della condanna di Cristo, la stessa fondamentale versione dei vangeli. Dice che i "giudei hanno messo a morte Gesù" (1 Ts 2,15), e sui fatti accaduti a Gerusalemme poco tempo prima del suo arrivo in città egli doveva essere informato meglio di noi moderni, avendo, un tempo, approvato e difeso "accanitamente" la condanna del Nazareno.
Non si possono leggere i racconti della Passione ignorando tutto ciò che li precede. I quattro vangeli attestano, si può dire a ogni pagina, un contrasto religioso crescente tra Gesù e un gruppo influente di giudei (farisei, dottori della legge, scribi) sull'osservanza del sabato, sull'atteggiamento verso i peccatori e i pubblicani, sul puro e sull'impuro.
Una volta però dimostrata l'esistenza di questo contrasto, come si può pensare che esso non abbia giocato alcun ruolo al momento della resa finale dei conti e che le autorità ebraiche si siano decise a denunziare Gesù a Pilato unicamente per paura di un intervento armato dei romani, quasi a malincuore?
Pilato non era una persona sensibile a ragioni di giustizia, tale da preoccuparsi della sorte di un ignoto giudeo; era un tipo duro e crudele, pronto a stroncare nel sangue ogni minimo indizio di rivolta. Tutto ciò è verissimo. Egli però non tenta di salvare Gesù per compassione verso la vittima, ma solo per un puntiglio contro i suoi accusatori, con i quali era in atto una guerra sorda fin dal suo arrivo in Giudea. Naturalmente, questo non diminuisce affatto la responsabilità di Pilato nella condanna di Cristo, che ricade su di lui non meno che sui capi ebrei.
Non è il caso, oltre tutto, di volere essere "più ebrei degli ebrei". Dalle notizie sulla morte di Gesù, presenti nel Talmud e in altre fonti giudaiche (per quanto tardive e storicamente contraddittorie), emerge una cosa: la tradizione ebraica non ha mai negato una partecipazione delle autorità religiose del tempo alla condanna di Cristo. Non ha fondato la propria difesa negando il fatto, ma semmai negando che il fatto, dal punto di vista ebraico, costituisse reato e che la sua condanna sia stata una condanna ingiusta.
Alla domanda: "perché Gesù fu condannato a morte", dopo tutte le ricerche e alternative proposte, si deve dunque dare ancora la risposta che danno i vangeli. Fu condannato per un motivo essenzialmente religioso, che però venne abilmente formulato in termini politici per meglio convincere il procuratore romano. Il titolo di Messia su cui era imperniata l'accusa del Sinedrio, nel processo davanti a Pilato diventa "Re dei giudei" e questo sarà il titolo di condanna che verrà appeso alla croce: "Gesù Nazareno Re dei giudei". Gesù aveva lottato tutta la vita per evitare questa confusione, ma alla fine sarà proprio essa a decidere della sua sorte.
Questo lascia aperto il discorso sull'uso che si fa dei racconti della Passione. In passato essi sono stati usati spesso (per esempio in certe rappresentazioni teatrali della Passione), in maniera impropria, con forzature antigiudaiche. Questa è cosa oggi da tutti fermamente riprovata, anche se forse qualcosa resta ancora da fare per eliminare dalla celebrazione cristiana della Passione tutto ciò che può offendere la sensibilità dei fratelli ebrei. Gesù fu e resta, nonostante tutto, il dono più grande che l'ebraismo ha fatto al mondo. Un dono, tra l'altro, che ha pagato a caro prezzo...
La conclusione che possiamo tirare dalle considerazioni storiche fatte è dunque che potere religioso e potere politico, i capi del sinedrio e il procuratore romano, parteciparono entrambi, per motivi diversi, alla condanna di Cristo. Dobbiamo aggiungere subito che la storia non dice tutto e neppure l'essenziale su questo punto. Per la fede, a mettere a morte Gesù siamo stati tutti noi con i nostri peccati.
Lasciamo ora da parte le questioni storiche e dedichiamo qualche istante a contemplare Lui. Come si comporta Gesù nella Passione? Sovrumana dignità, pazienza infinita. Non un solo gesto o una parola che smentisca quello che egli aveva predicato nel suo vangelo, specialmente nelle Beatitudini. Egli muore chiedendo il perdono per i suoi crocifissori.
