FIGLIE DELLA CHIESA, Lectio Divina "Alle mie pecore io do la vita eterna "

Alle mie pecore io do la vita eterna  (Gv 10,27-30)
IV Domenica di Pasqua
Antifona d'ingresso
Della bontà del Signore è piena la terra;

la sua parola ha creato i cieli. Alleluia. (Sal 33,5-6)

Colletta
Dio onnipotente e misericordioso,
guidaci al possesso della gioia eterna,
perché l’umile gregge dei tuoi fedeli
giunga con sicurezza accanto a te,
dove lo ha preceduto il Cristo, suo pastore.

Oppure:
O Dio, fonte della gioia e della pace,
che hai affidato al potere regale del tuo Figlio
le sorti degli uomini e dei popoli,
sostienici con la forza del tuo Spirito,
e fa’ che nelle vicende del tempo,
non ci separiamo mai dal nostro pastore
che ci guida alle sorgenti della vita.

PRIMA LETTURA (At 13,14.43-52)
Ecco, noi ci rivolgiamo ai pagani.
Dagli Atti degli Apostoli

In quei giorni, Paolo e Bàrnaba, proseguendo da Perge, arrivarono ad Antiòchia in Pisìdia, e, entrati nella sinagoga nel giorno di sabato, sedettero.
Molti Giudei e prosèliti credenti in Dio seguirono Paolo e Bàrnaba ed essi, intrattenendosi con loro, cercavano di persuaderli a perseverare nella grazia di Dio.
Il sabato seguente quasi tutta la città si radunò per ascoltare la parola del Signore. Quando videro quella moltitudine, i Giudei furono ricolmi di gelosia e con parole ingiuriose contrastavano le affermazioni di Paolo. Allora Paolo e Bàrnaba con franchezza dichiararono: «Era necessario che fosse proclamata prima di tutto a voi la parola di Dio, ma poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna, ecco: noi ci rivolgiamo ai pagani. Così infatti ci ha ordinato il Signore: “Io ti ho posto per essere luce delle genti, perché tu porti la salvezza sino all’estremità della terra”».
Nell’udire ciò, i pagani si rallegravano e glorificavano la parola del Signore, e tutti quelli che erano destinati alla vita eterna credettero. La parola del Signore si diffondeva per tutta la regione. Ma i Giudei sobillarono le pie donne della nobiltà e i notabili della città e suscitarono una persecuzione contro Paolo e Bàrnaba e li cacciarono dal loro territorio. Allora essi, scossa contro di loro la polvere dei piedi, andarono a Icònio. I discepoli erano pieni di gioia e di Spirito Santo.

SALMO RESPONSORIALE (Sal 99)
Rit: Noi siamo suo popolo, gregge che egli guida.

Acclamate il Signore, voi tutti della terra,
servite il Signore nella gioia,
presentatevi a lui con esultanza. Rit:

Riconoscete che solo il Signore è Dio:
egli ci ha fatti e noi siamo suoi,
suo popolo e gregge del suo pascolo. Rit:

Perché buono è il Signore,
il suo amore è per sempre,
la sua fedeltà di generazione in generazione. Rit:

SECONDA LETTURA (Ap 7,9.14-17)
L’Agnello sarà il loro pastore e li guiderà alle fonti delle acque della vita.
Dal libro dell’Apocalisse di san Giovanni apostolo

Io, Giovanni, vidi: ecco, una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e tenevano rami di palma nelle loro mani.
E uno degli anziani disse: «Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide col sangue dell’Agnello. Per questo stanno davanti al trono di Dio e gli prestano servizio giorno e notte nel suo tempio; e Colui che siede sul trono stenderà la sua tenda sopra di loro.
Non avranno più fame né avranno più sete,
non li colpirà il sole né arsura alcuna,
perché l’Agnello, che sta in mezzo al trono,
sarà il loro pastore
e li guiderà alle fonti delle acque della vita.
E Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi».

Canto al Vangelo (Gv 10,14)
Alleluia, alleluia.
Io sono il buon pastore, dice il Signore,
conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me.
Alleluia.

VANGELO (Gv 10,27-30)
Alle mie pecore io do la vita eterna.
+ Dal Vangelo secondo Giovanni

In quel tempo, Gesù disse: «Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono.
Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano.
Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola».

