fr. Massimo Rossi, "Cos’è che fa la differenza?"


XIV DOMENICA – 3 luglio 2016
Is 66,10-14c;  Sal 65/66;  Gal 6,14-18; Lc 10,1-12.17-20
O Dio, che nella vocazione battesimale ci chiami ad essere pienamente disponibili all’annunzio del
tuo regno, donaci il coraggio apostolico e la libertà evangelica, perché rendiamo presente in ogni ambiente di vita la tua parola di amore e di pace.
“Rallegratevi con Gerusalemme, esultate per essa tutti voi che l’amate.”
“Quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo…”
“Vi mando come agnelli in mezzo ai lupi…”
“I vostri nomi sono scritti nei cieli”, “Il regno di Dio è vicino”:  questi ‘detti’ del Signore ‘suonano’ come una benedizione, ma anche come una minaccia.
I Vangeli riportano più volte parole come queste, espressioni enigmatiche, sentenze sibilline, suscettibili cioè di essere interpretate in un senso, ma anche nel suo esatto opposto.
Cos’è che fa la differenza? è la nostra volontà, è la nostra libertà, è la nostra razionalità: in una parola, la nostra umanità.  Siamo noi che diamo al Vangelo un valore di salvezza, per noi e per coloro ai quali lo annunciamo; oppure di sventura, di rovina, per noi, a motivo del nostro peccato e anche per coloro che, a causa del nostro peccato, ricevono una visione distorta del Vangelo, e dunque, anche (una visione distorta) di Dio.
E sì, prima di condannare la gente che non ascolta la Parola di Dio, e si mostra addirittura  indifferente all’annuncio della fede, è necessario valutare la conformità al Vangelo dei ministri, dei missionari, di noi, che abbiamo risposto alla chiamata di Gesù e siamo stati inviati a preparare la strada al Messia.
Abbiamo una responsabilità e più di una responsabilità quanto alla sorte del Regno di Dio!
Leggendo la pagina di san Luca, qualcuno potrebbe farsi un’idea che il bene stia tutto e solo dalla parte della Chiesa, dei preti, dei religiosi, dei missionari…, mentre il male, i pericoli, le contraddizioni, le ipocrisie, il rifiuto di Dio…  sono tutti e solo fuori dalla Chiesa.
Se così fosse, non soltanto non ci sarebbe crisi delle vocazioni – da quasi cinquant’anni! – ma la Chiesa attirerebbe ancora fedeli dai quattro angoli della terra, uomini e donne di ogni estrazione sociale, di ogni ideologia politica, di ogni razza e colore…
Invece non è così, almeno nel nostro Occidente, almeno nel vecchio continente europeo.
Sono fermamente convinto che nessuno possa rifiutare il Vangelo in sé e per sé:  non si può rifiutare la Verità, consapevoli che è la verità…
Temo, anzi, sono certo e lo ripeto forte e chiaro: quando il Vangelo non riceve l’attenzione che merita, quando non trova adesione e seguito, in gran parte dipende da coloro che hanno il compito di annunciarlo, di farlo conoscere ed apprezzare, nelle parole, ma soprattutto nei fatti e nelle opere.
In politica si dice: “Chi controlla i controllori?”;  anche la Chiesa deve interrogarsi seriamente quanto a esemplarità e credibilità…  Il cardinal Martini amava ripetere: “La Chiesa ha bisogno di testimoni credenti, sì, ma soprattutto credibili!”.
Perché la gente non è sempre così matura e capace di distinguere il valore intrinseco del messaggio dalla qualità del messaggero. E così, per lo scandalo del ministro, per la sua incoerenza, anche la Parola di Dio patisce nuovamente i dolori del venerdì santo.
Si obbietta che il Vangelo non è più capace di plasmare, di muovere coloro che vi si sono consacrati, apparendo piuttosto come un’utopia; nel peggiore dei casi, una parola tra tante, un messaggio positivo, certo, ma privo della forza necessaria a convertire il mondo
…Se non riesce neppure a convertire la Chiesa.
E proprio di conversione della Chiesa hanno parlato esplicitamente gli ultimi Papi, negli anni che seguirono il Concilio.
I potenti mezzi di comunicazione, con i quali oggi dobbiamo fare i conti, nel bene e nel male, fuori e dentro la Chiesa, impongono una integrità e una trasparenza di vita che, forse, in passato non erano così facili da decifrare e conoscere, su così vasta scala e presso un così vasto pubblico.
Anche su questo aspetto, il Signore è stato profeta, allorché mise in guardia i suoi dal rischio dello scandalo nei confronti dei più piccoli, crimine per il quale non c’è salvezza.  È un’affermazione durissima!  “Meglio per lui che gli si legasse una macina da mulino al collo e fosse gettato in mare” (Lc 17, Mt 18).
Ebbene, questa domenica, altrettanto severo suona l’ordine del Maestro di Nazareth di scuotere la polvere dai piedi, rifiutando cioè ogni relazione con coloro che non avranno creduto alla santità dei Suoi testimoni: ricordo che in antico, la testimonianza era conosciuta come martirio, e a questo mi riferisco quando parlo della santità.
Ecco, noi siamo nel mezzo: da una parte, coloro che preferirebbero rinunciare alla vita piuttosto che rinunciare all’annuncio di fede; dall’altra quelli che distinguono la fede dalla vita, intendendo la prima come un oggetto di studio, di cimento intellettuale, di dibattito accademico, ma che tuttavia non coinvolge l’esistenza; coloro che sdottoreggiano per gli altri, ma non per sé, predicano bene ma razzolano male…
Del resto, da sempre la Chiesa è santa e peccatrice;  e in essa convivono autentici pastori, ma anche mercenari senza scrupoli.  In fondo, anche nel gruppo dei Dodici, non tutti erano per così dire farina da fare ostie…
Come tenere insieme queste sentenze evangeliche, con il primato della misericordia?
Beh, se la misericordia potesse essere identificata con l’indulgenza facile, allora davvero non si potrebbe stabilire alcuna corrispondenza tra gli insegnamenti di Gesù e la vita eterna.
In verità non c’è dicotomia tra la severità del Figlio di Dio e la misericordia del Padre:  la luce della croce , il sacrificio di Cristo per i peccatori, o, come disse lui, per i malati e non per i sani (cfr. Mt 9,9-13) costituisce l’ultima parola di Dio sul peccato e sulla salvezza nostra e di tutti.

Fonte:paroledicarne.it

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