Padre Paolo Berti,“…chiunque si esalta sarà umiliato...”

Omelia  XXII Domenica del tempo ordinario    
Lc.14,1.7-14
“…chiunque si esalta sarà umiliato...”  
Tutti sappiamo come sia pesante chi si esalta, e come sia più difficile da sopportarlo quanto più è in
vista, in alto. In un poveraccio la cosa può essere tollerata: si vede bene che cerca di liberarsi da frustrazioni, ma in un uomo in vista la cosa suona proprio come esibizione di sé.
E dunque, vista la reazione comune, il superbo deve industriarsi a far passare questo suo comportamento come un comportamento da grande, da forte, che ha ormai superato gli scrupoli delle vecchierelle, come si suol dire. Deve affermare che è giusto fare così, e che i colli torti e modini di umiltà sono il peggio che esista.
Così, dovendo costui far passare come un bene il suo essere senza umiltà, riduce l’umiltà alla caricatura del collo torto.
A questo punto, dopo aver ridicolizzata l’umiltà, sostiene che per essere uomini bisogna affermare se stessi, e senza inflessioni di umiltà comincia a decantare i suoi meriti, i risultati conseguiti, i suoi titoli, le sue onorificenze. Di questi tali ne è pieno il mondo. Nel novecento si sono presentati come dei superuomini, ma in realtà erano diventati, pur rimanendo uomini, dei men che uomo. I superuomini di ieri avevano frasi tracotanti, petti gonfi, pugni ai fianchi, oggi vanno i modi moderati, ma è solo questione di stile, poiché la sostanza è sempre la stessa: la superbia.
Oggi vanno i modi composti, ma con la stessa volontà di comparire grandi, forti. L’umiltà, per costoro, è solo qualcosa di tattico.
Ma la vera umiltà non rende meschino l’uomo, non lo rende servile, lo rende invece grande.
Ed è vera forza l’umiltà, anche se sembra la caratteristica dei privi di forza. San Paolo ci dice però che quando era debole allora era forte; forte della forza di Dio (Cf. 2Cor 11,30).
La vera umiltà l’uomo la trova quando si pone dinanzi a Dio e coglie il suo essere creatura relativa a lui, suo Creatore; quando coglie il suo peccato e lo detesta. Questa umiltà è aperta alla grandezza poiché incontra Dio. Questa umiltà si apre al dono di essere figlio adottivo di Dio; erede con Cristo del regno dei cieli. Un vero grande è sempre un vero umile, cioè un umile di cuore e non di bocca, perché è possibile barare - ma poi si è sempre scoperti - sull'umiltà.
L’umiltà è unita alla verità, e allora l’oggettività dei moderati, di cui ho detto prima, per essere veramente oggettività deve attingere alla verità e quindi alla conoscenza di se stessi, quali creature poste dinanzi al loro Creatore. L’umiltà è unita alla giustizia, il che vuol dire che dobbiamo comportarci conformemente alla verità su noi stessi, e quindi scartare le false visioni che abbiamo confezionato su di noi. Allora bisogna lottare contro l’amor proprio, contro la voglia di emergere sugli altri, contro la voglia di credersi degli assoluti. Dobbiamo essere perseveranti in questo, sino alla fine dei nostri giorni, poiché pesano permanentemente su di noi le conseguenze del peccato originale, che pur ci è stato tolto nel Battesimo, e pesano pure i gradi di debolezza che abbiamo contratto noi stessi nel fare i peccati. Ma non siamo solo sotto il peso della carne, abbiamo anche le ali dello Spirito. Dio ci dona la sua grazia, che ci stimola al bene e che ci sostiene nel farlo. Ma ecco, l'umiltà vuole che mentre riconosciamo i doni di Dio, nascondiamo a noi stessi le ricchezze che Dio ci ha dato, per non impadronircene, e così innalzare un continuo osanna a Dio.
L’umiltà non si ha senza rinnegamento di se stessi, ma ben intendendo che il rinnegare se stessi non è affatto autolesionismo, ma è opera di libertà.
Come vedete, l’umiltà attinge il suo essere al mistero della nostra unione con Dio in Cristo, nella Chiesa. L’umiltà è vita in Dio e perciò è luce d’amore; così l’umiltà - riprendo un’espressione felicissima di santa Caterina da Siena - “è la balia e la nutrice della carità”.
L’orgoglio è un muro che impedisce l’unione con Dio.