Preghiera sulle offerte
O Dio, che in questi santi misteri
compi l’opera della nostra redenzione,
fa’ che questa celebrazione pasquale
sia per noi fonte di perenne letizia.

PREFAZIO PASQUALE IV
La restaurazione dell’universo per mezzo del mistero pasquale

È veramente cosa buona e giusta,
nostro dovere e fonte di salvezza,
proclamare sempre la tua gloria, o Signore,
e soprattutto esaltarti in questo tempo
nel quale Cristo, nostra Pasqua, si è immolato.
In lui, vincitore del peccato e della morte,
l’universo risorge e si rinnova,
e l’uomo ritorna alle sorgenti della vita.
Per questo mistero, nella pienezza della gioia pasquale,
l’umanità esulta su tutta la terra,
e con l’assemblea degli angeli e dei santi
canta l’inno della tua gloria: Santo...

Antifona di comunione
È risorto il buon Pastore, che ha dato la vita per le sue pecorelle,
e per il suo gregge è andato incontro alla morte. Alleluia.

Oppure:
“Io sono il buon pastore e offro la vita per le pecore”, dice il Signore. Alleluia. (Gv 10,14.15)

Preghiera dopo la comunione
Custodisci benigno, o Dio nostro Padre,
il gregge che hai redento
con il sangue prezioso del tuo Figlio,
e guidalo ai pascoli eterni del cielo.

Lectio
La quarta domenica di Pasqua è denominata come la domenica del Pastore e della vocazione. Nel piccolo brano, che oggi è proposto dalla liturgia, si proclama l´ultima parte della parabola, e mette in rilievo la relazione che esiste tra le pecorelle e il pastore, Gesù, che presenta se stesso come il vero pastore. Questa relazione è caratterizzata da alcuni verbi: ascoltare, conoscere, seguire. Attraverso questi verbi è possibile ricostruire la storia integrale della vocazione cristiana. Si parte da una voce che risuona all’esterno di noi, infatti, san Paolo al capitolo 10 della lettera ai Romani, scrive: “Io, il Signore, mi sono fatto trovare anche da quelli che non mi cercavano, mi sono manifestato anche a quelli che non si rivolgevano a me”. La grazia divina precede ogni storia personale e rompe ogni nostro silenzio. L’uomo che vuole comprendere se stesso fino in fondo … deve con la sua inquietudine e incertezza e anche la sua debolezza e peccaminosità, con la sua vita e morte, avvicinarsi a Cristo. “In verità gli squilibri di cui soffre il mondo contemporaneo si collegano con quel più profondo squilibrio che è radicato nel cuore dell'uomo. È proprio all'interno dell'uomo che molti elementi si combattono a vicenda. Da una parte, infatti, come creatura, esperimenta in mille modi i suoi limiti; d'altra parte sente di essere senza confini nelle sue aspirazioni e chiamato ad una vita superiore. Sollecitato da molte attrattive, è costretto sempre a sceglierne qualcuna e a rinunziare alle altre. Inoltre, debole e peccatore, non di rado fa quello che non vorrebbe e non fa quello che vorrebbe” (GS 10). Egli deve, per così dire, entrare in lui con tutto se stesso, deve “appropriarsi” e assimilare tutta la realtà dell’incarnazione e della Redenzione per ritrovare se stesso (Redemptor hominis n° 10).
Il dialogo tra Dio e l’uomo, che è una delle caratteristiche della vocazione cristiana, ha dunque il suo centro in Cristo. “Chiunque segue Cristo, l'uomo perfetto, diventa anch'egli più uomo” (GS 41).

