Paolo Curtaz, "Chiesa in uscita"

Chiesa in uscita
Commento al Vangelo di domenica 3 luglio 2016 - Paolo Curtaz
Gesù il Nazareno per me è Cristo.
E io, per lui, sono un discepolo.
Che non fa della propria fede un nido. Che non mette la famiglia, il clan, le relazioni sempre e solo
penultime prima dell’annuncio del Regno. Che non si volta indietro per rimpiangere il passato o per compiacersi del lavoro svolto.

E a me, a noi, il Signore affida il compito di annunciare ad ogni uomo il volto di Dio.

Annuncio che non è riservato ai preti e alle suore e che, anzi, in questo momento rischia di essere disturbato dall’idea che il mondo si è fatto di una Chiesa gerarchica composta da delinquenti.

Benedetto il Signore che continua a inviarci il Papa giusto al momento giusto!

E Francesco venuto dai confini del mondo ci ammonisce, ci invita a recuperare l’essenziale, ad uscire dalle sacrestie, dal “si è sempre fatto così”, per ritrovare l’essenziale.

E non dobbiamo inventarci niente di nuovo: è Gesù stesso che ha dato le istruzioni.

Israele credeva che il mondo fosse composto da settantadue nazioni: ogni anno al tempio di Gerusalemme si immolavano settanta buoi per la conversione delle nazioni pagane.

Così Gesù invia a tutto il mondo, alle settantadue nazioni, i discepoli.

Non si ferma a pregare per la loro conversione.

Manda discepoli credibili per proporre a tutti il cambiamento di vita.

Decisamente un’altra storia.

Punti di vista

Certi descrivono la situazione attuale della Chiesa con tinte fosche, foschissime.

Calo vistoso della partecipazione alla messa domenicale, seminari ormai svuotati, giovani lontani, dialogo col mondo e con le istituzioni spesso votato alla contrapposizione e allo scontro.

Le riunioni dei preti, spesso, si trasformano in un lungo elenco di lamentazioni dolenti e sconfortate. I vescovi, spesso, non sanno che pesci prendere, o si rifugiano dentro le loro chiavi di lettura, arroccandosi. I laici formati, quel meraviglioso gruppo nato sotto la spinta del Concilio, portano avanti il loro impegno nella Chiesa con fatica.

Ma c’è anche un modo di vedere le cose in maniera completamente diversa.

I giovani non bazzicano più la Chiesa, certo, perché ha perso di credibilità.

Ma Cristo no, non ha perso di credibilità, e nemmeno la nostalgia di Dio.

Grande, immensa. Desiderio intatto, come confermano le più recenti indagini (Dio a modo mio, di Paola Bignardi), ma che non trova un approdo, una sponda.

Non si tratta di chiudere le parrocchie, certo.

Ma di affiancare ad essere, in maniera non istituzionale, non organizzata, altri modi di dire Dio.

Di diventare, sul serio, quella Chiesa in uscita di cui parla Francesco.

Allora ognuno di noi può dire Dio e viverlo là dove abita.

Riflettevo, stamani: questa mia riflessione è letta o vista, all’incirca, da cinquantamila persone.

Se dodici pescatori di Galilea hanno incendiato d’amore il mondo, cosa potremmo fare noi?

Stile

I discepoli sono mandati a due a due, precedendo il Signore.

Non dobbiamo convertire nessuno: è Dio che converte, è lui che abita i cuori.

A noi, solo, il compito di preparargli la strada.

In coppia veniamo mandati: l’annuncio non è atteggiamento carismatico di qualche guru, ma dimensione di comunità che si costruisce, fatica nello stare insieme.

E ci chiede di pregare: non per convincere Dio a mandare operai (è esattamente ciò che egli vuole!) ma per convincere noi discepoli a diventare finalmente evangelizzatori!

L’annuncio è fecondato dalla preghiera: perché non diventare silenziosi terroristi di bene, seminando benedizioni e preghiere segrete là dove lavoriamo?

Affidando al Signore, invece di giudicare?

Il Signore ci chiede di andare senza troppi mezzi, usando gli strumenti sempre e solo come strumenti, andando all’essenziale. Lo so, amiche catechiste: il corso di nuoto o la settimana bianca sono mille volte più attraenti della vostra stentata ora di catechismo. Ma voi avete una cosa che a nessun allenatore è chiesta: l’amore verso i vostri ragazzi.

Il Signore ci chiede di portare la pace, di essere persone tolleranti, pacificate. Nessuno può portare Dio con la supponenza e la forza, l’arroganza dell’annuncio ci allontana da Dio in maniera definitiva.

Infine il Signore ci chiede di restare, di dimorare, di condividere con autenticità.

Noi non siamo diversi, non siamo a parte: la fatica, l’ansia, i dubbi, le gioie e le speranze dei nostri fratelli uomini sono proprio le nostre, esattamente le nostre.

Gioite!

È faticoso e crocifiggente, lo so. Lo sa anche Paolo che, pur convertendo il bacino del Mediterraneo, sente tutto il limite del suo carattere. Ma, come Isaia, siamo chiamati a incoraggiare gli esiliati di ritorno da Babilonia, a volare alto, a sognare in grande, a costruire il sogno di Dio che è la Chiesa. E pazienza per i risultati che mancano: è un’epoca di profezia, la nostra.

Allora potremo davvero sperimentare la gioia dell’annuncio, la gioia di vedere che Dio, sul serio!, passa attraverso le nostre piccole e balbettanti parole, vedere che la Parola si veste delle nostre piccole riflessioni.

Quale gioia proviamo nel vedere altri condividere la nostra stessa fede!

Smettiamola di restare impantanati nella routine, superiamo le paure del mondo, non valutiamo i risultati come un’azienda del sacro: gioiamo amici, i nostri nomi sono scritti nei cieli, Dio già colma i nostri cuori e ci affida il Regno.

Fonte:tiraccontolaparola.it



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