Di umiltà nel parlavano i Greci, i Romani, ma nel senso di meschinità. Di umiltà ne parlano i buddisti, ma quanta differenza c'è tra l'umiltà del Vangelo e la loro umiltà! L’umiltà del buddista è la volontà di non essere, di estinguere il desiderio di essere, il desiderio della vita, concependo pessimisticamente la vita, e concependo Dio panteisticamente. Dove l’orgoglio in questa umiltà? E’ nel negare la trascendenza di Dio, cioè il suo essere totalmente altro rispetto al creato. L’umiltà che sostiene l’errore non è mai umiltà vera.
L’umile, fratelli e sorelle, non andrà deluso, avrà il suo premio, cioè il possesso di Dio nella gloria. Gesù ci dice: (Mt 23,12) “Chi invece si esalterà, sarà umiliato e chi si umilierà sarà esaltato”.
Si diventa grandi con l’umiltà. Si diventa grandi umiliandosi nelle umiliazioni. Se uno infatti ci umilia dicendoci che siamo intemperanti, dobbiamo accettarlo, perché in effetti abbiamo la tendenza ad esserlo e spesso lo siamo stati. Se uno ci dice che siamo golosi non dobbiamo inalberarci, perché spesso abbiamo assecondato parecchio la gola. Certo, a volte le umiliazioni sono dei calcolati fraintendimenti delle nostre persone, ma non dobbiamo inalberarci, rabbuiarci; i santi hanno vissuto in mezzo ai fraintendimenti e non si sono inalberati o rabbuiati.
Gesù, abbiamo ascoltato, vide come i farisei sceglievano tutti i primi posti, cioè quelli più in vista, quelli più vicino al padrone di casa: i posti d’onore. Ognuno si sentiva autorizzato ai posti d’onore senza sospettare che il padrone avrebbe gradito altri.
Quel comportamento era in contraddizione con la pietà e l’umiltà che i farisei volevano che fosse loro attribuita, e Gesù denunciò la contraddizione.
Proprio una pessima figura fece quel tale della parabola che si credette degno di uno dei primi posti e l’occupò senza il minimo pensiero che fosse per un altro. Quel tale errava perché è Dio che misura il nostro merito, che scaturisce innanzitutto dalla sua misericordia, non siamo noi i giudici del valore dei nostri meriti. San Paolo, proprio questo dice nella prima lettera ai Corinzi (4,4) pur non essendo consapevole di alcuna colpa: “Il mio giudice è il Signore!”.
“Chi si vanta si vanti nel Signore” ci dice anche san Paolo (1Cor 1,31), intendendo che chi afferma una realtà positiva di sé la deve riconoscere quale dono della misericordia di Dio. Il merito esiste, ma meritiamo solo perché Dio ci ha concesso con la sua grazia di meritare.
Tra gli invitati, probabilmente, accadeva di rado che uno venisse posto indietro, altrimenti quegli invitati si sarebbero regolati diversamente. Certamente, valeva la regole che chi tardi arriva male alloggia, ma questa non è la regola che vige nella conquista dei posti nel cielo. Il discorso di Gesù proprio questo ci insegna: ognuno avrà l'onore che avrà meritato, e non sarà dato a chi si è innalzato sugli altri.
Di sicuro colui che aveva invitato tanta gente a pranzo non aveva voglia di inimicarsi qualche invitato facendolo andare in un posto meno importante. Ma che vale invitare gente a pranzo per avere complimenti e utili?
Dunque invitiamo, spesso, alla nostra mensa i poveri; magari istituiamo una piccola mensa parrocchiale e impegniamoci a mantenerla nel tempo. E ciò non per semplice senso di beneficenza, ma per amore del povero, nel quale dobbiamo vedere Cristo.
La lettera agli Ebrei ci invita a considerare che noi, fratelli e sorelle, ci siamo accostati alla città del Dio vivente, a miriadi di angeli, al Mediatore della nuova alleanza, e ciò per misericordia divina. Ogni sacrificio che possiamo fare o sostenere non è che ben poco rispetto a questa realtà che ci è stata offerta da Dio. Noi, fratelli e sorelle, non possiamo che scartare ogni bramosia di onori e ricchezze della terra, cercando invece ciò che è veramente grande; e grande è mantenersi nell’umiltà e nella carità, pregando anche per coloro che, superbi, vogliono oscurare la vera umiltà e la vera carità. Amen, Ave Maria. Vieni, Signore Gesù.

Fonte:http://www.perfettaletizia.it/

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