Paolo Curtaz, "Questo nostro Dio"

Questo nostro Dio
 Quarta Domenica del Tempo di Quaresima
Colore liturgico: rosa
Gs 5, 9. 10-12; Sal 33; 2 Cor 5, 17-21; Lc 15, 1-3. 11-32
Dal Vangelo secondo Luca
I due figli protagonisti della parabola hanno una pessima idea di Dio. Entrambi.

Il primo figlio, scapestrato, pensa che Dio sia un concorrente, un avversario: se esiste, io non posso realizzarmi, pensa. Dio è un censore, un preside severo, uno che non mi aiuta. Gli chiedo il mio, quello che mi deve (e da quando un padre “deve” l’eredità?), quello che mi spetta.
Chiedere l’eredità in anticipo, in ogni cultura, significa augurare la morte.
Il figlio minore, bramoso di possedere i beni del padre, trova come unica soluzione quella di sperare che muoia, che non esista.
Ci sono molte persone che pensano come lui, ancora oggi.

Il figlio minore
Il figlio, come prima cosa, chiede l’eredità (che non gli spetta, il padre poteva benissimo finire i suoi giorni in crociera godendosi i meritati guadagni!). Non è che una tappa verso ciò che ha già deciso, si giustifica, trova delle ragioni alla sua voglia di andarsene. Poco tempo dopo se ne va in un paese lontano, dice Gesù.
Certo: cosa se ne fa dell’eredità del padre se non può usarla a proprio piacimento?
Pone una grande distanza fra sé e il padre. Non vuole averci più nulla a che fare.
Vuole cancellare un passato che, invece, è parte integrante di ciò che è diventato.
E che ancora può diventare. Se ne va, finalmente libero.
Inizia la bella vita, era l’ora. E si accorge di quanto poco dura il denaro. E gli amici.
Si accorge di qualcosa che dovrebbe essere noto a tutti: se investiamo le nostre energie e le nostre aspettative nella “cose”, nei beni, non riusciremo mai a colmare il nostro cuore.
Il racconto di Luca è serrato, sono passati pochi mesi, lascia intendere.
L’euforia è finita. Arriva una carestia, qualcosa di esterno, che non dipende da lui, e ne è travolto.
Nella vita, necessariamente, dobbiamo fare i conti con eventi imponderabili, che non dipendono da noi.
I soldi che ora gli servirebbero per vivere li ha sperperati in stupidaggini.
È davvero nei guai. Giganteschi.
Non ha nemmeno di che mangiare.

Pentimento? Ma dai…
Va da uno sconosciuto per chiedere un lavoro.
Non da un amico. Forse si vergogna, forse gli amici sono spariti.
Il principe si ritrova schiavo. Il re, vassallo. Il figlio, servo.
Si ritrova a pascolare i porci.
I porci: l’animale impuro per eccellenza. E patisce la fame. Vorrebbe mangiare le carrube di cui si nutrono i maiali, ma non vuole rubare, teme ripercussioni.
E la fame gli snebbia il cervello. Inizia a ragionare.
Spesso solo la fame ci porta a ragionare, solo un’esperienza faticosa e drammatica ci spalanca alla verità, solo sbattere contro un muro, col naso sanguinante, ci fa mettere finalmente a sedere.
Rientra in sé stesso, lui che si era visto sempre e solo dall’esterno: “Sono un idiota. In casa di mio padre anche il più umile dei servi ha pane in abbondanza! Ora torno e mi trovo una scusa…”
Sì, avete letto bene: contesto radicalmente l’interpretazione buonista del brano.
Non è l’amore per il padre a muoverlo, ma la pancia che brontola. E anche nella sua strategia, fare il pentito, proporsi come servo (sapendo bene che il padre non accetterebbe questa umiliazione per il buon nome della famiglia), rivela che del padre non ha capito ancora nulla.
Sa di averla combinata grossa.
Farà il pentito. Se la suona, se la canta e se la balla. Idiota.

In cammino
La conversione è sempre un percorso a ritroso, una purificazione della memoria, un riscatto dei propri errori. Torna a casa, quanto gli brucia! E succede qualcosa di inatteso.
Il padre lo aspettava, gli corre incontro (un padre che corre è inimmaginabile, specie nella tradizione orientale: doveva stare fermo e aspettare il gesto di umiltà del figlio!). Lo abbraccia.
Il figlio minore inizia la tiritera di scuse. Se l’è ripetuta mille volte durante il cammino, ha limato le parole, pesato i termini, impostato il tono di voce. Ha cercato una qualche ragione convincente per essere riammesso…
Il padre lo interrompe. Niente scuse. Non importa.
Suo figlio non è pronto, non è pentito, lo sa bene il padre.
Ma gli ridona dignità, l’anello che è il sigillo di famiglia, i calzari, la veste.
Non premia il pentimento col perdono, come siamo abituati a pensare.
Perdona senza condizioni, sperando che quel gesto converta, infine, il figlio.
Anticipa il perdono per suscitare la conversione.

L’altro
L’altro figlio torna dal lavoro stanco e si offende della festa che il padre ha fatto in onore del figlio minore. Come dargli torto?
Il suo cuore è piccolo ma la sua giustizia grande: ha perfettamente ragione, il padre si comporta ingiustamente nei suoi confronti. Ha accolto l’altro figlio (non osa nemmeno chiamarlo “fratello”, per quanto lo sia) dopo che questi ha speso la sua parte di eredità in prostitute (dettaglio che ovviamente aggiunge per calcare la mano, in realtà non può saperlo…).
Il padre è ferito dal suo giudizio, non aveva bisogno di elemosinare un capretto, bastava prenderlo.
Tutto ciò che è mio è anche tuo, gli ricorda.
E spiega anche le ragioni della festa: suo fratello poteva morire, travolto dalla dissipazione del cuore. E spegnere la sua anima. Il fatto che sia vivo è una ragione più che sufficiente per fare una grande festa.

Happy end?
Bene, fermatevi qui, ora.
Niente bei finali, Luca si ferma.
Non dice se il primo figlio apprezzò il gesto del padre e, finalmente, cambiò idea.
Né dice se il fratello, inteneritosi, entrò a far festa.
No: la parabola resta aperta, senza soluzioni scontate, senza facili moralismi e finali da fiaba.
Puoi stare col Padre senza vederlo, puoi lavorare con lui senza gioirne, puoi lasciare che la tua fede diventi ossequio rispettoso senza che ti faccia esplodere il cuore di gioia.
Il Vangelo ci dice ancora una volta che Dio ci considera adulti, che affida alle nostre mani le decisioni, che non interferisce nelle nostre scelte.
Ci dice che la fede è una scelta: tocca a noi decidere in quale Dio credere.
Se quello piccino del fratello minore, un avversario.
Se quello severo del fratello maggiore, un’arpia.
Se quello straordinario che emerge dal racconto e dall’esperienza del Maestro.

FONTE : "Ti racconto la Parola"





Commenti

Post più popolari