L’uomo deve ascoltare, e rifacendoci al testo di Neemia 8, possiamo considerare come dovrebbe essere l’ascolto del discepolo, di colui che vuole seguire il Maestro:

1. Ascoltare. «Essi ascoltavano, porgevano l’orecchio». Nella Bibbia lo stesso verbo shama’ indica sia "ascoltare" che "obbedire". Quindi shema’ Israel non è soltanto "ascolta, Israele!", ma anche "aderisci!". «Adonài elohénu adonài ehàd» (il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo) è non soltanto una conoscenza di tipo intellettivo, ma è la scoperta di una relazione (cf Dt 6,4ss). È per questo che «lo amerai con tutto il cuore ...». Amerai viene subito dopo ascoltare. Per questo nel Salmo 40,7 si dice letteralmente: «Tu mi hai forato l’orecchio», come si fa allo schiavo; io sono il tuo schiavo, ho l’orecchio forato, nel senso che aderisco completamente a te.
2. E sempre nel testo di Neemia, “Gli occhi si colmano di lacrime”: gli ascoltatori si mettono a piangere, cioè si convertono. La parola di Dio ti fa piangere i tuoi peccati. Ecco un altro elemento prodotto da una vera lezione: essa inquieta le coscienze; la Parola di Dio artiglia l’anima, altrimenti è una semplice informazione. Lo scrittore ultra-novantenne Julien Green affermava: «Se io dovessi riassumere tutto quello che ho scritto, lo esprimerei con questa frase: "Finché si è inquieti, si può stare tranquilli"». Finché c’è questa inquietudine, che è quella agostiniana ("inquietum est cor nostrum"), allora si può stare in pace.

Il Maestro, colui che insegna, il Pastore, colui che guida con il suo insegnamento, non lo fa solo in modo intellettuale, e non è solo colui che insegna o guida, ma colui che sa anche imparare. Il vero maestro è uno che impara anche, e il vero discepolo alla fine è capace di insegnare. Se il circuito non si chiude, non si ha un vero magistero. Il maestro, che non è attento al discepolo, è di sua natura condannato alla solitudine, alla torre d’avorio della sua elaborazione, ma non lascerà traccia. Le mie pecore ascoltano la mia voce, perché per primo il Pastore, ha imparato ad ascoltare la loro voce, il loro cuore, entrare nel loro intimo, scendere nelle profondità dei loro inferi, dei loro desideri, dei loro affetti. Altrimenti si va avanti nel parlare, ma l’altro non dialoga. Insegnare è dialogare. Anche se l’altro tace. Ci si deve accorgere di entrare nell’interno della comunicazione, grazie anche alle domande presentate dall’altro. Oscar Wilde diceva: «A dare le risposte sono capaci tutti; per fare le vere domande ci vuole un genio». Cioè per fare domande vere è necessario scendere nelle nostre profondità, lasciarci interrogare, lasciarci trafiggere. E di fatto la domanda, anche graficamente, noi la esprimiamo non con l’esclamazione, che è una linea retta, ma con qualcosa che si aggroviglia in sé, che quindi lacera, che artiglia, che fa sanguinare.
“Ascolta, Israele...” (Dt 6,4). Perciò la sordità è considerata, nella Bibbia, una patologia grave, perché evoca il rifiuto della Parola di Dio. Quando Dio interviene per salvare il suo popolo, gli apre simbolicamente gli occhi, gli orecchi, la bocca ... perché possa vedere, ascoltare, parlare, saltare: entrare, cioè, in contatto con Dio e con i fratelli.

Conoscere: in Giovanni, conoscere indica un rapporto personale, come fra il Padre e il Figlio, fra Gesù e i suoi discepoli, fra i discepoli e Gesù o Dio. Conoscere abbraccia mente, cuore, azione, tutto l’uomo, da diventare sulle labbra del Gesù di Giovanni la definizione della vita eterna: “La vita eterna è conoscere te, unico vero Dio e colui che hai inviato, Gesù Cristo” (17, 3). L’uomo che ha ascoltato e si è fatto conoscere ed ha conosciuto Dio “segue” il Cristo come suo unico Pastore.