E tuttavia nulla in lui che somigli all'orgoglioso disprezzo del dolore dello stoico. La sua reazione alla sofferenza e alla crudeltà è umanissima: trema e suda sangue nel Getsemani, vorrebbe che il calice passasse da lui, cerca sostegno nei suoi discepoli, grida la sua desolazione sulla croce: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?".
Un tratto di questa sovrumana grandezza di Cristo nella Passione soprattutto mi affascina: il suo silenzio. "Gesù taceva" (Mt 26, 63). Tace davanti a Caifa', tace davanti a Pilato che si irrita del suo silenzio, tace davanti ad Erode che sperava vederlo fare un miracolo (cf. Lc 23, 8). "Oltraggiato non rispondeva con oltraggi, e soffrendo non minacciava vendetta", dice di lui la Prima lettera di Pietro (2, 23).
Solo un istante prima di morire rompe il silenzio e lo fa con quel "alto grido" che emette sulla croce spirando e che strappa al centurione romano la confessione: "Veramente quest'uomo era figlio di Dio"
padre Raniero Cantalamessa
Domenica delle Palme (Anno C)
Vangelo: Lc 22,14-23,56 (forma breve: Lc 23,1-49)
Nel vangelo della domenica delle Palme ascoltiamo per intero il racconto della passione secondo S.
Luca. Ci poniamo la questione cruciale, quella per rispondere alla quale furono scritti i vangeli: perché un uomo così è finito sulla croce? Quale il motivo e chi i responsabili della morte di Gesù?
Secondo una teoria che ha cominciato a circolare in seguito alla tragedia della Shoa degli ebrei la responsabilità della morte di Cristo ricade principalmente, anzi forse esclusivamente, su Pilato e l'autorità romana, il che indica che la sua motivazione è più di ordine politico che religioso. I vangeli hanno scagionato Pilato e accusato di essa i capi dell'ebraismo per tranquillizzare le autorità romane sul loro conto e farsele amiche.
Questa tesi è nata da una preoccupazione giusta che tutti oggi condividiamo: togliere alla radice ogni pretesto all'antisemitismo che tanto male ha procurato al popolo ebraico da parte dei cristiani. Ma il torto più grave che si può fare a una causa giusta è quello di difenderla con argomenti sbagliati. La lotta all'antisemitismo va posta su un fondamento più solido che una discutibile (e discussa) interpretazione dei racconti della Passione.
L'estraneità del popolo ebraico, in quanto tale, alla responsabilità della morte di Cristo riposa su una certezza biblica che i cristiani hanno in comune con gli ebrei, ma che purtroppo per tanti secoli è stata stranamente dimenticata: "Colui che ha peccato deve morire. Il figlio non sconta l'iniquità del padre, né il padre l'iniquità del figlio" (Ez 18,20). La dottrina della Chiesa conosce un solo peccato che si trasmette per eredità di padre in figlio, il peccato originale, nessun altro.
Messo messo al sicuro il rifiuto dell'antisemitismo, vorrei spiegare perché non si può accettare la tesi della totale estraneità delle autorità ebraiche alla morte di Cristo e quindi della natura essenzialmente politica di essa. Paolo, nella più antica delle sue lettere, scritta intorno all'anno 50, dà, della condanna di Cristo, la stessa fondamentale versione dei vangeli. Dice che i "giudei hanno messo a morte Gesù" (1 Ts 2,15), e sui fatti accaduti a Gerusalemme poco tempo prima del suo arrivo in città egli doveva essere informato meglio di noi moderni, avendo, un tempo, approvato e difeso "accanitamente" la condanna del Nazareno.
Non si possono leggere i racconti della Passione ignorando tutto ciò che li precede. I quattro vangeli attestano, si può dire a ogni pagina, un contrasto religioso crescente tra Gesù e un gruppo influente di giudei (farisei, dottori della legge, scribi) sull'osservanza del sabato, sull'atteggiamento verso i peccatori e i pubblicani, sul puro e sull'impuro.
Una volta però dimostrata l'esistenza di questo contrasto, come si può pensare che esso non abbia giocato alcun ruolo al momento della resa finale dei conti e che le autorità ebraiche si siano decise a denunziare Gesù a Pilato unicamente per paura di un intervento armato dei romani, quasi a malincuore?
