Don Marco Ceccarelli, “Facendo che cosa erediterò la vita eterna?”

XV Domenica Tempo Ordinario “C” – 10 Luglio 2016
I Lettura: Dt 30,10-14
II Lettura: Col 1,15-20
Vangelo: Lc 10,25-37
- Testi di riferimento: Lv 18,5; Dt 30,6; Ne 9,29; Ez 20,11-13.21; Ab 2,4; Mt 7,21; 11,29; 19,17; Lc

6,36; 18,18; 21,19; Gv 8,48.51; 13,15; Gal 3,11-12; Ef 5,1-2; Eb 10,36-39; 1Pt 2,21; 1Gv 2,17;
3,16; 4,11
1. Il brano di Vangelo odierno è molto importante per capire la prospettiva di Luca nella composizione
del suo libro, e quindi per avere una chiave fondamentale di interpretazione anche per i testi
che incontreremo nelle settimane successive. Nella prima parte del brano odierno si presenta un episodio
che si trova anche negli altri Vangeli Sinottici; ma Lc lo inserisce in una cornice, quella relativa
alla “vita eterna”, che ne dà il senso. E la seconda parte, propria del nostro evangelista, è incredibilmente
“folgorante” per coglierne tutta la portata cristologica. Inoltre, è importante per la retta
comprensione, tenere presente che il brano è diviso in due parti che seguono lo stesso preciso schema:
1) l’interlocutore di Gesù (un “dottore della legge”) gli rivolge una domanda; 2) Gesù risponde
con una contro domanda, invitando l’interlocutore a rispondere lui stesso alla propria domanda; 3) il
dottore della legge risponde, in maniera esatta; 4) risposta di conferma da parte di Gesù.
2. “Facendo che cosa erediterò la vita eterna?” (v. 25).
- In questa domanda abbiamo la prima peculiarità del brano rispetto ai paralleli sinottici (in Mt e Mc
la domanda è “Qual è il primo/più grande dei comandamenti?). Si tratta di una domanda che in tutto
Lc svolge un ruolo chiave. Va tenuto presente che il nostro evangelista molto spesso presenta delle
situazioni o dei personaggi contrastanti per rispondere, esplicitamente o implicitamente, a questa
domanda. Abbiamo già visto per esempio la contrapposizione fra beatitudini e guai, fra il fariseo
Simone e la peccatrice; e tanti altri appariranno in seguito. Per capire dove sta la vita – quella vita
vera, piena, realizzata, che noi chiameremmo “felicità”, e che spesso viene qualificata con l’aggettivo
“eterna” – e per conseguirla, occorre avere la saggezza di “fare” la cosa giusta. E spesso la cosa
giusta non è quella che appare come la più ovvia e scontata. Si vuole allora insegnare questa saggezza.
- La risposta che Gesù sollecita al suo interlocutore ci rimanda all’Antico Testamento dove molto
spesso si afferma che l’osservanza dei comandamenti conduce alla vita, così come la loro inadempienza
porta alla morte (vedi testi di riferimento). Dunque la risposta alla domanda del v. 25 è quella
che troviamo al v. 28: «Fa questo e vivrai». Chi osserva i comandamenti dell’Antica Legge, di
cui i due citati sono una sintesi, ha la vita eterna, vive felice, ha una esistenza piena e realizzata (cfr.
Lc 18,18-20). Tutto ciò sembra quasi troppo semplice. Verrebbe da chiedersi inoltre a che serve allora
Gesù. Se bastava osservare i comandamenti dell’Antico Testamento per avere la vita eterna,
Cristo che è venuto a fare? Qualcuno direbbe: Beh, per darci l’esempio, perché come ha fatto lui,
buon samaritano, facciamo anche noi. Ma questa interpretazione di sapore pelagiano è un po’ riduttiva.
Ecco perché la questione non si esaurisce qui, ma va compresa alla luce della domanda e della
parabola successiva.
3. “Chi è il mio prossimo? (v. 29) … “Chi di questi tre è stato il prossimo?” (v. 36).
- La parabola del buon samaritano serve a concretizzare i due comandamenti osservando i quali si
eredita la vita eterna. C’è un prossimo da amare, ma chi è? Nelle interpretazioni di questa parabola
non si nota sempre una rigorosa coerenza di ragionamento. Come era avvenuto nella prima parte del
dialogo con il dottore della legge, Gesù risponde alla domanda con un’altra domanda che induce
l’interlocutore a rispondere egli stesso alla propria domanda. La domanda “Quali di questi tre ti pare
sia stato il prossimo di chi è incappato nei briganti?”, implica che il prossimo è uno dei tre. Come
nel primo caso, anche ora il dottore risponde in modo esatto (poteva fare altrimenti?): «Chi ha fatto
