Padre Paolo Berti“Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi”

XIX Domenica del tempo ordinario       
Lc.12,32-48
“Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi”
Omelia  

La lettera agli Ebrei ci ricorda che per Abramo e i suoi discendenti la terra promessa era una figura
della patria eterna del cielo e che perciò dovevano vivervi da pellegrini e forestieri. Ci fa bene sentirci dire questo. Ci fa bene perché noi che abbiamo Cristo, Dio in noi, e i cieli aperti, spesso viviamo come se avessimo qui la nostra stabile dimora, proprio come se non fossimo pellegrini e forestieri. La secolarizzazione ci sta veramente assediando e dobbiamo essere molto attenti se vogliamo rimanerne indenni. Ci troviamo infatti di fronte ad un’evoluzione raffinata di errori e facciamo fatica ad intercettarli, a conoscerne la loro matrice culturale, e quindi a respingerli con trionfo intellettuale; molte volte, infatti, dobbiamo accontentarci di “sentir puzza di zolfo”, come si suol dire. Specie i giovani sono in difficoltà trovandosi di fronte ad una cultura dove il trascendente è visto come una semplice esigenza di espansione dell’uomo e non una realtà che oggettivamente esiste. Ma certo, noi fratelli, che abbiamo nel cuore Dio, sappiamo che nulla si può infiltrare in noi se rimaniamo uniti a Colui che per grazia sua è in noi. Il merito della sensibilità del nostro cuore non è nostro: è perché c’è lui. Il nostro merito è ben poco in questo; da lui discende, infatti, anche la grazia di essere uniti a lui; unione da cui deriva, appunto, la nostra capacità di “sentir puzza di zolfo”, per poi giungere a confutazione dell’errore. Dunque, stiamo sereni!
La fede ci sostiene. La fede non è solo credere in Dio, ma vivere in Dio, vivere di Dio, presente per la grazia della Redenzione in noi. La fede è così, come abbiamo ascoltato dalla lettera agli Ebrei, “fondamento di ciò che si spera”; infatti, la fede non delude mai, ciò che Dio ha promesso si compie sempre. La fede è “prova di ciò che non si vede”, cioè delle cose invisibili, ma realissime, che coglieremo quando vedremo Dio, e lo vedremo così come egli è (1Gv 3,2)
Ora, fratelli e sorelle, se la fede è fondamento e prova, vuol dire che quando siamo in crisi, la nostra crisi non è altro che una crisi di fede, del fondamento e della prova, appunto. Inutile ingannarci: ogni crisi non è altro che una crisi di fede! Ma consideriamo come la fede di Abramo, dei patriarchi fu grande, e allora, noi che possediamo lo Spirito e viviamo in Cristo un’intima unione con Dio, quanto più dovremmo credere!
Il testo della lettera agli Ebrei ci presenta tanti esempi di fede. E il testo della Sapienza ci dice che l’avveramento delle promesse rafforza la confidenza in Dio; “avessero coraggio”, dice il testo. L’assenza di fede fa uscire l’uomo dal disegno salvifico di Dio, lo esclude dai frutti, dalla gioia degli avveramenti delle promesse.
Gli avveramenti producono gioia, rinnovamento di vita, in chi ha avuto fede.
Voglio dirvi questo: accade spesso che anime piene di fede siano nella sofferenza, ma poi, senza che ne vedano il modo, sentono che il loro cuore pulsa di gioia e di amore, e dicono stupite: “Ma io non ero nella sofferenza, nel buio?”. E concludono dicendo: “Dio; Dio ha toccato il mio cuore”. Il salmo 126,1 ci dice che la gioia di chi credette al ritorno da Babilonia, anche quando sembrava impossibile crederci, nel momento dell'avveramento diede l'impressione di sognare :“Quando il Signore ristabilì la sorte di Sion, ci sembrava di sognare”.
I santi si sono mantenuti in cammino verso la patria celeste credendo alla parola del Signore, non hanno ceduto fermandosi a qualche consolazione terrena. La fede li manteneva in cammino.
Gesù nel Vangelo di questa domenica ci parla di attesa, di fianchi cinti, di lucerne accese; il cammino è anche fatto di attesa dell'incontro con il Signore che viene (Mt 24,30.64; Ap 1,7). Dunque vigilanza, prontezza nell’attendere il Padrone che verrà. Chi dimentica che il Padrone verrà crede di essere diventato lui il padrone, e quindi di non dover rispondere a nessuno delle sue azioni. Oppure, crede che il Padrone si piegherà alle sue giustificazioni sulla sua pigrizia, indolenza, disamore. E’ la stoltezza dell’incredulo, del negatore di Dio, che crede che non ci sarà un rendiconto finale. Ma chi ama il Padrone sa che questi ritornerà glorioso, pronto a partecipare la sua gioia ai suoi servi fedeli, e perciò con amore lo aspetta fino a tarda notte per godere della sua gioia, per fargli festa e far parte della festa.