Pilato non era una persona sensibile a ragioni di giustizia, tale da preoccuparsi della sorte di un ignoto giudeo; era un tipo duro e crudele, pronto a stroncare nel sangue ogni minimo indizio di rivolta. Tutto ciò è verissimo. Egli però non tenta di salvare Gesù per compassione verso la vittima, ma solo per un puntiglio contro i suoi accusatori, con i quali era in atto una guerra sorda fin dal suo arrivo in Giudea. Naturalmente, questo non diminuisce affatto la responsabilità di Pilato nella condanna di Cristo, che ricade su di lui non meno che sui capi ebrei.
Non è il caso, oltre tutto, di volere essere "più ebrei degli ebrei". Dalle notizie sulla morte di Gesù, presenti nel Talmud e in altre fonti giudaiche (per quanto tardive e storicamente contraddittorie), emerge una cosa: la tradizione ebraica non ha mai negato una partecipazione delle autorità religiose del tempo alla condanna di Cristo. Non ha fondato la propria difesa negando il fatto, ma semmai negando che il fatto, dal punto di vista ebraico, costituisse reato e che la sua condanna sia stata una condanna ingiusta.
Alla domanda: "perché Gesù fu condannato a morte", dopo tutte le ricerche e alternative proposte, si deve dunque dare ancora la risposta che danno i vangeli. Fu condannato per un motivo essenzialmente religioso, che però venne abilmente formulato in termini politici per meglio convincere il procuratore romano. Il titolo di Messia su cui era imperniata l'accusa del Sinedrio, nel processo davanti a Pilato diventa "Re dei giudei" e questo sarà il titolo di condanna che verrà appeso alla croce: "Gesù Nazareno Re dei giudei". Gesù aveva lottato tutta la vita per evitare questa confusione, ma alla fine sarà proprio essa a decidere della sua sorte.
Questo lascia aperto il discorso sull'uso che si fa dei racconti della Passione. In passato essi sono stati usati spesso (per esempio in certe rappresentazioni teatrali della Passione), in maniera impropria, con forzature antigiudaiche. Questa è cosa oggi da tutti fermamente riprovata, anche se forse qualcosa resta ancora da fare per eliminare dalla celebrazione cristiana della Passione tutto ciò che può offendere la sensibilità dei fratelli ebrei. Gesù fu e resta, nonostante tutto, il dono più grande che l'ebraismo ha fatto al mondo. Un dono, tra l'altro, che ha pagato a caro prezzo...
La conclusione che possiamo tirare dalle considerazioni storiche fatte è dunque che potere religioso e potere politico, i capi del sinedrio e il procuratore romano, parteciparono entrambi, per motivi diversi, alla condanna di Cristo. Dobbiamo aggiungere subito che la storia non dice tutto e neppure l'essenziale su questo punto. Per la fede, a mettere a morte Gesù siamo stati tutti noi con i nostri peccati.
Lasciamo ora da parte le questioni storiche e dedichiamo qualche istante a contemplare Lui. Come si comporta Gesù nella Passione? Sovrumana dignità, pazienza infinita. Non un solo gesto o una parola che smentisca quello che egli aveva predicato nel suo vangelo, specialmente nelle Beatitudini. Egli muore chiedendo il perdono per i suoi crocifissori.
E tuttavia nulla in lui che somigli all'orgoglioso disprezzo del dolore dello stoico. La sua reazione alla sofferenza e alla crudeltà è umanissima: trema e suda sangue nel Getsemani, vorrebbe che il calice passasse da lui, cerca sostegno nei suoi discepoli, grida la sua desolazione sulla croce: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?".
Un tratto di questa sovrumana grandezza di Cristo nella Passione soprattutto mi affascina: il suo silenzio. "Gesù taceva" (Mt 26, 63). Tace davanti a Caifa', tace davanti a Pilato che si irrita del suo silenzio, tace davanti ad Erode che sperava vederlo fare un miracolo (cf. Lc 23, 8). "Oltraggiato non rispondeva con oltraggi, e soffrendo non minacciava vendetta", dice di lui la Prima lettera di Pietro (2, 23).
Solo un istante prima di morire rompe il silenzio e lo fa con quel "alto grido" che emette sulla croce spirando e che strappa al centurione romano la confessione: "Veramente quest'uomo era figlio di Dio"
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