Seguire: è l'esperienza profonda della Pasqua, dono di grazia del Risorto, esperienza che ci fortifica e ci conforta nella sequela, anche quando si fa buio all'orizzonte, quando insorge la paura, e la vita diventa una salita faticosa, anche allora, la mano del Pastore ci soccorre, come canta il Salmista:
"Il Signore è il mio pastore ... se dovessi camminare in una valle oscura, non temerei alcun male, perché tu sei con me, Signore." (sl.23); " Ecco, io sono con voi, è la promessa del Risorto, tutti i giorni, sino alla fine del mondo." (Mt 28,20)"
E’ una sequela di tutti i giorni, feriale, continua, stabile, fedele, creativa, anche quando si intravedono nel buio i lupi. Anche allora noi non saremo perduti, perché nessuno potrà rapirci dalla mano sicura e onnipotente del Cristo. E’ quell’amore per Cristo, la certezza di quell’amore, che fece gridare a San Paolo: Chi ci potrà separare dall’amore di Cristo, la spada, la tribolazione, la nudità, la morte … niente ci potrà separare dal suo amore. (Rm 8,35).
La meta della vocazione cristiana non è incerta, ma si radica in: Io do loro la vita eterna, cioè do la vita divina, la comunione con Dio, essere con Dio stesso. E’ la possibilità che ci è donata di stare davanti al trono, davanti all’Agnello … e l’Agnello sarà il nostro Pastore e ci guiderà alle fonti delle acque della vita.

Dare la vita: tutto il Vangelo secondo Giovanni se lo ripercorriamo in ogni suo capitolo è intessuto di questa Vita, che trova la sua centralità nel dare la vita, sottolineando chi è il vero maestro e chi è il vero discepolo: colui che sa donare la sua vita. Colui che non trattiene per sé.
La vita eterna è conoscere Te, unico, vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo” ( Gv.17,3); essa, dunque, non si realizza soltanto nel futuro, oltre il tempo, ma è possibile già ora, durante l’esistenza terrena, per la comunione profonda con Cristo, unico Maestro e Pastore, del quale, sempre, ascoltiamo la voce e seguiamo le orme.

Le mani: ogni uomo, dunque è nelle mani di Dio, quelle mani che lo hanno fatto e plasmato, come canta il Salmista (sl.118). La mano, nel linguaggio biblico, è segno di forza, di capacità di agire, la Sua mano è la stessa del Padre che ci difende dai ladri, dai lupi e dai briganti, dentro e fuori di noi.
Ma quelle mani, le Sue, hanno sanato e beneficato molti; ma quelle mani sono del Crocifisso Risorto. Per riconoscere il Pastore Buono e Bello è necessario fissare il nostro sguardo in quelle mani e non solo, ma lasciare che la sua mano afferri la nostra e la porti al suo costato per bere da quella sorgente, quell’acqua che dona la vita. Soprattutto possiamo affidarci a quelle mani, perché il nostro Signore per primo si è consegnato e abbandonato nelle mani sicure del Padre, quando dall’alto della croce ha detto: “Padre nelle tue mani consegno il mio spirito”.

Camminiamo dietro il Pastore, offrendo la nostra adesione a lui, talvolta debole, talvolta sicura, talvolta oscura, talvolta di luce, talvolta ferita, talvolta guarita. Restiamo dietro di Lui: ascoltando, conoscendo, seguendo … Si tratta di un legame forte, di intimità profonda e assoluta, di amore puro, incondizionato, di abbandono fiducioso a Lui, come il gregge segue fiducioso e totalmente il suo Pastore dal deserto verso l’oasi.

