Mons.Antonio Riboldi,"NON SIA MAI TURBATO IL VOSTRO CUORE"

Omelia del giorno 1 Maggio 2016
VI Domenica del Tempo di Pasqua
NON SIA MAI TURBATO IL VOSTRO CUORE
Vangelo: Gv 14,23-29
Il lungo, ed insieme breve periodo, che Gesù fa intercorrere tra la sua resurrezione fino all’ascensione
al Cielo, deve essere stato denso di attese tra gli Apostoli e quanti erano rimasti fedeli al Maestro: tempo di incertezze e di attesa di certezze, di domande sul da farsi, soprattutto del timore di restare soli, senza il loro Maestro, punto di riferimento assoluto e vitale. Gesù andava e veniva, apparendo in continuità, rassicurandoli, come volesse guidare i passi di un lungo cammino verso il Regno, che Lui aveva iniziato in terra: un Regno a cui anche noi siamo chiamati a partecipare e costruire, giorno per giorno.
Se la bellezza e la profondità della Buona Novella era stata così poco capita, se i confini dove farla giungere erano immensi, se tutto questo era apparso difficile stando vicino a Gesù, doveva apparire quasi una follìa per gli Apostoli ‘andare’. ‘Andare’, ma da chi? E dicendo che cosa? Con quali mezzi persuasivi? Bastava annunciare, come faranno poi gli Apostoli e siamo chiamati noi, la morte e la resurrezione di Gesù, figlio di Dio? Bastava e basta dire agli uomini, sempre malati di scetticismo, che Gesù è la Verità e non ha certamente bisogno di fatti eclatanti, di potenza umana, ma solo di un’autentica ricerca, per poter diventare ‘Luce che illumina le nostre tenebre’?
Gesù poi li mandava – e ci manda – raccomandando di andare in totale povertà, ossia non ricorrendo a strategie, a fatti miracolosi, rifuggendo così i metodi del mondo, che quando annunciano qualcosa di ‘grande’ usano una tale forza di mezzi e di pubblicità, da non far più capire se quanto si proclama sia vero o nasconda altro, che nulla ha a che fare con la bellezza e il valore dell’ evento stesso.
Tutti interrogativi e perplessità ‘umane’, che spesso inondano la nostra anima, come del resto accadeva nelle prime comunità. Così oggi leggiamo dagli Atti degli Apostoli, che “alcuni venuti dalla Giudea, insegnavano ai fratelli questa dottrina: ‘Se non vi fate circoncidere, secondo l’uso di Mosè, non potete essere salvi!’. Poiché Paolo e Barnaba si opponevano risolutamente chiesero l’intervento degli Apostoli, i quali inviarono prontamente una lettera ai cristiani di Antiochia: ‘Abbiamo saputo che alcuni da parte nostra ai quali avevamo dato nessun incarico, sono venuti a turbarvi con i loro discorsi sconvolgendo i vostri animi …. Abbiamo deciso, lo Spirito Santo e noi, di non imporvi nessun altro obbligo al di fuori di queste cose necessarie: astenervi dalle carni offerte agli idoli, dal sangue e dalla impudicizia. State bene’”. (At. 15, 1-22-29)
Quanta autorevolezza e decisione, così differente dalla paura che, subito dopo la morte del Maestro, aveva invaso gli Apostoli, la stessa debolezza o timore che tante volte si nota tra di noi: paura di testimoniare la nostra fede. Troppe volte siamo superficiali e, davanti alla prova, mostriamo la nostra titubanza e debolezza. Non pregheremo mai abbastanza perché lo Spirito possa operare in noi, donandoci la pienezza di fede, che ci fa andare oltre l’umano e la mediocrità, a cui gli uomini del nostro tempo sembrano invitarci, senza forse neanche saperlo, attendendo da chi è credente e chiamato alla santità, una coerenza di vita, che assume tutte le istanze dell’uomo e del creato.
Ma forse trova ancora in troppi quella che possiamo definire ‘incertezza’, spesso frutto anche di un individualismo imperante, che intacca anche il nostro vivere la fede, in forme ‘intimistiche’ o personalistiche. Il credente fedele non può mai chiudersi in se stesso, isolandosi spiritualmente dalla comunità, ma è chiamato a vivere in un continuo scambio con gli altri, con vivo senso di fraternità, nella gioia e nel rispetto della uguale dignità e nell’impegno di fare fruttificare insieme l’immenso tesoro ricevuto in dono. Fanno tanto pensare le parole che Gesù rivolge ai suoi discepoli, che oggi siamo noi:
“Gesù disse ai suoi discepoli: ‘Se uno mi ama, osserverà la mia Parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui … Queste cose vi ho detto quando ancora ero tra voi. Ma il Consolatore, lo Spirito Santo, che il Padre manderà a mio nome, egli vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che vi ho detto. Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, Io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore. Avete udito ciò che vi ho detto. Vado e tornerò a voi: se mi amaste, vi rallegrereste che io vado al Padre, perché il Padre è più grande di me. Ve l’ho detto adesso, prima che avvenga, perché quando avverrà, voi crediate”. (Gv. 14, 23-29)
Parole che Gesù pronunciò nell’Ultima Cena, prima di affrontare il supremo dono della sua vita con la passione e crocifissione. Conosceva bene la debolezza umana dei suoi discepoli. Sapeva che per un poco avrebbero messo in dubbio la loro totale fiducia, fino a rinnegarLo. Sapeva tutto di loro. Ma volle rinfrancarli con queste parole, che abbiamo letto: hanno tutto il sapore di un testamento da non dimenticare. Tutto è in quella stupenda espressione, che ripeterà all’infinito nell’Ultima Cena: CHI MI AMA. L’amore, in e con Gesù, non conosce i limiti della morte, ma anzi è la chiave che apre il Cielo.
Occorre partire dalla convinzione che la vitalità nella fede è nella comunione fraterna: ‘… come Io ho amato voi: così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo conosceranno che siete miei discepoli’.
C’è stata e c’è una pericolosa diffidenza verso gli altri, che porta all’indifferenza, come se non ci appartenessero, e peggio ancora al rifiuto. Fa tanto soffrire. Gesù ha affidato il comandamento di amarci gli uni gli altri, all’intera Chiesa. Il che vuol dire che tutti, ma proprio tutti, hanno il dovere di fare dono di sé con quella manifestazione dello Spirito che è data a ciascuno, come direbbe S. Paolo, ‘per l’utilità comune’. E Dio solo sa quanto sia necessaria questa carità, per dare respiro a tanti che si sentono soli, o soffrono, o sono poveri. Amarsi, come ci dice Gesù, è costruire un piccolo o grande segno di speranza in tanti, oggi…ed è il miglior modo per essere e fare felici, perché ‘non sia turbato il nostro cuore e non abbia timore’. Ricordiamocelo sempre, per sconfiggere la tentazione dell’indifferenza e della solitudine:
“Chi mi ama, osserverà la mia Parola e il Padre mio lo amerà
e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui”.

Fonte:Mons.Antonio Riboldi,

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