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misericordia con lui» (v. 37). Dunque la risposta alla domanda “chi è il mio prossimo?” – ed è qui
che occorre una stringente coerenza – è “chi ha fatto misericordia con te”. Il nostro prossimo è colui
che ci fa misericordia.
- È noto che una delle caratteristiche delle parabole di Gesù è quella di contenere sempre qualche
punto che stride, che urta l’uditorio. In questo caso si tratta della comparsa del samaritano. Dopo il
sacerdote e il levita ci si sarebbe aspettano un “laico” israelita, un pio giudeo che agisce in maniera
più benigna dei due del “clero”. Invece appare un samaritano che apparteneva ad una delle categorie
più odiate dai giudei. Egli non teme di avvicinarsi ad uno che poteva essere già morto come invece
forse hanno pensato i primi due. Il moribondo viene salvato da morte certa da un samaritano (il
“mezzo morto” del v. 30 significa che sarebbe morto se nessuno lo avesse soccorso). Il particolare
non è senza importanza.
- “Fare misericordia”. Il prossimo è colui che ha fatto misericordia, vale a dire il samaritano. Di fatto
questo è scandaloso perché, appunto membro di un odiato gruppo sociale. Ma proprio lui compie
un gesto di altruismo estremo e gratuito verso chi certamente non lo amava. Quindi già in fase di
una prima immediata interpretazione il prossimo da amare sarebbe il nemico. Ma in realtà chi rappresenta
il samaritano della parabola? L’espressione “fare misericordia” (poien eleos) ricorre ancora
in Lc soltanto in 1,72, avente Dio come soggetto. È però molto frequente nell’Antico Testamento;
corrisponde all’ebraico ‘sh hesed, e ha spesso come soggetto il Signore (Gen 24,12; Es 20,6; Dt
5,10; 2Sam 2,6; 22,51; 1Re 3,6; Ne 9,17; Sal 18,51; ecc.). Il “fare misericordia” è innanzitutto una
azione divina verso l’uomo sofferente o in necessità. Quando è applicata all’uomo indica un’azione
favorevole non tanto da pari a pari, ma piuttosto da parte di chi si trova in una situazione di vantaggio
nei confronti dell’altro. Dunque, il prossimo per il dottore della legge, “chi ha fatto misericordia”
con lui, come a chiunque altro ebreo, è innanzitutto il Dio dei padri. Ma in secondo luogo quel
prossimo che va amato come se stesso e che è rappresentato dal samaritano della parabola, è Cristo
stesso. Lui è l’espressione massima della misericordia che Dio fa agli uomini prendendosi cura gratuitamente
di loro. È lui che “ha avuto compassione” di noi (questo verbo splanghnizomai, “muoversi
a compassione”, del v. 33 appare altre 11 volte nei Vangeli di cui 9 ha come soggetto Gesù;
mentre le altre due occorrenze hanno come soggetto due personaggi di parabole che rappresentano
Dio: Mt 18,27; Lc 15,20). Gesù è il prossimo che ci ha amato fino a dare la vita per noi, caricandosi
dei nostri peccati fino a farsi inchiodare alla croce. È lui che si è speso totalmente per chi non lo
amava. È lui che ci ha salvato da morte certa. È lui che ha ridato la vita a noi che eravamo morti per
i nostri peccati (Ef 2,5). Per questo va amato come se stessi. Lui è il samaritano (cfr. Gv 8,48) che è
in grado di “fare” quello che non possono fare il sacerdote e il levita, adempiere la legge dell’amore
a Dio e al prossimo.
- “Anche tu fa ugualmente” (v. 37). La misura dell’amore è quello divino manifestato in Cristo. Nel
momento in cui abbiamo sperimentato la misericordia di Dio nei nostri confronti, nel momento in
cui Cristo ci ha rigenerati a vita nuova, allora possiamo anche noi fare lo stesso che ha fatto lui.
“Ugualmente” (attenzione, non “così”, come appare nella versione CEI) si riferisce a Cristo: «Come
io vi ho amato così anche voi amatevi gli uni gli altri» (Gv 13,34). Il cristiano è chiamato ad agire
come lui, facendosi carico dei peccati e delle sofferenze degli altri. La misura del “fare” è dunque
quella divina. Come si dice in Lc 6,35-36: «Amate i vostri nemici … e sarete figli dell’Altissimo
che è benevolo verso gli ingrati e i malvagi. Siate misericordiosi come il Padre vostro è misericordioso».
È un fare ugualmente a Dio, seguendo le orme di Cristo (1Pt 2,21). «Imitate Dio come figli
diletti e camminate nell’amore come Cristo ci ha amato e ha dato se stesso per noi» (Ef 5,1-2).

Fonte:donmarcoceccarelli.it

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