Appendice

Cristo, buon pastore
«Io sono il buon Pastore; conosco le mie pecore», cioè le amo, «e le mie pecore conoscono me» (Gv 10, 14). Come a dire apertamente: corrispondono all'amore di chi le ama. La conoscenza precede sempre l'amore della verità.
Domandatevi, fratelli carissimi, se siete pecore del Signore, se lo conoscete, se conoscete il lume della verità. Parlo non solo della conoscenza della fede, ma anche di quella dell'amore; non del solo credere, ma anche dell'operare. L'evangelista Giovanni, infatti, spiega: «Chi dice: Conosco Dio, e non osserva i suoi comandamenti, è bugiardo» (1 Gv 2, 4).
Perciò in questo stesso passo il Signore subito soggiunge: «Come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e offro la vita per le pecore «(Gv 10, 15). Come se dicesse esplicitamente: da questo risulta che io conosco il Padre e sono conosciuto dal Padre, perché offro la mia vita per le mie pecore; cioè io dimostro in quale misura amo il Padre dall'amore con cui muoio per le pecore.
Di queste pecore di nuovo dice: Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna (cfr. Gv 10, 14-16). Di esse aveva detto poco prima: «Se uno entra attraverso di me, sarà salvo; entrerà e uscirà e troverà pascolo» (Gv 10, 9). Entrerà cioè nella fede, uscirà dalla fede alla visione, dall'atto di credere alla contemplazione, e troverà i pascoli nel banchetto eterno.
Le sue pecore troveranno i pascoli, perché chiunque lo segue con cuore semplice viene nutrito con un alimento eternamente fresco. Quali sono i pascoli di queste pecore, se non gli intimi gaudi del paradiso, ch'è eterna primavera? Infatti pascolo degli eletti è la presenza del volto di Dio, e mentre lo si contempla senza paura di perderlo, l'anima si sazia senza fine del cibo della vita.
Cerchiamo, quindi, fratelli carissimi, questi pascoli, nei quali possiamo gioire in compagnia di tanti concittadini. La stessa gioia di coloro che sono felici ci attiri. Ravviviamo, fratelli, il nostro spirito. S'infervori la fede in ciò che ha creduto. I nostri desideri s'infiammino per i beni superni. In tal modo amare sarà già un camminare.
Nessuna contrarietà ci distolga dalla gioia della festa interiore, perché se qualcuno desidera raggiungere la metà stabilita, nessuna asperità del cammino varrà a trattenerlo. Nessuna prosperità ci seduca con le sue lusinghe, perché sciocco è quel viaggiatore che durante il suo percorso si ferma a guardare i bei prati e dimentica di andare là dove aveva intenzione di arrivare. (Dalle «Omelie sui vangeli» di san Gregorio Magno papa, Om. 14, 3-6; PL 76, 1129-1130)