Chi non cammina e attende si fa prendere dalla Terra, e resta schiavo dei tanti faraoni della Terra, che fanno capo al faraone dell'abisso.
L’uomo vuole salire ai pianeti, ma è schiavo della Terra e legato con mille catene di peccato alla mano del faraone dell'abisso.
L’uomo che di fronte alle meraviglie del cosmo dice adorante: Dio, ha tanta pace. Che pace ha nel cuore chi si sente umilmente creatura, e guarda la volta stellata e pensa che anche Gesù la guardava. Che tormento, invece, ha nel cuore quell’uomo che vuole sapere tutto, che non vuole più essere creatura di Dio, ma aspira ad essere un dio, ribellandosi a Dio. Quell’uomo è triste, anche se si stampa sul volto un sorriso da plastica facciale; la sua mente è sovraccarica di nozioni, di sconfinamenti in cose più grandi di lui, che lo trascinano, poiché non umile, a fare ipotesi cariche dei più grandi errori, come afferma il libro del Siracide (3,21-24).
Con questo, fratelli, non voglio che pensiate che sia contro la scienza. Voglio dire che l’uomo non deve accanirsi a forzare dimensioni sovraumane deve fermarsi, invece, di fronte a quello che avverte essere più forte di lui e dire: Dio; Dio che ha creato ogni cosa dal nulla.
La bellezza salverà il mondo ha scritto Dostoevskij. Come avviene questo? Avviene che guardando la bellezza del creato uno avverte la nostalgia della bellezza interiore perduta, vuole ritornare ad essere bello, dentro. Allora accetta Cristo, che lo rende bello, e guarderà la bellezza del creato innalzandosi alla bellezza eterna, che è Dio. Chi è brutto, volendo perversamente essere brutto, ha paura della bellezza, che è, come tale, sempre innocente. Mentre non ha paura, non fugge, dalla bellezza segnata dalle artefazioni della seduzione verso il male, ma quella non è più bellezza, perché la vera bellezza è sempre unita all'innocenza. Innocenti sono le montagne avvolte nei manti di neve. Innocenti sono gli azzurri e i blu del mare. Innocenti sono i fiori, le piante. Poi quando passiamo all'uomo l'innocenza va conquistata con la conversione a Cristo. Tutti belli i santi, belli interiormente, anche se non esteriormente; ma anche esteriormente lo diventavano per un quid che irraggiavano.
Terribile, quell’uomo che dice che è in pace con se stesso, che non è in contraddizione con se stesso, mentre è soltanto un arreso alla carne, nella quale egli esaurisce tutto se stesso negando la sua anima immortale.
Che pace invece ha chi guarda le stelle, sapendo che lassù, oltre i cieli delle stelle, oltre i cieli dei pianeti, c’è il cielo della gloria, c’è la sua patria, alla quale Cristo lo conduce.
Che pace ha quell’uomo che non si impressiona se vede sempre meno cristiani convinti, perché ha ascoltato dal Maestro queste parole e le crede: “Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno” e non cessa di camminare e attendere, anche se la maggioranza degli uomini è appiattita alla Terra; e non cessa di accumulare tesori in cielo.
Che pace ha quell’uomo che non cessa di attendere il Signore, che ritornerà. E lo aspetta anche quando il suo ritorno sembra tardare, e pare ragionevole pensare che non ritornerà. Ma ritornerà e non vorrà essere servito, ma vorrà servire i suoi servi fedeli.
Pietro, abbiamo ascoltato, disse a Gesù: “Signore, questa parabola la dici per noi o anche per tutti?”. Parole non soppesate queste di Pietro. Parole che dicono come sentisse per lui quelle che Gesù aveva detto, ma nello stesso tempo come le volesse sfuggire diluendole nella moltitudine. E in effetti erano per tutti, ma in modo particolare per i discepoli. E Gesù risponde a Pietro con un interrogativo: “Chi è dunque l’amministratore fidato e prudente, che il padrone metterà a capo della sua servitù per dare la razione di cibo a tempo debito?”.
Pietro come noi, Pietro più di noi; perché Gesù dice: “A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto a chi fu affidato molto (ecco Pietro, i vescovi, i sacerdoti) sarà richiesto molto di più”.
Pietro, amministratore fidato e prudente, ci conferma nella fede e ci sostiene nell’attesa viva del ritorno del Signore per l’ingresso, nella risurrezione, nella città celeste “dalle salde fondamenta”.
Ci conferma, non ci dà, poiché non è lui l'autore della fede, ma Cristo (Eb 12,2). Ci conferma nella fede che “è fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede”. La fede che è fondamento alla speranza; la fede che è unione con Dio, e perciò esiste nella carità. Amen. Ave Maria. Vieni, Signore Gesù.

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