don Enzo Pacini, "La Trinità ci parla di un Dio vicino a noi"


Domenica 22 maggio - SANTISSIMA TRINITÀ - «Tutto quello che il Padre possiede è mio; lo Spirito prenderà del mio e ve lo annuncerà».
19/05/2016 di Enzo Pacini*
La liturgia di questa domenica ci invita alla contemplazione e all’adorazione di uno dei misteri
fondamentali della nostra fede, la Trinità di Dio, che possiamo cogliere quasi in trasparenza nella sua opera di creazione e salvezza, come le tre letture di oggi ci suggeriscono.

Vi è un versetto nel vangelo che, comunque, può offrici uno spunto di riflessione particolare sul quale forse è bene soffermarsi. Gesù annuncia ai discepoli la venuta dello Spirito che li guiderà alla comprensione di molte cose che egli non può comunicare sul momento perché incapaci di portarne il peso. Perché questa affermazione così singolare? Gesù ha detto finora ai discepoli cose pesantissime e scandalose riguardanti la sua persona: la necessità della sua morte, che provoca la reazione sdegnata di Pietro (cfr Mt 16,22); riguardanti i discepoli: la necessità di portare la propria croce, di rinnegare se stessi, di perdere la vita (cfr Lc 14,26). Quali altre cose più gravose di queste? Quale altra forza è necessaria al discepolo che è rimasto, nonostante tutto, accanto al suo Signore riconoscendo che solo lui ha parole di vita (cfr Gv 6,68)?  Una volta passato lo scoglio della passione e della morte non dovrebbe essere la strada totalmente liscia?

Evidentemente non è così. Non solo perché vivere in concreto, momento per momento, una risposta coerente alla chiamata del Signore implica una relazione continuativa, che lo Spirito si incarica di animare (anche le esperienze più profonde tendono a sbiadire nel tempo se non coltivate con costanza, l’amicizia, l’amore e anche la fede non fa differenza); ma anche perché questa relazione, questo essere ammessi nella familiarità con Dio, nell’abbraccio dell’amore trinitario, non è affatto facile da accettare. È il peso della libertà, che a volte è più insopportabile di ogni altra richiesta, il rimettersi in gioco continuamente,  superare l’infantilismo che demanda ad altri (e a Dio), le proprie responsabilità. Anche le richieste più assurde di un Dio sadico che tortura i propri fedeli con pesi insopportabili a volte possono essere preferibili perché deresponsabilizzano, e anzi confermano, il credente. Che c’è da fare? Lo faccio, basta che tu non mi chieda altro, che non chieda ME, il mio cuore, la mia collaborazione, di prendermi in carico la mia vita di fronte ai tuoi occhi.

Il celebre personaggio del Grande Inquisitore ne «I fratelli Karamazov» di Dostoevskij lo dice chiaramente al Cristo che è tornato: «nulla mai è stato per l’uomo e per la società umana più intollerabile della libertà! Invece di impadronirti della libertà degli uomini, Tu l’hai ancora accresciuta!» E invece la Trinità ci parla di questo, del Dio che bussa alla porta e viene a tavola con noi, un Dio che è capace di ascoltarci e non solo farsi ascoltare, che ci chiede aiuto e non solo che ce lo da. Un Dio che si fa pane, povero, ammalato, che porta, ma non toglie, il peso della libertà. È il Dio che ci mette in mano la nostra vita, come dono di colui, che svuotandosi della sua divinità, l’ha fatta propria ed è contemporaneamente sua e nostra.

*cappellano del carcere di Prato
Fonte:toscanaoggi.it

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