Io e il Padre siamo uno.
5. Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco, e mi seguono. Io do loro la vita eterna (Gv 10, 27-28). Ecco il pascolo. Se ricordate, prima aveva detto: entrerà, e uscirà e troverà pascolo (Gv 10, 9). Siamo entrati quando abbiamo creduto, usciamo quando si muore. Ma allo stesso modo che siamo entrati per la porta della fede, così dobbiamo uscire dal corpo come fedeli; è così che si esce per la medesima porta, se si vuole trovare il pascolo. Viene presentata la vita eterna come un buon pascolo; l'erba non inaridisce dove tutto è sempre verdeggiante e pieno di vita: c'è un'erba di cui si dice che è sempre viva. In quel pascolo si trova soltanto la vita. Io - dice - darò la vita eterna alle mie pecore. Voi imbastite accuse, perché pensate soltanto alla vita presente.
[Credere per giungere alla sapienza.]
6. E non periranno in eterno; sottinteso: voi perirete eternamente, perché non siete delle mie pecore. Nessuno me le strapperà di mano (Gv 10, 28). Ascoltate ora con la massima attenzione: Ciò che mio Padre mi ha dato è più grande di tutto (Gv 12, 29). Che può fare il lupo? Che possono fare il ladro e il brigante? Non rovinano se non chi è predestinato alla morte. Di quelle pecore, invece, di cui l'Apostolo dice: Iddio conosce quelli che sono i suoi (2 Tim 2, 19), e ancora: Quelli che egli ha preconosciuto, li ha anche predestinati; quelli che ha predestinati, li ha anche chiamati; e quelli che ha chiamati, li ha anche giustificati; quelli infine che ha giustificati, li ha anche glorificati (Rm 8, 29-30): di queste pecore nessuna il lupo può rapire, né il ladro rubare, né il brigante uccidere. Colui che sa cosa ha pagato per esse, è sicuro del loro numero. E' questo il senso delle parole: Nessuno le rapirà dalla mia mano; e di quelle altre riferite al Padre: Ciò che mio Padre mi ha dato è più grande di tutto. Qual è la cosa più grande di tutte che il Padre ha dato al Figlio? Gli ha dato di essere il suo unigenito Figlio. Che significa dunque gli ha dato? Esisteva già colui al quale ha dato, oppure il Padre glielo ha dato generandolo? Poiché se esisteva prima che gli fosse dato di essere Figlio, vorrebbe dire che c'è stato un tempo in cui esisteva e non era Figlio. Non è possibile che ci sia stato un tempo in cui Cristo Signore sia esistito senza essere Figlio. Questo si può dire di noi: c'è stato un tempo in cui eravamo figli dell'uomo e non eravamo figli di Dio. E' per grazia infatti che noi siamo diventati figli di Dio, mentre Cristo è Figlio per natura, perché così è nato. Né puoi dire che egli non esisteva prima di nascere, perché non c'è stato tempo in cui egli non fosse nato, lui coeterno al Padre. Chi può capisca; chi non capisce creda, si nutra e capirà. Il Verbo di Dio è da sempre col Padre, e da sempre è Verbo; e appunto perché Verbo è Figlio. Da sempre dunque è Figlio e da sempre uguale al Padre. Non è uguale per essere cresciuto, ma per nascita, colui che è nato da sempre: Figlio dal Padre, Dio da Dio, coeterno dall'eterno. Il Padre è Dio, ma non da parte del Figlio; il Figlio è Dio, procedente dal Padre, perché il Padre, generandolo, ha dato al Figlio di essere Dio, generandolo gli ha dato di essere con lui coeterno, a lui uguale. Ecco ciò che è più grande di tutte le cose. In che senso il Figlio è la vita e ha la vita? Egli è ciò che ha. Tu, invece, non sei ciò che hai. Tu hai, ad esempio, la sapienza; sei forse la sapienza? E' tanto vero che tu non sei ciò che hai, che se perdi ciò che hai ritorni ad esserne privo; e così ora lo perdi, ora lo ricuperi. Così, il nostro occhio non ha in se stesso la luce in maniera continua: se si apre la riceve, se si chiude la perde. Non è certo in questo senso che il Figlio di Dio è Dio; non è in questo senso che egli è il Verbo del Padre: non così è il Verbo che non passa come un suono, ma che permane dalla nascita. Egli possiede la sapienza sì da essere egli stesso la sapienza e da rendere sapienti gli altri; egli possiede la vita sì da essere egli stesso la vita e da far vivere gli altri. Ecco ciò che è più grande di tutte le cose. Volendo parlare del Figlio, l'evangelista Giovanni osserva il cielo e la terra; li osserva e li oltrepassa. Al di sopra del cielo contempla le innumerevoli schiere angeliche, col suo pensiero oltrepassa l'universo creato, come l'aquila oltrepassa le nubi; essendo andato oltre ogni cosa creata, per quanto grande, pervenne a colui che è più grande di tutte le cose e proclamò: In principio era il Verbo (Gv 1, 1). Ma siccome colui del quale Cristo è Verbo, non procede dal Verbo, mentre il Verbo procede da colui al quale appartiene, Cristo dice: Ciò che mi ha dato il Padre - di essere cioè il suo Verbo, di essere il suo unigenito Figlio e lo splendore della sua luce - è più grande di tutto. Perciò nessuno rapirà le mie pecore dalla mia mano. Nessuno può rapirle dalla mano del Padre mio.
7. Di mano a me e di mano al Padre mio. Che significa: nessuno le può rapire di mano a me, e: nessuno può rapirle dalla mano del Padre mio? E' forse una sola la mano del Padre e quella del Figlio, oppure il Figlio stesso è la mano del Padre suo? Se per mano intendiamo la potestà, unica è la potestà del Padre e del Figlio, perché unica è la divinità; se invece per mano intendiamo ciò che dice il profeta: IL braccio del Signore a chi è stato rivelato? (Is 53, 1), la mano del Padre è il Figlio. Il che non significa che Dio abbia forma umana, e perfino membra corporee; ma che per mezzo di lui furon fatte tutte le cose. Anche gli uomini sono soliti chiamare mani proprie altri uomini, dei quali si servono per operare ciò che vogliono; e qualche volta vien chiamata mano di un uomo anche l'opera eseguita dalla sua mano: così si dice che uno riconosce la propria mano, quando riconosce un proprio scritto. Ora, se sono molti i significati che si danno alla mano dell'uomo, che pure in senso proprio fa parte delle membra del suo corpo, tanto più sarà lecito intendere non in un solo senso la mano di Dio che non possiede alcuna forma corporea. E perciò, in questo passo, per mano del Padre e del Figlio preferiamo intendere il potere del Padre e del Figlio, onde evitare che sentendo dire qui che il Figlio è la mano del Padre, qualche mente grossolana cominci a cercare un figlio al Figlio, ravvisando in esso la mano di Cristo. L'espressione quindi: Nessuno può rapirle dalla mano del Padre mio, significa: Nessuno me le può rapire.
8. E se ti rimane qualche incertezza, ascolta quello che segue: Io e il Padre siamo una cosa sola (Gv 10, 30). Fin qui i Giudei erano riusciti a sopportare; ma quando sentirono: Io e il Padre siamo una cosa sola, non resistettero più; e, duri com'erano, al solito ricorsero alle pietre. Diedero di piglio alle pietre per lapidarlo. Ma siccome il Signore non si assoggettava a quei patimenti che non voleva - difatti non patì se non quello che volle patire -, continuò il suo discorso a quelli che volevano lapidarlo. I Giudei presero delle pietre per lapidarlo. Rispose loro Gesù: Molte buone opere vi ho mostrato che vengono dal Padre mio; per quale di esse mi volete lapidare? Ed essi risposero: Non ti lapidiamo per un'opera buona, ma per una bestemmia, e perché tu, che sei uomo, ti fai Dio (Gv 10, 31-33). Così risposero alla sua affermazione: Io e il Padre siamo una cosa sola. Vedete come i Giudei hanno compreso ciò che non intendono gli ariani? Essi si infuriarono appunto perché si resero conto che non si potrebbe dire Io e il Padre siamo una cosa sola, se il Padre e il Figlio non fossero uguali. (Commento al Vangelo di Giovanni, Sant'Agostino, Omelia 48)

Gesù parla di sé come del Buon Pastore che dà la vita eterna alle sue pecore (cfr Gv 10,28). Quella del pastore è un’immagine ben radicata nell'Antico Testamento e cara alla tradizione cristiana. Il titolo di "pastore d’Israele" viene attribuito dai Profeti al futuro discendente di Davide, e pertanto possiede un’indubbia rilevanza messianica (cfr Ez 34,23). Gesù è il vero Pastore d’Israele, in quanto è il Figlio dell’uomo che ha voluto condividere la condizione degli esseri umani per donare loro la vita nuova e condurli alla salvezza. Significativamente al termine "pastore" l’evangelista aggiunge l’aggettivo kalós, bello, che egli utilizza unicamente in riferimento Gesù e alla sua missione. Anche nel racconto delle nozze di Cana l’aggettivo kalós viene impiegato due volte per connotare il vino offerto da Gesù ed è facile vedere in esso il simbolo del vino buono dei tempi messianici (cfr Gv 2,10).
"Io do loro cioè (alle mie pecore) la vita eterna e non andranno mai perdute" (Gv 10,28). Così afferma Gesù, che poco prima aveva detto: "Il buon pastore offre la vita per le pecore" (cfr Gv 10,11). Giovanni utilizza il verbo tithénai - offrire, che ripete nei versetti seguenti (15.17.18); lo stesso verbo troviamo nel racconto dell’Ultima Cena, quando Gesù "depose" le sue vesti per poi "riprenderle" (cfr Gv 13, 4.12). E’ chiaro che si vuole in questo modo affermare che il Redentore dispone con assoluta libertà della propria vita, così da poterla offrire e poi riprendere liberamente. Cristo è il vero Buon Pastore che ha dato la vita per le sue pecore, per noi, immolandosi sulla Croce. Egli conosce le sue pecore e le sue pecore lo conoscono, come il Padre conosce Lui ed Egli conosce il Padre (cfr Gv 10,14-15). Non si tratta di mera conoscenza intellettuale, ma di una relazione personale profonda; una conoscenza del cuore, propria di chi ama e di chi è amato; di chi è fedele e di chi sa di potersi a sua volta fidare; una conoscenza d’amore in virtù della quale il Pastore invita i suoi a seguirlo, e che si manifesta pienamente nel dono che fa loro della vita eterna (cfr Gv 10,27-28). (Papa Benedetto XVI, dall'Omelia del 29 aprile 2007)

Commenti

Post più popolari